Il Papa ci lascia una straordinaria eredità di umanità. Una umanità
fatta innanzitutto dalla intensità della sua fede personale in Gesù
Cristo, che poi è l’aspetto più imponente dell’annunzio che ha dato. La
fedeltà al Signore Gesù Cristo, un’umile appassionata appartenenza alla
Chiesa e il servizio ad essa in tutte le funzioni che ha avuto, fino a
quest’ultima, certamente non attesa ma abbracciata con un senso profondo
di obbedienza al mistero di Cristo. Una umanità che si rinnova
quotidianamente nell’esperienza della fede e della compagnia ecclesiale,
proprio come mi ha insegnato per 50 anni don Giussani.
E’ un momento di umanità che è offerto a tutti gli uomini di buona volontà. Incontro quotidianamente decine di laici, qualificati o meno, che sono stati vivamente toccati dalla presenza e dal magistero di questo Papa. Toccati soprattutto per questa sua radicale proposizione della ragione: della ragione aperta al Mistero, della ragione che sente lontano ma incombente il Mistero, e che perciò non accetta più di essere una macchinetta che funziona organizzando oggetti di conoscenza e manipolandoli tecnologicamente quando è possibile manipolarli. Anche gli oggetti umani, perché la vita - così come il Papa quotidianamente ha accusato - è ridotta a oggetto biologico da sottoporre senza nessuna regola alle manipolazioni che si ritengono giuste per la terapia della malattia, ma soprattutto per le ricerche scientifiche, del presente e del futuro. Una ragione vibrante, la ragione che nasce dal cuore che esprime il cuore, e che cammina verso il senso ultimo della vita misteriosamente celato al di là della realtà, ma pur presente nella realtà.
Questa sua straordinaria testimonianza di fede e di umanità ha avuto nella formulazione della carità il suo punto più alto. La carità che è Dio, è Dio vivo, è il Dio vivente in Gesù Cristo, è il Dio vivente in tutti coloro che credono in Lui, e che perciò partecipano di questa assoluta novità di coscienza e di cuore, che è la coscienza e il cuore del Signore Gesù Cristo: «Noi abbiamo il sentimento di Cristo», diceva San Paolo. E la carità verso gli uomini - che ha dimostrato anche con l’amabilità del suo entrare a contatto con le centinaia di migliaia che l’hanno potuto accostare anche solo per pochi istanti -, la carità verso gli altri è un dilatare agli uomini quella profondità di vita nuova che è dentro il cuore del credente e che non può essere trattenuta dentro il cuore del credente. Per sua forza, per sua logica tende a debordare dalla vita della persona e a entrare nel mondo e a creare rapporti nuovi e definitivi sul ritmo della umanità e del rispetto e non sul ritmo della violenza e del possesso, che sembrano essere l’unica logica del mondo in cui viviamo.
Questa grande testimonianza ha avuto il punto terminale, inaspettato, sconvolgente nelle dimissioni che sono state in linea perfetta con questa volontà di dedizione alla Chiesa, con la consapevolezza umile e realistica di non riuscire più a vivere in modo adeguato, a onorare in modo adeguato, questo servizio pontificale per l’unità della Chiesa, per la sua verità, per la sua carità, per la comunione che deve animare la vita della Chiesa universale e delle Chiese particolari, che trova nel Papa il punto ultimo di riferimento: «Quella Chiesa che presiede a tutte le altre nella vita della carità», come dicevano gli apologeti e poi i primi padri della Chiesa.
Certo, il compito che attende il successore è un compito grande: certamente quello di evolvere, di maturare, di far passare ancora con maggiore decisione questa grande testimonianza di fede e di umanità nelle cellule vive della Chiesa cattolica. E l’Anno della Fede è l’ultima, bellissima, intuizione di papa Benedetto: questo ritorno alla presenza di Cristo, questa sequela di Lui, sequela formulata - come ebbe a formularla nel Sinodo dei vescovi - in conversione dell’intelligenza e del cuore. L’Anno della Fede sintetizza il suo cammino di Papa e lo sintetizza in modo operativo ed educativo, quindi va portata avanti questa ripresa radicale della fede come evento da incontrare e da vivere e non quindi ridotto in indicazioni, sentimenti, prospettive di carattere spiritualistico, individualistico e meno che mai a progetti di carattere sociologico, come indicava con grande chiarezza all’inizio della Deus Caritas Est. Certo, il Papa sa bene le fatiche della Chiesa - e qualcosa traspare, pur nel pudore totale della sua comunicazione -, sa bene le fatiche, quelle difficoltà spirituali che hanno gravato anzitutto e soprattutto sulle sue spalle, con un peso che certamente io credo lo abbia fatto faticare più di una volta.
La Chiesa ha ora bisogno di un Papa che proceda in modo rigoroso e veloce – se così posso dire – a una riforma intellettuale e morale della Chiesa stessa, ma innanzitutto dell’episcopato e del clero. C’è bisogno di una forte coscienza della novità cristiana, che diventi cultura, criterio di giudizio, criterio di comportamento, capacità di interlocuzione con il mondo fuori della Chiesa, capacità di vicinanza e di denuncia nei confronti di questa cristianofobia che è stata più di una volta indicata da Benedetto XVI come il contesto che sta diventando normale nella vita delle Chiese in tutti i continenti.
C’è bisogno di una riforma intellettuale e morale: io mi sono permesso durante la visita ad limina (lo scorso 4 febbraio, ndr) di sottolineare l’importanza che si cali nell’ambito dei seminari, soprattutto quelli regionali, un insegnamento sul Magistero, che faccia imparare a leggere e a valorizzare il Magistero del papa; e un insegnamento di Dottrina sociale della Chiesa, che consenta ai sacerdoti di affrontare la realtà socio-politica di oggi con coordinate molto chiare: sono quelle sintetizzate dal Papa nei principi non negoziabili ma che arrivano come l’esito di un processo secolare che sarebbe meglio conoscere e comprendere.
La tenerezza che tanta realtà ecclesiale ha nei confronti del Papa e che oggi è segnata da un grande dolore, diventa umile e certa domanda a Cristo e alla Madonna, perché accompagni la Chiesa in questo passaggio difficile consegnandola a un Papa più giovane e perciò capace di rispondere a questa sfida sulla riforma intellettuale e morale. Spesso ripenso a quella straordinaria e profetica omelia che Giovanni Paolo I tenne all’inizio del pontificato, quando prese possesso della Basilica di San Giovanni in Laterano, quindi della sede di Roma. Dopo avere enucleato le gravi difficoltà in cui la Chiesa vive - viveva e vive - disse: «Dobbiamo tornare tutti all’antica disciplina della Chiesa».
Questo è stato il tentativo inesausto di Benedetto XVI, contraddetto da tante difficoltà esterne e interne, ma questo credo che sia la strada che il successore dovrà necessariamente riaprire se vuole servire una Chiesa capace di missione e non chiusa a gestire spazi religiosi in una società secolarizzata.
E’ un momento di umanità che è offerto a tutti gli uomini di buona volontà. Incontro quotidianamente decine di laici, qualificati o meno, che sono stati vivamente toccati dalla presenza e dal magistero di questo Papa. Toccati soprattutto per questa sua radicale proposizione della ragione: della ragione aperta al Mistero, della ragione che sente lontano ma incombente il Mistero, e che perciò non accetta più di essere una macchinetta che funziona organizzando oggetti di conoscenza e manipolandoli tecnologicamente quando è possibile manipolarli. Anche gli oggetti umani, perché la vita - così come il Papa quotidianamente ha accusato - è ridotta a oggetto biologico da sottoporre senza nessuna regola alle manipolazioni che si ritengono giuste per la terapia della malattia, ma soprattutto per le ricerche scientifiche, del presente e del futuro. Una ragione vibrante, la ragione che nasce dal cuore che esprime il cuore, e che cammina verso il senso ultimo della vita misteriosamente celato al di là della realtà, ma pur presente nella realtà.
Questa sua straordinaria testimonianza di fede e di umanità ha avuto nella formulazione della carità il suo punto più alto. La carità che è Dio, è Dio vivo, è il Dio vivente in Gesù Cristo, è il Dio vivente in tutti coloro che credono in Lui, e che perciò partecipano di questa assoluta novità di coscienza e di cuore, che è la coscienza e il cuore del Signore Gesù Cristo: «Noi abbiamo il sentimento di Cristo», diceva San Paolo. E la carità verso gli uomini - che ha dimostrato anche con l’amabilità del suo entrare a contatto con le centinaia di migliaia che l’hanno potuto accostare anche solo per pochi istanti -, la carità verso gli altri è un dilatare agli uomini quella profondità di vita nuova che è dentro il cuore del credente e che non può essere trattenuta dentro il cuore del credente. Per sua forza, per sua logica tende a debordare dalla vita della persona e a entrare nel mondo e a creare rapporti nuovi e definitivi sul ritmo della umanità e del rispetto e non sul ritmo della violenza e del possesso, che sembrano essere l’unica logica del mondo in cui viviamo.
Questa grande testimonianza ha avuto il punto terminale, inaspettato, sconvolgente nelle dimissioni che sono state in linea perfetta con questa volontà di dedizione alla Chiesa, con la consapevolezza umile e realistica di non riuscire più a vivere in modo adeguato, a onorare in modo adeguato, questo servizio pontificale per l’unità della Chiesa, per la sua verità, per la sua carità, per la comunione che deve animare la vita della Chiesa universale e delle Chiese particolari, che trova nel Papa il punto ultimo di riferimento: «Quella Chiesa che presiede a tutte le altre nella vita della carità», come dicevano gli apologeti e poi i primi padri della Chiesa.
Certo, il compito che attende il successore è un compito grande: certamente quello di evolvere, di maturare, di far passare ancora con maggiore decisione questa grande testimonianza di fede e di umanità nelle cellule vive della Chiesa cattolica. E l’Anno della Fede è l’ultima, bellissima, intuizione di papa Benedetto: questo ritorno alla presenza di Cristo, questa sequela di Lui, sequela formulata - come ebbe a formularla nel Sinodo dei vescovi - in conversione dell’intelligenza e del cuore. L’Anno della Fede sintetizza il suo cammino di Papa e lo sintetizza in modo operativo ed educativo, quindi va portata avanti questa ripresa radicale della fede come evento da incontrare e da vivere e non quindi ridotto in indicazioni, sentimenti, prospettive di carattere spiritualistico, individualistico e meno che mai a progetti di carattere sociologico, come indicava con grande chiarezza all’inizio della Deus Caritas Est. Certo, il Papa sa bene le fatiche della Chiesa - e qualcosa traspare, pur nel pudore totale della sua comunicazione -, sa bene le fatiche, quelle difficoltà spirituali che hanno gravato anzitutto e soprattutto sulle sue spalle, con un peso che certamente io credo lo abbia fatto faticare più di una volta.
La Chiesa ha ora bisogno di un Papa che proceda in modo rigoroso e veloce – se così posso dire – a una riforma intellettuale e morale della Chiesa stessa, ma innanzitutto dell’episcopato e del clero. C’è bisogno di una forte coscienza della novità cristiana, che diventi cultura, criterio di giudizio, criterio di comportamento, capacità di interlocuzione con il mondo fuori della Chiesa, capacità di vicinanza e di denuncia nei confronti di questa cristianofobia che è stata più di una volta indicata da Benedetto XVI come il contesto che sta diventando normale nella vita delle Chiese in tutti i continenti.
C’è bisogno di una riforma intellettuale e morale: io mi sono permesso durante la visita ad limina (lo scorso 4 febbraio, ndr) di sottolineare l’importanza che si cali nell’ambito dei seminari, soprattutto quelli regionali, un insegnamento sul Magistero, che faccia imparare a leggere e a valorizzare il Magistero del papa; e un insegnamento di Dottrina sociale della Chiesa, che consenta ai sacerdoti di affrontare la realtà socio-politica di oggi con coordinate molto chiare: sono quelle sintetizzate dal Papa nei principi non negoziabili ma che arrivano come l’esito di un processo secolare che sarebbe meglio conoscere e comprendere.
La tenerezza che tanta realtà ecclesiale ha nei confronti del Papa e che oggi è segnata da un grande dolore, diventa umile e certa domanda a Cristo e alla Madonna, perché accompagni la Chiesa in questo passaggio difficile consegnandola a un Papa più giovane e perciò capace di rispondere a questa sfida sulla riforma intellettuale e morale. Spesso ripenso a quella straordinaria e profetica omelia che Giovanni Paolo I tenne all’inizio del pontificato, quando prese possesso della Basilica di San Giovanni in Laterano, quindi della sede di Roma. Dopo avere enucleato le gravi difficoltà in cui la Chiesa vive - viveva e vive - disse: «Dobbiamo tornare tutti all’antica disciplina della Chiesa».
Questo è stato il tentativo inesausto di Benedetto XVI, contraddetto da tante difficoltà esterne e interne, ma questo credo che sia la strada che il successore dovrà necessariamente riaprire se vuole servire una Chiesa capace di missione e non chiusa a gestire spazi religiosi in una società secolarizzata.