... È certamente riconosciuto dalla coscienza in
generale l’esigenza di esprimere il proprio voto liberamente, cioè svincolato
da suggestioni e da pressioni spesso veicolate da minoranze che hanno l’abilità
di non apparire tali. La biopolitica è oramai una frontiera immancabile di
qualsiasi programma. Francia, Spagna, Inghilterra, Stati Uniti…, per limitarci
a questi soli Paesi, ci dicono che non si può far finta di accantonare i
problemi quando sono semplicemente nodali nelle società post-moderne. Parlare
di vita, salute, malattia, stati cosiddetti vegetativi, dolore, previsione
infausta, medicina palliativa, invasività delle diagnosi, disabilità, rapporto
medico-ammalato, ma anche di medicina e bilancio dello Stato, obiezione di
coscienza, politica dei trapianti… significa affrontare temi cruciali che tali
saranno sempre di più. Insieme a quello scandaloso – per le evidenze che
vorrebbe ignorare – dell’aborto, della maternità surrogata, dell’eutanasia
attiva o passiva. Andando sul concreto, quanti aborti e quanti tentazioni
eutanasiche si verificano a motivo del primato economicista? Non ha senso
nascondere gli argomenti, riconoscendo invece cittadinanza elettorale solo
all’economia, in quanto fenomeno che obiettivamente brucia. Si parla ovunque di
biopolitica e di biodiritto; perché non concepire anche l’economia come
bioeconomia? Linee di compromesso, o peggio di baratto tra economia ed etica
della vita, a scapito della seconda, sarebbero gravi. Senza il primato
antropologico non solo la finanza e l’economia sarebbero oppressive perché
ridurrebbero la persona in termini di costi e ricavi, ma anche lo stato sociale
nascerebbe su basi anguste e riduttive.
Né ci si può illudere di neutralizzare in partenza
il dibattito, acquisendo all’interno delle varie formazioni orientamenti così
diversi da annullare potenzialmente le posizioni, o prevedere al massimo il
ricorso pur apprezzabile all’obiezione di coscienza. Viene qui spontanea una
analogia con la famiglia: come questa ha un volto, un’identità fatta dal suo
modo di ragionare, di amare e di agire, così è della società e dello Stato se
vogliono essere una comunità, e non solo un agglomerato di interessi o istanze
particolari. In questa seconda ipotesi, lo Stato potrà solo cercare di “tenere
a bada” gli appetiti contrastanti dei singoli soggetti o parti, allergici ad un
progetto di bene comune. Il suo massimo merito sarebbe in questo caso di
bilanciare non di costruire. Ma la famiglia – riferimento principale
dell’analogia – non è questo! La famiglia è una scelta d’amore che – in un
progetto comune – diventa patto tra un uomo e una donna nel matrimonio.
Similmente, anche la società deve avere alla base un
progetto di bene comune, altrimenti cadrà fatalmente in balia di pressioni o
interessi contrastanti, dove sarà ascoltato ed esaudito chi fa la voce più
forte e insistente. Ora, alla radice del bene comune troviamo le realtà primarie
della vita, della famiglia e della libertà, che si intrecciano e si richiamano
universalmente perché sono valori fondativi e quindi irrinunciabili dell’umano.
Si potrebbe dire che l’inviolabilità della vita è il principio, la famiglia ne
è il grembo sorgivo, la libertà la condizione prima di sviluppo. Tutto il resto
viene di conseguenza. Quando la Chiesa si interessa dell’inizio e della fine
della vita, lo fa anche per salvaguardare il “durante”, perché ciò che le sta a
cuore è tutto l’uomo, la cui dignità non è a corrente alternata. Sviluppando la
precedente metafora, nella famiglia nasce la vita, viene accudita con amore e
dedizione, fedeltà e gioia, tanto più quanto essa si presenta fragile e
indifesa. La piccola vita – come la vita malata o anziana – è sentita parte
viva e cara del corpo familiare poiché ognuno è importante, e sta a cuore agli
altri per quello che è, non per ciò che fa o produce. Così deve essere nel
corpo sociale e nello Stato. Lasciar andare alla deriva la vita fragile, che
non ha neppure la voce o il volto da opporre per affermare se stessa, rivela
un’autocomprensione efficientista e arrogante dello Stato, una sua inquietante
carta d’identità, pur se il tutto è spesso motivato con ragioni alte. È qui in
questione non la sofferenza e il dramma di persone concrete, ma il porsi – e
prima ancora il concepirsi – di uno Stato verso i suoi membri. La fotografia
realista di una società è determinata anzitutto dal suo rapportarsi virtuoso
non verso i soggetti efficienti, produttivi e gagliardi, ma verso i più
bisognosi e indifesi. Sta qui la sua prima e incancellabile verità. E non in
termini di assistenza, ma di giustizia poiché questo è lo scopo della buona
politica. La vita fragile interpella non solo la famiglia, che già se ne fa
carico, ma la società intera. Chiede alla comunità e ai suoi apparati
istituzionali di non essere abbandonata ma di essere presa “a cuore”. È
evidente che ciò rappresenta un impegno per la collettività in termini di
risorse economiche e assistenziali; come è evidente che tali vite spesso non
avranno da ricambiare con compensi o consenso. Ma la vera risposta sta nel
fatto che la società avrà fatto il proprio dovere, paga di essere umana. Ecco
perché quando si giunge di fronte alla grande porta dei fondamentali dell’umano,
non è possibile il silenzio da parte di alcuno, persone e istituzioni: si è
arrivati al “dunque”. Reticenze o scorciatoie non sono possibili: bisogna dire
il volto che si vuole dare allo Stato, se è una famiglia di persone o un
groviglio di interessi; se un agglomerato di individui o una rete di relazioni
su cui ciascuno sa di poter contare, specialmente nelle fasi di maggiore
fragilità.
1.
Certo la difesa dei
diritti ha fatto grandi progressi, e dunque in qualche modo può ritenersi un
dato basilare unificante le diverse formazioni e diversi gruppi. Ma come non
riconoscere una singolare tendenza arbitrariamente selettiva di quanto viene
proposto come irrinunciabile e innegoziabile? Ecco perché la già evocata
«questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica» (Benedetto
XVI, Caritas in veritate, n. 75). Dobbiamo stare attenti che una certa
cultura nebulosa non ci annebbi la vista, inducendoci a non riconoscere più,
tra i principi che mandano avanti la società, i fondamenti che non sono confessionali,
come si insiste a dire, ma semplicemente di ordine razionale. Anzi, è
necessario che in un momento elettorale si certifichi dove essi trovano dimora.
Si tratta della vita, come ho detto, dal suo concepimento alla morte naturale,
dunque la rinuncia all’eutanasia comunque si presenti, la libertà di coscienza
e di educazione, la famiglia basata sul vincolo del matrimonio tra l’uomo e la
donna, la giustizia uguale per tutti, la pace. Sono le determinazioni
storico-pratiche o principi basilari, dunque non negoziabili, per i quali c’è
un fondamento, oltre che nella ragione, nella nostra stessa Costituzione, e ai
quali tutti gli uomini di buona volontà debbono attenersi. Chiunque si rifà al
bene comune immediato non può non considerarli per ciò che sono, ossia valori
non derogabili sul piano della civiltà politica, pena un arretramento
antropologico e sociale. Perché la Chiesa insiste tanto? Perché ha a cuore
l’uomo! Perché è chiamata a rappresentare «la memoria dell’essere uomini di
fronte a una civiltà dell’oblio, che ormai conosce soltanto se stessa e il
proprio criterio di misura. […] La Chiesa certamente non ha soluzioni pronte
per le singole questioni. Insieme alle altre forze sociali, essa lotterà per le
risposte che maggiormente corrispondano alla giusta misura dell’essere umano.
Ciò che essa ha individuato come valori fondamentali, costitutivi e non
negoziabili dell’esistenza umana, lo deve difendere con la massima chiarezza.
Deve fare tutto il possibile per creare una convinzione che poi possa tradursi
in azione politica» (Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana, 21
dicembre 2012). Su questi principi i cattolici sanno che non esiste compromesso
o mediazione comunque si voglia chiamare, poiché ne va dell’umano nella sua
radice. Per questo la Chiesa è “avanguardia”. Si sente ripetere che questi sono
valori “divisivi” mentre quelli sociali sarebbero “unitivi”: in realtà, i
valori sociali dei quali abbiamo parlato sopra e che la Chiesa conosce e
pratica fin dal suo nascere (cfr At 2) stanno in piedi se a monte c’è il
rispetto della dignità inviolabile della persona. Fa specie che taluno
consideri tali principi come retaggio clericale quando sono le garanzie ultime
per gli indifesi e i senza diritto di parola. In questa cornice, ci pare senza
dubbio importante la campagna «Uno di noi» che partirà prossimamente e vuole
portare nelle sedi comunitarie l’istanza della vita, senza più selezioni. Così
come stupisce che si programmi fin d’ora di discostarsi da essi, quale
passaggio necessario per “entrare” a pieno titolo nell’Europa evoluta. Ma
l’evoluzione e il progresso consistono nel negare i valori umani? E perché
dovremmo noi inseguire e copiare qualcuno che, abdicando ad essi, si è
allontanato dal circuito valoriale ed è entrato in un assolutismo del relativo,
del precario, del soggettivo, rischiando di congedarsi dalla storia? Gli esiti
sociali riscontrabili di quella impostazione ci legittimano a tanto? Perché si
dovrebbe «contenere» l’Europa – per altro necessaria – quando avanza pretese
esigenti sul fronte – ad esempio – delle regole sul lavoro, ed assecondarla
invece quando vorrebbe decidere dell’equilibrio esistenziale della nostra umana
esperienza? Fa pensare la Caritas in veritate quando avverte: «Come ci
si potrà stupire dell’indifferenza per le situazioni umane di degrado, se
l’indifferenza caratterizza persino il nostro atteggiamento verso ciò che è
umano e ciò che non lo è?» (ib). Come Vescovi, sentiamo di dover far
nostro l’invito proveniente oggi anche da soggetti insospettabile, di non lasciarci
dividere dal secolarismo piegato in versione nichilista. La crisi in atto – che
in ultima istanza può essere vinta solo con la cultura della vita (cfr Messaggio
CEI per la Giornata della vita 2013), ci ricorda che senza un’apertura al
trascendente l’uomo diventa incapace alla lunga di agire per la giustizia (cfr.
Benedetto XVI, Discorso a Justitia et Pax cit.). Dunque, il bene comune
immanente che tenacemente va perseguito, deve mantenere i cieli aperti perché
questo procura perentorietà e dedizione all’iniziativa dei singoli.
2.
La madre di tutte le
crisi è l’individualismo. E questo è figlio della cultura nichilista per cui
tutto è moralmente equivalente, nulla vi sarebbe di oggettivo e di universale
valido e obbligante. È questo il tarlo più o meno mascherato che sta
modificando dal di dentro gli assetti dell’orientamento comune e delle prassi
sociali. Nel suo congenito utilitarismo, l’ideologia individualistica
concepisce «la persona come un essere fluido, senza consistenza permanente»,
per la quale non c’è una natura precostituita, è il soggetto a crearsela (cfr.
Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana cit.). In realtà, è la cultura
del limite quella che viene rimossa, in quanto ritenuta negazione della libertà
individuale e dello slancio vitale. Dunque,
non conveniente e ingiusta. Si tratta – a ben vedere – di una sorta di
moderno delirio di onnipotenza che nella storia umana è già stato più volte
sperimentato. Una distorsione radicale del desiderio di libertà e di
autorealizzazione, una sorta di fuga dal realismo fattuale e dalla ragione
stessa. Di qui l’incapacità di legami veri, in cui l’altro sia non solo la
proiezione o lo specchio di sé, ma il terminale di una relazione a misura
intera dell’essere. Si annida qui un’idea bugiarda e infondata di un’autonomia
personale che accetta di entrare in comunicazione con l’altro solo potendola –
la comunicazione – interrompere in ogni momento (cfr ib). Ovvio che
tutto questo abbia una ricaduta pesante sull’esperienza familiare e le sue
possibilità di tenuta, ma prima ancora sulla prospettiva di potervi tener fede.
Ed è uno dei motivi del calo dei matrimoni, di cui pure si è parlato negli
ultimi mesi, ma anche della grave situazione demografica. Peccato che, nei
giorni successivi, l’argomento sia rapidamente scomparso dal dibattito
pubblico, quasi fosse un tema tra mille altri, e non ci si sia interrogati
adeguatamente sulle proiezioni in termini di futuro di questa sottovalutazione.
Ed ecco anche uno dei motivi per cui si continua a riproporre il tema dei matrimoni
omosessuali, quasi si trattasse di un approdo inevitabile. La famiglia precede
lo Stato, in quanto è un istituto dotato di una sua naturalità per nulla
convenzionale, perché iscritta nel codice addirittura fisico della persona: le
differenze sessuali, infatti, si richiamano vicendevolmente in vista di un
mutuo completamento nel segno dell’amore che è accoglienza e dono, grembo di
nuove vite da generare e educare. Il diritto del bambino – non al bambino – viene
prima di ogni desiderio individuale.
La famiglia si è mostrata ancora una volta come l’elemento
fondamentale per la coesione sociale delle diverse generazioni, la cellula
primordiale e il patrimonio incomparabile su cui poggia la società. Per queste
ragioni nulla può esserle equiparata, né tanto né poco. Né può essere
indebolita da ideologie antifamiliari o simil-familiari, che vorrebbero
ridefinire la famiglia e il matrimonio mutando l’alfabeto naturale e istituendo
modelli alternativi che la umilierebbero alimentando il disorientamento educativo.
Si sente dire che “dove c’è amore c’è famiglia”. Mi sembra un’affermazione
suggestiva ma qualunquista, perché la coppia – per fare famiglia – oltre l’amore
richiede anche altri elementi costitutivi: capacità, doveri e diritti, su cui
la società conta e per i quali s'impegna. Tutto ciò appartiene a quel senso
comune in grado di sfidare qualunque sollecitazione: semmai ha solo bisogno di
essere confortato e consolidato. Dispiace, a dire il vero, che tutto questo non
si voglia comprendere, come se la Chiesa nutrisse degli ostinati
pregiudizi. Ma se esistono lucidità
intellettuale e onestà morale, perché non è dichiarato apertamente ciò che ad
arte viene taciuto, seppur faccia qua e là capolino? E cioè, se la natura dell’uomo
non esiste, allora si può fare tutto, non solo ipotizzare il matrimonio tra
persone dello stesso sesso. La recente sentenza della Cassazione
sull’adottabilità da parte delle coppie omosessuali, oltre ad essere stata
immotivatamente ampliata nella propria valenza, non può certo mutare la domanda
innata di ogni bambino: quella di crescere con un papà e una mamma nella ricca
armonia delle differenze. C’è in giro una notevole confusione, perché si pensa
che la realtà sia superata, che nessuna verità esista, ma se ciò è vero –
avverte Spaemann – allora tutto diventa questione di potere. Ed è ciò che sta
sotto i nostri occhi, ma è anche ciò che la Chiesa, «esperta in umanità» (Paolo
VI, Discorso all’Assemblea dell’Onu, 4 ottobre 1965), non potrà mai
accettare: «La verità per noi è più importante della derisione del mondo»
(Benedetto XVI, Omelia all’Epifania cit.). E questo non per opporsi al
mondo moderno con le sue luci e conquiste, i suoi aneliti giusti e nobili, ma
per lo stesso amore che ha spinto il Samaritano del Vangelo a farsi umilmente prossimo.
Così come il venerabile Paolo VI disse al termine del Concilio Vaticano II: «L’antica
storia del Samaritano è stato il paradigma della spiritualità del Concilio. Una
simpatia immensa lo ha tutto pervaso […]. Questo Concilio tutto si risolve nel
suo conclusivo significato religioso, altro non essendo che un potente e
amichevole invito all’umanità d’oggi a ritrovare […] quel Dio “dal Quale
allontanarsi è cadere, al Quale rivolgersi è risorgere, nel Quale rimanere è
stare saldi, al Quale ritornare è rinascere, nel Quale abitare è vivere”
(Sant’Agostino, Soliloqui, I,1 3)» (7 dicembre1965). ...