quinta-feira, 1 de julho de 2010

O "pregador" Dominical


Não há dúvida nenhuma que Marcelo Rebelo de Sousa com a insistência que coloca no seu catolicismo, principalmente quando toma posições contrárias às da Igreja, é, por muitos, considerado o “pregador” Dominical de maior audiência e de entre todos o que faz “sermões” mais longos.

No Domingo passado, ao que me garantem, deu a entender que o artigo do L’ Ossevartore Romano sobre Saramago era da autoria do director desse jornal e afirmou com todas as letras que o mesmo era violentíssimo. Concluiu, justificando a sua discordância, enquanto católico, em relação ao mesmo, asseverando que Deus era muito mais misericordioso que o director do referido órgão de comunicação.

Ora convirá esclarecer algumas coisas não vão os fiéis do professor ser induzidos em erro. Em primeiro lugar o artigo[1] não é do director, Giovanni Maria Vian, mas sim de Claudio Toscani; em segundo lugar trata-se de uma crítica literária, equilibrada e fundamentada, e não de um texto violento e muito menos violentíssimo – quando, por exemplo, o crítico chama irreverências (ainda para mais com as conotações positivas que esta expressão adquiriu nos dias de hoje) às blasfémias sacrílegas de Saramago só podemos concluir que a sua “moderação” de tão excessiva peca por defeito. Violentíssimos são muitos dos textos do escritor falecido. Enfim, o “pregador” que adora lisonjear as audiências violenta o texto do crítico para ficar de bem com a esquerda ateia e marxista; Em terceiro lugar, pode não se concordar com a análise crítica de C. Toscani, mas então argumente-se e não se invoque a Misericórdia de Deus. É claro que Deus é muito mais Misericordioso do que o director do jornal da Santa Sé, infinitamente mais Misericordioso do que qualquer um de nós e, sobretudo, mais Misericordioso do que José Saramago. Acontece, porém, que também é infinitamente Justo e, sobretudo, infinitamente mais justo que o irmão Marcelo.

Como católicos sempre rezámos pela conversão de Saramago agora que ele partiu continuemos a rezar por sua alma e deixemos que os mortos sepultem os seus mortos (cf. Mateus 8, 21).


Nuno Serras Pereira

01. 07. 2010



[1] L'onnipotenza (presunta) del narratore

di Claudio Toscani


"Quello di cui la morte non potrà mai essere accusata è di aver dimenticato a tempo indeterminato nel mondo qualche vecchio, solo per invecchiare sempre di più, senza alcun merito o altro motivo visibile".

Sia pure scomparso alla rispettabile età di 87 anni, di José Saramago non si potrà dire che il destino l'abbia tenuto in vita a tutti i costi, vedi la frase succitata, tolta dal romanzo Tutti i nomi, uscito in quel 1998 che lo vide provocatorio Nobel della letteratura.

"Saramago", cognome aggiunto all'anagrafico José Sousa, era nato nel 1922 ad Azinhaga in Portogallo, da una famiglia di contadini e braccianti. Trasferitosi a Lisbona nel 1924, qui aveva compiuto i suoi studi fino al diploma di tecnico meccanico. Non particolarmente complessa né movimentata, la sua vita veniva registrando vari lavori, tra cui l'editoria; un matrimonio nel 1944; un primo romanzo nel 1947 (Terra di peccato, che disconoscerà in sede di bibliografia ufficiale); l'iscrizione al Partito comunista nel 1969 e una militanza politica clandestina sino al 1974, quando la cosiddetta "rivoluzione dei garofani" (contro la dittatura di Caetano), ristabilisce le libertà democratiche.

Cinquantacinque anni compiva Saramago al suo vero primo romanzo, Manuale di pittura e di calligrafia (1977), ma nel resto della sua vita recupererà il tempo andato imponendosi in decine e decine di opere che coerentemente convergono attorno a pochi cespiti conduttori: la Storia maiuscola in filigrana a quella del popolo; una struttura autoritaria totalmente sottomessa all'autore, più che alla voce narrante, non solo onnisciente ma anche onnipresente; una tecnica dialogica in tutto debitrice all'oralità; un intento inventivo che non si cura di celare con la fantasia l'impronta ideologica d'eterno marxista; un tono da inevitabile apocalisse il cui perturbante presagio intende celebrare il fallimento di un Creatore e della sua creazione. E, infine, una strategica modalità, tematica ed espressiva a un tempo, impegnata a rendere quel che lui stesso ha definito la "profondità della superficie": qualcosa che allude sia a quel poco che conosciamo del tanto che rivendichiamo alla ragione, ma anche quel tanto che strappiamo alla realtà di quel poco che la ragione ci permette.

Chiamando a raccolta non molti ma primari maestri (da Kafka a Borges, da Eça de Queiros a Pessoa, da Antonio Vieira a Machado), Saramago diede da subito l'elenco degli artefici della sua formazione, collocandoli senza soluzione di continuità lungo un'onda di piena al cui estuario poneva la novecentesca inquietudine della letteratura, della storia, dell'arte, della politica e della religione, oltre che di se stesso.
E per quel che riguardava la religione, uncinata com'è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago non si fece mai mancare il sostegno di uno sconfortante semplicismo teologico: se Dio è all'origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l'effetto di ogni causa.

Un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perché del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche, invece di saltare al per altro aborrito piano metafisico e incolpare, fin troppo comodamente e a parte ogni altra considerazione, un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza. Prerogative, per così dire, che ben avrebbero potuto nascondere un mistero, oltre che la divina infinità delle risposte per l'umana totalità delle domande. Ma non per lui.

Giunto tardi al romanzo, si era rifatto, come s'è detto, con una serie di narrazioni. Dal 1980 in poi, nella bibliografia dell'opera di Saramago, si transita da Memoriale del Convento a L'anno della morte di Ricardo Reis (1984), che torna alla storia del Portogallo nel 1936; da La zattera di pietra (1986), avventura ecologica e demoniaca che immagina la deriva della Spagna dell'oceano tra magico quotidiano, metafora politica e nuove soluzioni atlantiche, a Storia dell'assedio di Lisbona (1989), libro in cui un revisore editoriale, inserendo una particella negativa (un "non") in un saggio storico, dà a Saramago il destro per giocare a falsificare l'evento, più per gioco che per convinta ideologia.

È il 1991 quando, inaugurando ciò che la critica ha chiamato il suo secondo tempo, lo scrittore pubblica Vangelo secondo Gesù, sfida alla memorie del cristianesimo di cui non si sa cosa salvare se, tra l'altro, Cristo è figlio di un Padre che imperturbato lo manda al sacrificio; che sembra intendersela con Satana più che con gli uomini; che sovrintende l'universo con potestà senza misericordia. E Cristo non sa nulla di Sé se non a un passo dalla croce; e Maria Gli è stata madre occasionale; e Lazzaro è lasciato nella tomba per non destinarlo a morte suppletiva.

Irriverenza a parte, la sterilità logica, prima che teologica, di tali assunti narrativi, non produce la perseguita decostruzione ontologica, ma si ritorce in una faziosità dialettica di tale evidenza da vietargli ogni credibile scopo.

Il secondo tempo di Saramago si diversifica poi con Cecità (1995), affresco apocalittico che denuncia la notte dell'etica in cui siamo sprofondati. Poi in campo esistenziale, sia con Tutti i nomi (1997), altra apocalisse dal pessimismo assoluto sospesa su una indifferenziata comunità di morti e di vivi, sia con Il racconto dell'isola sconosciuta (1998), parabola sull'uguaglianza dell'uomo tra gli uomini. In campo intellettuale, prima con La caverna (2000), che tra Kafka, Huxley e Orwell, dispiega un allarme meno disperato del solito e addirittura aperto alla speranza; poi, con L'uomo duplicato (2003), dove colui che si scopre identico a una comparsa televisiva finisce per smarrirsi in un garbuglio fattuale, psichico e spirituale.

Avvicinandosi alla fine, Saramago ci ha lasciato un "testamentario" Saggio sulla lucidità (del 2004), critica al funzionamento, se non alla funzionalità, delle odierne democrazie, contro le quali l'autore auspica una schiacciante maggioranza di "schede bianche", la più invisa espressione di volontà politica per un potere che solo così dovrebbe deflagrare. Poi, un "giocoso" Don Giovanni o il dissoluto assolto (del 2005), ossia il ritratto di un onore sociale offeso, giacché al grande amatore non riesce, nel testo, ciò per cui è da sempre famoso.

Fertile, comunque, la discesa creativa degli anni appena precedenti la scomparsa: dall'itinerante carovana di Il viaggio dell'elefante (2009), pittoresco, umoristico e "peripatetico", all'inaccettabile Caino (2010), romanzo-saggio sull'ingiustizia di Dio, parodiante antilettura biblica, per non dire di altri titoli che andrebbero segnalati, a onor del vero, ma quasi sempre per polemica o pretesto.

Saramago è stato dunque un uomo e un intellettuale di nessuna ammissione metafisica, fino all'ultimo inchiodato in una sua pervicace fiducia nel materialismo storico, alias marxismo. Lucidamente autocollocatosi dalla parte della zizzania nell'evangelico campo di grano, si dichiarava insonne al solo pensiero delle crociate, o dell'inquisizione, dimenticando il ricordo dei gulag, delle "purghe", dei genocidi, dei samizdat culturali e religiosi. L'Osservatore Romano - 20 giugno 2010

terça-feira, 29 de junho de 2010

Filosofia e religião - “Como o ateu mais conhecido do mundo mudou de opinião"


por João Carlos Espada


17 de Abril de 2010


In http://www.ionline.pt/conteudo/55690-filosofia-e-religiao


“Como o ateu mais conhecido do mundo mudou de opinião": este é o subtítulo de um livro recente do professor Anthony Flew ("There Is a God: How the World's most Notorious Atheist Changed His Mind", 2007/2008). Não posso avaliar se ele era ou não o ateu mais conhecido do mundo, mas era seguramente bastante conhecido.

TEOLOGIA E FALSIFICAÇÃO


Em 1950, numa sessão do Oxford University Socratic Club, presidida por C. S. Lewis, Flew apresentara uma comunicação que ficou famosa: "Theology and Falsification". A tese era inspirada na teoria da refutação de Karl Popper e pretendia excluir a hipótese de existência de Deus com base no argumento de que essa hipótese não era susceptível de refutação (Popper, diga-se de passagem, nunca subscreveu esse argumento de Flew). Mais tarde, Flew desenvolveria o argumento em dois livros com bastante sucesso: "God and Philosophy" e "The Presumption of Atheism".

Durante mais de 50 anos, Anthony Flew foi sem dúvida um influente crítico da religião, bem como um filósofo respeitado, que ensinou em Oxford, Reading, Keele e Aberdeen. O anúncio público da sua conversão, em 2004, criou de facto um certo furor, sobretudo no mundo de língua inglesa. Embora muitos outros filósofos e cientistas tenham ultimamente escrito em defesa da existência de Deus, o caso de Flew assume no entanto um interesse especial. Tendo sido um reputado ateu com base na razão, agora defende que, precisamente com base na razão, foi levado a concluir que Deus existe.

EM NOME DA RAZÃO


"Agora acredito", escreve Anthony Flew, "que o universo foi trazido à existência por uma Inteligência infinita. Acredito que as intricadas leis deste universo manifestam aquilo que os cientistas têm chamado a Mente de Deus. Acredito que a vida e a reprodução têm origem numa Fonte divina." (p. 88)

Como explicar estas novas convicções de Anthony Flew, quando ele passara 50 anos a defender o contrário? A resposta é simples, diz o autor: "Esta é a visão do mundo que emerge da ciência moderna. A ciência destaca três dimensões da natureza que apontam para Deus. A primeira reside no facto de a natureza obedecer a leis. A segunda é a dimensão da vida, de seres inteligentemente organizados e que se dirigem por propósitos, que emerge da matéria. A terceira é a própria existência da natureza." (p. 89)

ABERTURA RACIONAL


Não se trata de uma mudança de paradigma, explica Anthony Flew, porque o seu paradigma continua o mesmo, ditado por Sócrates: "seguir o argumento [racional], onde quer que ele leve".

Uma questão relativamente óbvia emerge desta explicação. Se Anthony Flew sempre se pautou pelo mesmo princípio - seguir o argumento racional, onde quer que ele leve -, por que razão não foi conduzido antes à hipótese de Deus? A resposta é interessante: porque, explica ele, o seu entendimento de razão não era suficientemente aberto a todas as hipóteses explicativas para a grande pergunta "por que razão existe alguma coisa em vez de nada?".

UMA PARÁBOLA


Comecemos com uma parábola, propõe Anthony Flew. Imaginemos que um telefone por satélite aparece numa ilha habitada por uma tribo que nunca teve contacto com a civilização. Os nativos carregam ao acaso nas teclas e ouvem diferentes vozes humanas após digitarem algumas sequências. Assumem que é o instrumento que produz aquelas vozes.

Surge então um membro solitário da tribo que diverge dos outros. Este propõe outra hipótese: o aparelho está basicamente a comunicar com outros seres humanos, que existem para lá dos limites estreitos da única ilha que a tribo conhece. A tribo responde com uma gargalhada geral: isso é pura superstição. Basta ver que, uma vez destruído o aparelho, as vozes deixam de se ouvir. Logo, as vozes são produto do aparelho.

FACTOS E PRECONCEITOS


Este é um exemplo, diz Anthony Flew, de como ideias preconcebidas dão forma aos dados empíricos, em vez de se deixarem desafiar pelos dados empíricos. Algo semelhante acontece quando os ateus (como era o seu próprio caso) dizem que "não devemos procurar uma explicação para a existência do mundo, ele simplesmente existe". Ou quando "porque não podemos aceitar uma fonte transcendente da vida, simplesmente escolhemos acreditar no impossível: que a vida emergiu espontaneamente e por acidente da matéria". Ou ainda que "as leis da física são 'leis sem lei' que emergem do vazio" (pp. 85-87).

domingo, 27 de junho de 2010

Cardinal Bertone: 'No precedent even in communist regimes' , for Belgian police raid

.- On Saturday morning, Cardinal Secretary of State Tarcisio Bertone stated that the way Belgian judicial and police forces carried out a raid on the retired Archbishop of Brussels and the archdiocese's office had "no precedents even in communist regimes."

Searching for dossiers on cases of pedophilia, the police went so far as to break open the tombs of Cardinals Jozef-Ernest Van Roey and Leon-Josephy Suenens with pneumatic hammers. The Belgian police also prevented bishops and others in a meeting at the archdiocesan offices from leaving the meeting room for nine hours.

Away from the podium of a conference of university professors in Rome where he made a presentation on Saturday morning, Vatican Secretary of State Cardinal Tarcisio Bertone was asked for comment on the recent search of Archbishop Andre-Joseph Leonard's offices in Mechelen.

He called the lockdown "a kidnapping, a grave and inconceivable fact," according to L'Osservatore Romano, the Vatican's semi-official newspaper.

"There are no precedents even in communist regimes," he said of the methods used during the search, which saw the authorities confiscate confidential files collected by the archdiocesan-sponsored commission investigating the matters.

Repeating the condemnation of the Church for acts of sexual abuse against minors, Cardinal Bertone expressed his regret that they were allowed neither food nor water during the entirety of the search.