Nel 325 il Concilio di Nicea definì la consustanzialità (homooùsion) del Padre e del Figlio, ossia decretò che il Padre e il Figlio hanno la medesima natura divina. Il termine homooùsion
era dottrinalmente perfetto per indicare la consustanzialità del Padre e
del Figlio e confutare l’eresia ariana, secondo cui il Padre,
ingenerato, non poteva condividere con altri la propria ousìa, cioè la propria sostanza divina. Il termine homooùsion
era dunque l’unica parola che gli ariani non potevano pronunciare senza
rinunciare alla loro eresia e perciò divenne la cartina al tornasole
dell’ortodossia cattolica.
Il Concilio di Nicea fu convocato dall’imperatore Costantino, il
quale incoraggiò fortemente la definizione della consustanzialità del
Padre e del Figlio. Sant’Ilario afferma che, al Concilio di Nicea, “80
vescovi rigettarono il termine consustanziale, ma 318
l’approvarono”. Di questi ultimi, però un buon numero sottoscrissero il
Credo solo come un atto di sottomissione all’imperatore. M. L. Cozens
commenta: “Uomini di mondo, essi non amavano la precisione dogmatica e
volevano una formula che poteva esser sottoscritta da uomini con idee
diverse, potendola interpretare in sensi diversi. Per costoro, tanto la
fede precisa ed esatta di un Atanasio quanto l’ostinata eresia di Ario e
dei suoi seguaci erano ugualmente intollerabili. Rispetto, tolleranza,
liberalità: questo era il loro ideale della religione. Perciò essi
proposero, invece del troppo definitivo ed inestirpabile homooùsion – della stessa sostanza –, il vago termine homoioùsion,
di una “sostanza simile”. Essi […] usavano un linguaggio apparentemente
ortodosso, proclamando di credere nella divinità di Nostro Signore,
attribuendogli ogni divina prerogativa, anatemizzando tutti coloro che
dicevano che Egli era stato creato nel tempo (Ario sosteneva che Cristo
era stato creato prima del tempo): in breve, dicendo quanto di più
ortodosso possa immaginarsi, salvo la sostituzione del loro homoioùsion con l’ homooùsion di Nicea”[1].
Sia tra i Vescovi che tra i fedeli si diffuse la convinzione che la distinzione tra i due termini (il cattolico homooùsion e l’ariano homoioùsion) stesse
sollevando un conflitto inutile. Essi consideravano oltremodo dannoso
dividere la Chiesa solo per un iota! Ma intanto i veri cattolici, tra i
quali, in prima fila, sant’Atanasio, “con fermezza si rifiutarono di
accettare qualunque dichiarazione che non contenesse l’homooùsion o di comunicare con coloro che lo negavano”[2].
Sant’Atanasio aveva ragione. Quella sola lettera, quell’iota,
rappresentava la differenza tra la Cristianità fondata su Gesù Cristo,
Verbo di Dio fatto carne, e una religione fondata su un’altra creatura,
perché negare la divinità di Cristo significa negare tutto il
cristianesimo.
Atanasio fu per tutta la vita testimone e strenuo difensore dei
principi stabiliti dal Concilio niceno, e per questa sua fermezza
dovette subire diverse condanne all’esilio negli anni che vanno dalla
sua nomina a vescovo e patriarca di Alessandria d’Egitto, nel 328, fino
alla sua morte.
Dopo papa Giulio I (337-352), che sostenne coraggiosamente la fede
di Nicea e la causa di Atanasio, l’ascesa al pontificato di papa Liberio
(352) e quella quasi contemporanea (350) all’impero di Costanzo II,
imperatore filo-ariano, ne segnarono la sorte.
Inizialmente Liberio appoggiò la causa di Atanasio e, a tal fine,
chiese all’imperatore la convocazione di un primo Concilio ad Arles
(353-354) ed un secondo – a più vasto raggio – a Milano (355). In
entrambi, a causa delle pressioni dell’imperatore ariano, Atanasio fu
condannato. Quando si impose per riabilitarlo, il Papa fu esiliato in
Tracia (355) dove rimase 2 anni. E qui avvenne ciò che è passato alla
storia come la “caduta di un Papa”.
Lo storico Filostorgio, nella sua Storia ecclesiastica, attesta che Liberio poté rinsediarsi a Roma solo dopo aver sottoscritto una formula di compromesso che rifiutava il termine homooùsion. San Girolamo, nella sua Cronaca,
afferma che Liberio “vinto dalla noia dell’esilio, dopo aver
sottoscritto l’eresia rientrò a Roma in trionfo”. Atanasio, verso la
fine del 357, scrisse: “Liberio, dopo essere stato esiliato, tornò dopo
due anni, e, per paura della morte con la quale fu minacciato, firmò”
(la condanna dello stesso Atanasio) (Hist. Ar., XLI). Sant’Ilario
di Poitiers nel 360 scriveva a Costanzo: “Io non so quale sia stata
l’empietà più grande, se il suo esilio o la sua restaurazione” (Contra Const.,
II). Come osserva il Duchesne, quella di Liberio fu non solo “una
debolezza”, ma piuttosto “una caduta”. Ecco la descrizione che ne dà il
Butler: “[…] Liberio iniziò ad affondare sotto le sofferenze dell’esilio
e la sua risoluzione (contro gli ariani e a favore di Atanasio, ndr) fu
provata dalle continue sollecitazioni di Demofilo, vescovo ariano di
Beroea, e di Fortunato, vescovo temporeggiatore di Aquileia. Ascoltando
suggestioni e lusinghe a cui doveva con orrore rifiutare di porger
l’orecchio, egli si indebolì al punto di cedere alla tentazione con
grave scandalo della Chiesa intera. Egli sottoscrisse la condanna di
Atanasio e una confessione o un credo redatto dagli ariani a Sirmio,
benché l’eresia non fosse espressa in esso. E scrisse ai Vescovi ariani
orientali di aver ricevuto la vera fede cattolica che molti vescovi
avevano approvato a Sirmio. La caduta di un tale prelato e un tale
confessore è un terrificante esempio dell’umana debolezza, che nessuno
può richiamare alla mente senza tremare. San Pietro cadde per una
presuntuosa confidenza nella propria forza e nelle proprie risoluzioni,
affinché noi imparassimo che si può stare in piedi solo con l’umiltà”[3].
Benché diversi storici abbiano tentato di scagionare e assolvere
Liberio, un’autorità come il cardinal John Henry Newman non dubita di
affermare che “la caduta di Liberio è un fatto storico”[4].
“Tutto fa pensare che Liberio abbia accettato la prima formula di
Smirne del 351 (ossia un credo ariano, ndr)… egli peccò gravemente
evitando deliberatamente l’uso del più caratteristico termine della fede
di Nicea e in particolare dell’ homooùsion. Pertanto, benché non
si possa dire che Liberio insegnasse una falsa dottrina, è necessario
ammettere che, per timore e debolezza, non rese giustizia alla verità
tutta intera”[5].
Ma la caduta di Liberio va considerata nel quadro della defezione
generale della maggioranza dell’episcopato del tempo, cosa che fa
risaltare ancora una volta l’eroismo di Atanasio. Nella V Appendice del
suo “Ariani del IV secolo”, così riporta il cardinal Newman: A.D. 360:
San Gregorio Nazianzeno afferma, più o meno in questo periodo: “I
pastori hanno certamente fatto cose folli; poiché, a parte pochi, i
quali o per la loro insignificanza furono ignorati, o per la loro virtù
resistettero e furono lasciati come un seme e una radice per la
rifioritura e rinascita di Israele sotto l’influenza dello Spirito
Santo, tutti cedettero al compromesso, con la sola differenza che alcuni
cedettero subito e altri dopo; alcuni furono campioni e guide
nell’empietà e altri si aggregarono a battaglia già iniziata, succubi
della paura, dell’interesse, delle lusinghe o – ciò che è più scusabile –
dell’ignoranza (Orat. XXI.24).
Cappadocia. San Basilio afferma circa nell’anno 372: “I fedeli stanno
in silenzio, ma ogni lingua blasfema è libera di parlare. Le cose sacre
sono profanate. I laici davvero cattolici evitano i luoghi di preghiera
come scuole di empietà e sollevano le braccia in preghiera a Dio nella
solitudine, gemendo e piangendo” (Ep. 92). Quattro anni dopo
aggiunge: “Le cose sono giunte a questo punto: la gente ha abbandonato i
luoghi di preghiera e si è radunata nel deserto. È uno spettacolo
triste. Donne e bambini, vecchi ed infermi, soffrono all’aria aperta, in
inverno sotto la pioggia, la neve, il vento e le intemperie e, in
estate, sotto un sole cocente: essi sopportano tutto ciò perché non
vogliono aver parte al cattivo fermento ariano” (Ep. 242). E
ancora: “Solo un peccato è ora gravemente punito: l’attenta osservanza
delle tradizioni dei nostri Padri. Per tale ragione i buoni sono
allontanati dai loro paesi e portati nel deserto” (Ep. 243).
Nella medesima Appendice, il cardinal Newman non dubita di
sottolineare come, durante la crisi ariana, la sacra tradizione fu
mantenuta dai fedeli più che dall’episcopato, ossia – contrariamente
alla norma – dalla Chiesa docta più che dalla Chiesa docens.
Scrive: “Non è di poco rilievo il fatto che, benché dal punto di vista
storico il IV secolo sia stato illuminato da santi e dottori quali
Atanasio, Ilario, i due Gregori, Basilio, Crisostomo, Ambrogio, Girolamo
e Agostino (tutti vescovi eccetto uno), tuttavia proprio in questo
periodo la divina Tradizione affidata alla Chiesa infallibile fu
proclamata e mantenuta molto più dai fedeli che dall’episcopato.
Intendo dire che […] in quel tempo di immensa confusione il dogma divino
della divinità di Nostro Signore Gesù Cristo fu proclamato, imposto,
mantenuto e (umanamente parlando) preservato molto più dalla Ecclesia docta che dalla Ecclesia docens;
che gran parte dell’episcopato fu infedele al suo mandato, mentre il
popolo rimase fedele al suo battesimo; che a volte il Papa, a volte i
patriarchi, metropoliti o vescovi, a volte gli stessi Concili[6]
dichiararono ciò che non avrebbero dovuto o fecero cose che oscuravano o
compromettevano la verità rivelata. Mentre, al contrario, il popolo
cristiano, guidato dalla Provvidenza, fu la forza ecclesiale che
sorresse Atanasio, Eusebio di Vercelli ed altri grandi solitari che non
avrebbero resistito senza il loro sostegno. In un certo senso si può
dire che vi fu una “sospensione temporanea”[7] delle funzioni della Ecclesia docens. La maggior parte dell’episcopato aveva mancato nel confessare la vera fede”.
La caduta di Liberio, la resistenza di Atanasio, la fortezza del
popolo fedele al tempo dell’arianesimo costituiscono una lezione per
ogni tempo. Ancora Newman, nel luglio del 1859, scriveva sul Rambler:
“Nel tempo dell’eresia ariana vedo un palmare esempio di uno stato
della Chiesa nel quale, per conoscere la tradizione degli apostoli,
bisognava ricorrere al popolo fedele, […] La sua voce perciò è la voce
della tradizione”.
Questa voce ebbe in Atanasio una guida possente che non tollerava
compromessi. Ai cristiani tiepidi non esitava a dire: “Volete essere
figli della luce, ma non rinunciate ad essere figli del mondo. Dovreste
credere alla penitenza, ma voi credete alla felicità dei tempi nuovi.
Dovreste parlare della grazia, ma voi preferite parlare del progresso
umano. Dovreste annunciare Dio, ma preferite predicare l’uomo e
l’umanità. Portare il nome di Cristo, ma sarebbe più giusto se portaste
il nome di Pilato. Siete la grande corruzione, perché state nel mezzo.
Volete stare nel mezzo tra la luce e il mondo. Siete maestri del
compromesso e marciate col mondo. Io vi dico: fareste meglio ad
andarvene col mondo ed abbandonare il Maestro, il cui regno non è di
questo mondo”[8].
La storia della crisi ariana è di sorprendente attualità. “Ciò che
avvenne allora, più di 1600 anni or sono, si ripete oggi, però con due o
tre differenze. Alessandria rappresenta, oggi, l’intera Chiesa, scossa
nelle sue fondamenta; ed i fatti di violenza fisica e di crudeltà
interessano un’altra sfera. L’esilio si cambia in un silenzio mortale e
l’assassinio è sostituito dalla calunnia, pure mortale”[9].
Con queste parole monsignor Rudolf Graber, vescovo di Regensburg, già
negli anni ’70 paragonava la complessa e devastante crisi del IV secolo
con la silenziosa apostasia del nostro tempo.
Scrivendo ai tempi di Atanasio, san Girolamo stigmatizzò la crisi ariana con queste celebri memorande parole: “Ingemuit totus orbis et arianum se esse miratus est”,
il mondo intero gemette e si meravigliò di trovarsi ariano. Il fatto
più stupefacente del nostro tempo, in cui assistiamo ad un’autentica
disgregazione del cristianesimo, assai peggiore dell’arianesimo, è che –
salvo poche eccezioni – nessuno geme e nessuno sembra meravigliarsi. Al
contrario, davanti al generale disfacimento, che nessun fedele dotato
di senso comune può negare, si continuano ad intonare vecchi e nuovi
peana in onore di una Chiesa finalmente uscita dalle catacombe, immemori
che la crisi ariana iniziò proprio quando terminarono le persecuzioni.
La storia ariana si ripresenta ai nostri giorni in toni molto più
drammatici. Nel IV secolo, “La Provvidenza mandò al mondo un siffatto
uomo (Atanasio), mentre la bufera urlava sempre più forte e le colonne
della Chiesa erano scosse e s’inclinavano, ed i muri santi minacciavano
di crollare e sembrava che le potenze dell’abisso e le forze dell’alto
facessero sparire la Chiesa dalla faccia della terra. Ma un uomo
resistette come un macigno in mezzo ai marosi che s’infrangevano; un
uomo fu sempre sulla breccia: Atanasio! Egli, Atanasio, brandì la spada
di Dio sull’Oriente e sull’Occidente”[10]. Forse la vera tragedia del nostro tempo è quella di non avere un altro Atanasio. (Cristiana de Magistris su onciliovaticanosecondo.it
[1] M. L. Cozen, A Handbook of Heresies, Londra 1960, pp. 35-36.
[2] Ibidem.
[3] A. Butler, The Lives of the Saints, Londra 1934, II, p. 10.
[4] J. H. Newman, Arians of the Fourth Century, Londra 1876, p. 464 (traduzione nostra).
[5] New Catholic Encyclopedia, New York 1967, VIII, 715, col. 2.
[6] Newman non si riferisce a Concili ecumenici, ma a quei Concili che radunavano un ingente numero di Vescovi locali.
[7] Newman spiega che con l’espressione “sopensione temporanea delle funzioni della Ecclesia docens”
egli intende dire che “di fatto non vi fu alcuna autorevole
pronunciamento della voce della Chiesa infallibile tra il concilio di
Nicea (325) e quello di Costantinopoli (381).
[8] Cf K. Flam, Atanasio viene nella metropoli, in una fossa di belve, Breslavia 1930, p 84.
[9] R. Graber, Sant’Atanasio e la Chiesa del nostro tempo, Brescia 1974, p. 29.
[10] K. Kirch, citato da R. Graber, op. cit., p. 17.