sábado, 16 de fevereiro de 2013

Bem-Haja, Santo Padre! - por Gonçalo Portocarrero de Almada


In i

Quando tive conhecimento da renúncia de Bento XVI ao ministério papal, confesso que fiquei surpreendido e um pouco confuso. A surpresa resultava do inesperado acontecimento, que nada fazia prever, nem ninguém antecipara, não obstante a profusão de profetas que enxameiam a comunicação social.

A confusão nascia do insólito da situação, agora criada, e sem precedentes nos últimos séculos da história da Igreja e do papado. E também das suas causas e consequências. Porque renunciara? Será que alguma razão oculta levara o Papa a esta dolorosa decisão? Que iria ocorrer agora? Como continuaria, sem ele, o Ano da Fé?

Se me doeu o sentimento de uma antecipada orfandade, consolou-me a certeza da fé. Antes ainda de percorrer os comentários, ou de aceder às inevitáveis especulações mediáticas, recolhi-me em oração. Foi no silêncio da minha meditação que constatei uma vez mais que, não obstante as vicissitudes dos tempos e dos homens, é Deus quem dirige a barca de Pedro e que, portanto, é coisa de secundária importância o timoneiro de turno. E senti aquela paz que o mundo não pode dar.

Se o discurso do Beato João Paulo II se dirigia, sobretudo, aos crentes, recorrendo à linguagem da fé, Bento XVI falou principalmente aos intelectuais, no registo da razão em diálogo com a transcendência. Não estranha, portanto, que de todos os quadrantes ideológicos se oiçam agora palavras de apreço por Joseph Ratzinger, que não é apenas um importante expoente do pensamento católico actual, mas também uma indispensável referência cultural da modernidade. 

Coube-lhe a ingrata missão de suceder ao carismático Papa Wojtyla. Até então, tinha sido o odiado titular do órgão mais malquisto de toda a Igreja. Foi no seu pontificado que eclodiu um dos piores escândalos da bimilenar história da Igreja, a que soube fazer frente com corajosa determinação, impondo a caridade da verdade, contra a cumplicidade do silêncio e da impunidade.

As multidões pareciam causar-lhe algum desconforto. Talvez sofresse a nostalgia do seu escritório, dos seus livros, das suas partituras e, seguramente, do recato da sua oração. Mas foi essa sua timidez, pele de ovelha a esconder a fibra de um verdadeiro leão da fé, que me fez sentir mais comprometido com o seu pontificado. Foi a sua fragilidade que me obrigou a permanecer, em sentido, a seu lado, firme na oração e na fidelidade ao seu magistério. Foram os ataques à sua pessoa que me forçaram a sair à liça, com a indignação de um filho ferido no seu mais sincero e profundo afecto filial.

Eu não sabia que queria tanto a Bento XVI! Aprendi a quere-lo rezando, ouvindo e meditando as suas palavras, vendo-o. Descobri agora, quando o Papa acenou um adeus que feriu a minha alma, quanto o queria. Teria desejado que este dia nunca tivesse acontecido. Mas dou graças pelo amor ao Papa que Deus pôs no meu coração. E se uma lágrima furtiva se desprender, na hora da sua partida, tenho por certo que não é sentimentalismo, mas gratidão, piedade, fé.

Em breve, outro será o Papa. Muitas vezes, como tantos outros católicos do mundo inteiro, usei a expressão “Santo Padre” para me referir a Sua Santidade, o Papa Bento XVI. Mas creio que nunca a disse com tanta verdade e unção como agora, que Joseph Ratzinger abandona a ribalta, para se retirar para a penumbra de uma vida de sacrifício e oração, ao serviço da Igreja universal.

Bem-haja, Santo Padre!

sexta-feira, 15 de fevereiro de 2013

L'ULTIMA STRAORDINARIA LECTIO DIVINA DI PAPA BENEDETTO XVI

In Il Magisterio di Benedeto XVI

INCONTRO CON I PARROCI E IL CLERO DI ROMA

DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Aula Paolo VI
Giovedì, 14 febbraio 2013

Eminenza, 
cari fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio!

E’ per me un dono particolare della Provvidenza che, prima di lasciare il ministero petrino, possa ancora vedere il mio clero, il clero di Roma. E’ sempre una grande gioia vedere come la Chiesa vive, come a Roma la Chiesa è vivente; ci sono Pastori che, nello spirito del Pastore supremo, guidano il gregge del Signore. E’ un clero realmente cattolico, universale, e questo risponde all’essenza della Chiesa di Roma: portare in sé l’universalità, la cattolicità di tutte le genti, di tutte le razze, di tutte le culture. Nello stesso tempo, sono molto grato al Cardinale Vicario che aiuta a risvegliare, a ritrovare le vocazioni nella stessa  Roma, perché se Roma, da una parte, dev’essere la città dell’universalità, dev’essere anche una città con una propria forte e robusta fede, dalla quale nascono anche vocazioni. E sono convinto che, con l’aiuto del Signore, possiamo trovare le vocazioni che Egli stesso ci dà, guidarle, aiutarle a maturare, e così servire per il lavoro nella vigna del Signore.
 

Oggi avete confessato davanti alla tomba di san Pietro il Credo: nell’Anno della fede, mi sembra un atto molto opportuno, necessario forse, che il clero di Roma si riunisca sulla tomba dell’Apostolo al quale il Signore ha detto: “A te affido la mia Chiesa. Sopra di te costruisco la mia Chiesa” (cfr Mt 16,18-19). Davanti al Signore, insieme con Pietro, avete confessato: “Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo” (cfr Mt 16,15-16). 

Così cresce la Chiesa: insieme con Pietro, confessare Cristo, seguire Cristo. E facciamo questo sempre. Io sono molto grato per la vostra preghiera, che ho sentito – l’ho detto mercoledì – quasi fisicamente. Anche se adesso mi ritiro, nella preghiera sono sempre vicino a tutti voi e sono sicuro che anche voi sarete vicini a me, anche se per il mondo rimango nascosto.
 

Per oggi, secondo le condizioni della mia età, non ho potuto preparare un grande, vero discorso, come ci si potrebbe aspettare; ma piuttosto penso ad una piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II, come io l’ho visto. 
 

Comincio con un aneddoto: io ero stato nominato nel ’59 professore all’Università di Bonn, dove studiano gli studenti, i seminaristi della diocesi di Colonia e di altre diocesi circostanti. Così, sono venuto in contatto con il Cardinale di Colonia, il Cardinale Frings. Il Cardinale Siri, di Genova – mi sembra nel ’61 - aveva organizzato una serie di conferenze di diversi Cardinali europei sul Concilio, e aveva invitato anche l’Arcivescovo di Colonia a tenere una delle conferenze, con il titolo: Il Concilio e il mondo del pensiero moderno.
Il Cardinale mi ha invitato – il più giovane dei professori – a scrivergli un progetto; il progetto gli è piaciuto e ha proposto alla gente, a Genova, il testo come io l’avevo scritto. Poco dopo, Papa Giovanni lo invita ad andare da lui e il Cardinale era pieno di timore di avere forse detto qualcosa di non corretto, di falso, e di venire citato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora. Sì, quando il suo segretario lo ha vestito per l’udienza, il Cardinale ha detto: “Forse adesso porto per l’ultima volta questo abito”. Poi è entrato, Papa Giovanni gli va incontro, lo abbraccia, e dice: “Grazie, Eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole”. Così, il Cardinale sapeva di essere sulla strada giusta e mi ha invitato ad andare con lui al Concilio, prima come suo esperto personale; poi, nel corso del primo periodo - mi pare nel novembre ’62 – sono stato nominato anche perito ufficiale del Concilio.


Allora, noi siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. C’era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa, perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta in quel tempo, la prassi domenicale ancora buona, le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa erano già un po’ ridotte, ma ancora sufficienti. Tuttavia, si sentiva che la Chiesa non andava avanti, si riduceva, che sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro. E in quel momento, speravamo che questa relazione si rinnovasse, cambiasse; che la Chiesa fosse di nuovo forza del domani e forza dell’oggi. E sapevamo che la relazione tra la Chiesa e il periodo moderno, fin dall’inizio, era un po’ contrastante, cominciando con l’errore della Chiesa nel caso di Galileo Galilei; si pensava di correggere questo inizio sbagliato e di trovare di nuovo l’unione tra la Chiesa e le forze migliori del mondo, per aprire il futuro dell’umanità, per aprire il vero progresso. Così, eravamo pieni di speranza, di entusiasmo, e anche di volontà di fare la nostra parte per questa cosa. Mi ricordo che un modello negativo era considerato il Sinodo Romano. Si disse - non so se sia vero – che avessero letto i testi preparati, nella Basilica di San Giovanni, e che i membri del Sinodo avessero acclamato, approvato applaudendo, e così si sarebbe svolto il Sinodo. I Vescovi dissero: No, non facciamo così. Noi siamo Vescovi, siamo noi stessi soggetto del Sinodo; non vogliamo soltanto approvare quanto è stato fatto, ma vogliamo essere noi il soggetto, i portatori del Concilio. Così anche il Cardinale Frings, che era famoso per la fedeltà assoluta, quasi scrupolosa, al Santo Padre, in questo caso disse: Qui siamo in altra funzione. Il Papa ci ha convocati per essere come Padri, per essere Concilio ecumenico, un soggetto che rinnovi la Chiesa. Così vogliamo assumere questo nostro ruolo.
 

Il primo momento, nel quale questo atteggiamento si è mostrato, è stato subito il primo giorno. Erano state previste, per questo primo giorno, le elezioni delle Commissioni ed erano state preparate, in modo – si cercava – imparziale, le liste, i nominativi; e queste liste erano da votare. Ma subito i Padri dissero: No, non vogliamo semplicemente votare liste già fatte. Siamo noi il soggetto. Allora, si sono dovute spostare le elezioni, perché i Padri stessi volevano conoscersi un po’, volevano loro stessi preparare delle liste. E così è stato fatto. I Cardinali Liénart di Lille, il Cardinale Frings di Colonia avevano pubblicamente detto: Così no. Noi vogliamo fare le nostre liste ed eleggere i nostri candidati. Non era un atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari.
Così cominciava una forte attività per conoscersi, orizzontalmente, gli uni gli altri, cosa che non era a caso. Al “Collegio dell’Anima”, dove abitavo, abbiamo avuto molte visite: il Cardinale era molto conosciuto, abbiamo visto Cardinali di tutto il mondo. Mi ricordo bene la figura alta e snella di mons. Etchegaray, che era Segretario della Conferenza Episcopale Francese, degli incontri con Cardinali, eccetera. E questo era tipico, poi, per tutto il Concilio: piccoli incontri trasversali. Così ho conosciuto grandi figure come Padre de Lubac, Daniélou, Congar, eccetera. Abbiamo conosciuto vari Vescovi; mi ricordo particolarmente del Vescovo Elchinger di Strasburgo, eccetera. E questa era già un’esperienza dell’universalità della Chiesa e della realtà concreta della Chiesa, che non riceve semplicemente imperativi dall’alto, ma insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida – naturalmente – del Successore di Pietro.
 

Tutti, come ho detto, venivano con grandi aspettative; non era mai stato realizzato un Concilio di queste dimensioni, ma non tutti sapevano come fare. I più preparati, diciamo quelli con intenzioni più definite, erano l’episcopato francese, tedesco, belga, olandese, la cosiddetta “alleanza renana”. E, nella prima parte del Concilio, erano loro che indicavano la strada; poi si è velocemente allargata l’attività e tutti sempre più hanno partecipato nella creatività del Concilio. I francesi ed i tedeschi avevano diversi interessi in comune, anche con sfumature abbastanza diverse. La prima, iniziale, semplice - apparentemente semplice – intenzione era la riforma della liturgia, che era già cominciata con Pio XII, il quale aveva già riformato la Settimana Santa; la seconda, l’ecclesiologia; la terza, la Parola di Dio, la Rivelazione; e, infine, anche l’ecumenismo. I francesi, molto più che i tedeschi, avevano ancora il problema di trattare la situazione delle relazioni tra la Chiesa e il mondo.
 

Cominciamo con il primo. Dopo la Prima Guerra Mondiale, era cresciuto, proprio nell’Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel Messale Romano del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il Messale, ed i laici, che pregavano, nella Messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare. Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse “Et cum spiritu tuo” eccetera, ma che fosse realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia.
 

Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. “Operi Dei nihil praeponatur”: questa parola della Regola di san Benedetto (cfr 43,3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione. Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale la pena sempre tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso, alla sua profondità e alle sue idee essenziali.
 

Ve n’erano, direi, diverse: soprattutto il Mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della Risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo il nostro tempo con la Risurrezione, con l’incontro con il Risorto, e dall’incontro con il Risorto andiamo al mondo. In questo senso, è un peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine settimana, mentre è la prima giornata, è l’inizio; interiormente dobbiamo tenere presente questo: che è l’inizio, l’inizio della Creazione, è l’inizio della ricreazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo Risorto. Anche questo duplice contenuto della domenica è importante: è il primo giorno, cioè festa della Creazione, noi stiamo sul fondamento della Creazione, crediamo nel Dio Creatore; e incontro con il Risorto, che rinnova la Creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è risposta all’amore di Dio.
Poi c’erano dei principi: l’intelligibilità, invece di essere rinchiusi in una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio – se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle Epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo.
 

Secondo tema: la Chiesa. Sappiamo che il Concilio Vaticano I era stato interrotto a causa della guerra tedesco-francese e così è rimasto con una unilateralità, con un frammento, perché la dottrina sul primato - che è stata definita, grazie a Dio, in quel momento storico per la Chiesa, ed è stata molto necessaria per il tempo seguente - era soltanto un elemento in un’ecclesiologia più vasta, prevista, preparata. Così era rimasto il frammento. E si poteva dire: se il frammento rimane così come è, tendiamo ad una unilateralità: la Chiesa sarebbe solo il primato. Quindi già dall’inizio c’era questa intenzione di completare l’ecclesiologia del Vaticano I, in una data da trovare, per una ecclesiologia completa. Anche qui le condizioni sembravano molto buone perché, dopo la Prima Guerra Mondiale, era rinato il senso della Chiesa in modo nuovo. Romano Guardini disse: “Nelle anime comincia a risvegliarsi la Chiesa”, e un vescovo protestante parlava del “secolo della Chiesa”. Veniva ritrovato, soprattutto, il concetto, che era previsto anche dal Vaticano I, del Corpo Mistico di Cristo. Si voleva dire e capire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa di strutturale, giuridico, istituzionale - anche questo -, ma è un organismo, una realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io stesso, proprio con la mia anima credente, sono elemento costruttivo della Chiesa come tale. In questo senso, Pio XII aveva scritto l’Enciclica Mystici Corporis Christi, come un passo verso un completamento dell’ecclesiologia del Vaticano I.

Direi che la discussione teologica degli anni ’30-’40, anche ’20, era completamente sotto questo segno della parola “Mystici Corporis”. Fu una scoperta che ha creato tanta gioia in quel tempo ed anche in questo contesto è cresciuta la formula: Noi siamo la Chiesa, la Chiesa non è una struttura; noi stessi cristiani, insieme, siamo tutti il Corpo vivo della Chiesa. E, naturalmente, questo vale nel senso che noi, il vero “noi” dei credenti, insieme con l’”Io” di Cristo, è la Chiesa; ognuno di noi, non “un noi”, un gruppo che si dichiara Chiesa. No: questo “noi siamo Chiesa” esige proprio il mio inserimento nel grande “noi” dei credenti di tutti i tempi e luoghi. Quindi, la prima idea: completare l’ecclesiologia in modo teologico, ma proseguendo anche in modo strutturale, cioè: accanto alla successione di Pietro, alla sua funzione unica, definire meglio anche la funzione dei Vescovi, del Corpo episcopale. E, per fare questo, è stata trovata la parola “collegialità”, molto discussa, con discussioni accanite, direi, anche un po’ esagerate. Ma era la parola - forse ce ne sarebbe anche un’altra, ma serviva questa - per esprimere che i Vescovi, insieme, sono la continuazione dei Dodici, del Corpo degli Apostoli. Abbiamo detto: solo un Vescovo, quello di Roma, è successore di un determinato Apostolo, di Pietro. Tutti gli altri diventano successori degli Apostoli entrando nel Corpo che continua il Corpo degli Apostoli. Così proprio il Corpo dei Vescovi, il collegio, è la continuazione del Corpo dei Dodici, ed ha così la sua necessità, la sua funzione, i suoi diritti e doveri. Appariva a molti come una lotta per il potere, e forse qualcuno anche ha pensato al suo potere, ma sostanzialmente non si trattava di potere, ma della complementarietà dei fattori e della completezza del Corpo della Chiesa con i Vescovi, successori degli Apostoli, come elementi portanti; ed ognuno di loro è elemento portante della Chiesa, insieme con questo grande Corpo.
 

Questi erano, diciamo, i due elementi fondamentali e, nella ricerca di una visione teologica completa dell’ecclesiologia, nel frattempo, dopo gli anni ’40, negli anni ’50, era già nata un po’ di critica nel concetto di Corpo di Cristo: “mistico” sarebbe troppo spirituale, troppo esclusivo; era stato messo in gioco allora il concetto di “Popolo di Dio”. E il Concilio, giustamente, ha accettato questo elemento, che nei Padri è considerato come espressione della continuità tra Antico e Nuovo Testamento. Nel testo del Nuovo Testamento, la parola “Laos tou Theou”, corrispondente ai testi dell’Antico Testamento, significa – mi sembra con solo due eccezioni – l’antico Popolo di Dio, gli ebrei che, tra i popoli, “goim”, del mondo, sono “il” Popolo di Dio. E gli altri, noi pagani, non siamo di per sé il Popolo di Dio, diventiamo figli di Abramo, e quindi Popolo di Dio entrando in comunione con il Cristo, che è l’unico seme di Abramo. Ed entrando in comunione con Lui, essendo uno con Lui, siamo anche noi Popolo di Dio. Cioè: il concetto “Popolo di Dio” implica continuità dei Testamenti, continuità della storia di Dio con il mondo, con gli uomini, ma implica anche l’elemento cristologico. Solo tramite la cristologia diveniamo Popolo di Dio e così si combinano i due concetti. Ed il Concilio ha deciso di creare una costruzione trinitaria dell’ecclesiologia: Popolo di Dio Padre, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo.
 

Ma solo dopo il Concilio è stato messo in luce un elemento che si trova un po’ nascosto, anche nel Concilio stesso, e cioè: il nesso tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo, è proprio la comunione con Cristo nell’unione eucaristica. Qui diventiamo Corpo di Cristo; cioè la relazione tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo crea una nuova realtà: la comunione. E dopo il Concilio è stato scoperto, direi, come il Concilio, in realtà, abbia trovato, abbia guidato a questo concetto: la comunione come concetto centrale. Direi che, filologicamente, nel Concilio esso non è ancora totalmente maturo, ma è frutto del Concilio che il concetto di comunione sia diventato sempre più l’espressione dell’essenza della Chiesa, comunione nelle diverse dimensioni: comunione con il Dio Trinitario - che è Egli stesso comunione tra Padre, Figlio e Spirito Santo -, comunione sacramentale, comunione concreta nell’episcopato e nella vita della Chiesa.
 

Ancora più conflittuale era il problema della Rivelazione. Qui si trattava della relazione tra Scrittura e Tradizione, e qui erano interessati soprattutto gli esegeti per una maggiore libertà; essi si sentivano un po’ – diciamo – in una situazione di inferiorità nei confronti dei protestanti, che facevano le grandi scoperte, mentre i cattolici si sentivano un po’ “handicappati” dalla necessità di sottomettersi al Magistero. Qui, quindi, era in gioco una lotta anche molto concreta: quale libertà hanno gli esegeti? Come si legge bene la Scrittura? Che cosa vuol dire Tradizione? Era una battaglia pluridimensionale che adesso non posso mostrare, ma importante è che certamente la Scrittura è la Parola di Dio e la Chiesa sta sotto la Scrittura, obbedisce alla Parola di Dio, e non sta al di sopra della Scrittura. E tuttavia, la Scrittura è Scrittura soltanto perché c’è la Chiesa viva, il suo soggetto vivo; senza il soggetto vivo della Chiesa, la Scrittura è solo un libro e apre, si apre a diverse interpretazioni e non dà un’ultima chiarezza.
 

Qui, la battaglia - come ho detto - era difficile, e fu decisivo un intervento di Papa Paolo VI. Questo intervento mostra tutta la delicatezza del padre, la sua responsabilità per l’andamento del Concilio, ma anche il suo grande rispetto per il Concilio. Era nata l’idea che la Scrittura è completa, vi si trova tutto; quindi non si ha bisogno della Tradizione, e perciò il Magistero non ha niente da dire. Allora, il Papa ha trasmesso al Concilio mi sembra 14 formule di una frase da inserire nel testo sulla Rivelazione e ci dava, dava ai Padri, la libertà di scegliere una delle 14 formule, ma disse: una deve essere scelta, per rendere completo il testo. Io mi ricordo, più o meno, della formula “non omnis certitudo de veritatibus fidei potest sumi ex Sacra Scriptura”, cioè la certezza della Chiesa sulla fede non nasce soltanto da un libro isolato, ma ha bisogno del soggetto Chiesa illuminato, portato dallo Spirito Santo. Solo così poi la Scrittura parla ed ha tutta la sua autorevolezza. Questa frase che abbiamo scelto nella Commissione dottrinale, una delle 14 formule, è decisiva, direi, per mostrare l’indispensabilità, la necessità della Chiesa, e così capire che cosa vuol dire Tradizione, il Corpo vivo nel quale vive dagli inizi questa Parola e dal quale riceve la sua luce, nel quale è nata. Già il fatto del Canone è un fatto ecclesiale: che questi scritti siano la Scrittura risulta dall’illuminazione della Chiesa, che ha trovato in sé questo Canone della Scrittura; ha trovato, non creato, e sempre e solo in questa comunione della Chiesa viva si può anche realmente capire, leggere la Scrittura come Parola di Dio, come Parola che ci guida nella vita e nella morte.
 

Come ho detto, questa era una lite abbastanza difficile, ma grazie al Papa e grazie – diciamo – alla luce dello Spirito Santo, che era presente nel Concilio, è stato creato un documento che è uno dei più belli e anche innovativi di tutto il Concilio, e che deve essere ancora molto più studiato. Perché anche oggi l’esegesi tende a leggere la Scrittura fuori dalla Chiesa, fuori dalla fede, solo nel cosiddetto spirito del metodo storico-critico, metodo importante, ma mai così da poter dare soluzioni come ultima certezza; solo se crediamo che queste non sono parole umane, ma sono parole di Dio, e solo se vive il soggetto vivo al quale ha parlato e parla Dio, possiamo interpretare bene la Sacra Scrittura. E qui - come ho detto nella prefazione del mio libro su Gesù (cfr vol. I) - c’è ancora molto da fare per arrivare ad una lettura veramente nello spirito del Concilio. Qui l’applicazione del Concilio ancora non è completa, ancora è da fare.
 

E, infine, l’ecumenismo. Non vorrei entrare adesso in questi problemi, ma era ovvio – soprattutto dopo le “passioni” dei cristiani nel tempo del nazismo – che i cristiani potessero trovare l’unità, almeno cercare l’unità, ma era chiaro anche che solo Dio può dare l’unità. E siamo ancora in questo cammino. Ora, con questi temi, l’”alleanza renana” – per così dire – aveva fatto il suo lavoro.
 

La seconda parte del Concilio è molto più ampia. Appariva, con grande urgenza, il tema: mondo di oggi, epoca moderna, e Chiesa; e con esso i temi della responsabilità per la costruzione di questo mondo, della società, responsabilità per il futuro di questo mondo e speranza escatologica, responsabilità etica del cristiano, dove trova le sue guide; e poi libertà religiosa, progresso, e relazione con le altre religioni. In questo momento, sono entrate in discussione realmente tutte le parti del Concilio, non solo l’America, gli Stati Uniti, con un forte interesse per la libertà religiosa. Nel terzo periodo questi hanno detto al Papa: Noi non possiamo tornare a casa senza avere, nel nostro bagaglio, una dichiarazione sulla libertà religiosa votata dal Concilio. Il Papa, tuttavia, ha avuto la fermezza e la decisione, la pazienza di portare il testo al quarto periodo, per trovare una maturazione ed un consenso abbastanza completi tra i Padri del Concilio. Dico: non solo gli americani sono entrati con grande forza nel gioco del Concilio, ma anche l’America Latina, sapendo bene della miseria del popolo, di un continente cattolico, e della responsabilità della fede per la situazione di questi uomini. E così anche l’Africa, l’Asia, hanno visto la necessità del dialogo interreligioso; sono cresciuti problemi che noi tedeschi – devo dire – all’inizio, non avevamo visto. Non posso adesso descrivere tutto questo. Il grande documento “Gaudium et spes” ha analizzato molto bene il problema tra escatologia cristiana e progresso mondano, tra responsabilità per la società di domani e responsabilità del cristiano davanti all’eternità, e così ha anche rinnovato l’etica cristiana, le fondamenta. Ma, diciamo inaspettatamente, è cresciuto, al di fuori di questo grande documento, un documento che rispondeva in modo più sintetico e più concreto alle sfide del tempo, e cioè la “Nostra aetate”. Dall’inizio erano presenti i nostri amici ebrei, che hanno detto, soprattutto a noi tedeschi, ma non solo a noi, che dopo gli avvenimenti tristi di questo secolo nazista, del decennio nazista, la Chiesa cattolica deve dire una parola sull’Antico Testamento, sul popolo ebraico. Hanno detto: anche se è chiaro che la Chiesa non è responsabile della Shoah, erano cristiani, in gran parte, coloro che hanno commesso quei crimini; dobbiamo approfondire e rinnovare la coscienza cristiana, anche se sappiamo bene che i veri credenti sempre hanno resistito contro queste cose. E così era chiaro che la relazione con il mondo dell’antico Popolo di Dio dovesse essere oggetto di riflessione. Si capisce anche che i Paesi arabi – i Vescovi dei Paesi arabi – non fossero felici di questa cosa: temevano un po’ una glorificazione dello Stato di Israele, che non volevano, naturalmente. Dissero: Bene, un’indicazione veramente teologica sul popolo ebraico è buona, è necessaria, ma se parlate di questo, parlate anche dell’Islam; solo così siamo in equilibrio; anche l’Islam è una grande sfida e la Chiesa deve chiarire anche la sua relazione con l’Islam. Una cosa che noi, in quel momento, non abbiamo tanto capito, un po’, ma non molto. Oggi sappiamo quanto fosse necessario.
 

Quando abbiamo incominciato a lavorare anche sull’Islam, ci hanno detto: Ma ci sono anche altre religioni del mondo: tutta l’Asia! Pensate al Buddismo, all’Induismo…. E così, invece di una Dichiarazione inizialmente pensata solo sull’antico Popolo di Dio, si è creato un testo sul dialogo interreligioso, anticipando quanto solo trent’anni dopo si è mostrato in tutta la sua intensità e importanza. Non posso entrare adesso in questo tema, ma se si legge il testo, si vede che è molto denso e preparato veramente da persone che conoscevano le realtà, e indica brevemente, con poche parole, l’essenziale. Così anche il fondamento di un dialogo, nella differenza, nella diversità, nella fede sull’unicità di Cristo, che è uno, e non è possibile, per un credente, pensare che le religioni siano tutte variazioni di un tema. No, c’è una realtà del Dio vivente che ha parlato, ed è un Dio, è un Dio incarnato, quindi una Parola di Dio, che è realmente Parola di Dio. Ma c’è l’esperienza religiosa, con una certa luce umana della creazione, e quindi è necessario e possibile entrare in dialogo, e così aprirsi l’uno all’altro e aprire tutti alla pace di Dio, di tutti i suoi figli, di tutta la sua famiglia.
 

Quindi, questi due documenti, libertà religiosa e “Nostra aetate”, connessi con “Gaudium et spes” sono una trilogia molto importante, la cui importanza si è mostrata solo nel corso dei decenni, e ancora stiamo lavorando per capire meglio questo insieme tra unicità della Rivelazione di Dio, unicità dell’unico Dio incarnato in Cristo, e la molteplicità delle religioni, con le quali cerchiamo la pace e anche il cuore aperto per la luce dello Spirito Santo, che illumina e guida a Cristo.
 

Vorrei adesso aggiungere ancora un terzo punto: c’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri. E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, era un Concilio della fede che cerca l’intellectus, che cerca di comprendersi e cerca di comprendere i segni di Dio in quel momento, che cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, mentre tutto il Concilio – come ho detto – si muoveva all’interno della fede, come fides quaerens intellectum, il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa. Era un’ermeneutica politica: per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola “Popolo di Dio”, il potere del popolo, dei laici. C’era questa triplice questione: il potere del Papa, poi trasferito al potere dei Vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire. E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c’era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a dire: La sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell’Antico Testamento. Nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività. Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della Riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede. E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via.
 

Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale. Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa. Mi sembra che, 50 anni dopo il Concilio, vediamo come questo Concilio virtuale si rompa, si perda, e appare il vero Concilio con tutta la sua forza spirituale. Ed è nostro compito, proprio in questo Anno della fede, cominciando da questo Anno della fede, lavorare perché il vero Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo, si realizzi e sia realmente rinnovata la Chiesa. Speriamo che il Signore ci aiuti. Io, ritirato con la mia preghiera, sarò sempre con voi, e insieme andiamo avanti con il Signore, nella certezza: Vince il Signore! Grazie!

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Jack Nicholson e Andrea Bocelli unidos pela vida e contra o aborto

WASHINGTON DC, 14 Fev. 13 / 03:42 pm (ACI/EWTN Noticias).- Jack Nicholson, famoso ator de Hollywood, foi concebido quando sua mãe era ainda adolescente e, várias vezes ofereceram a ela a possibilidade de abortá-lo, mas ela decidiu tê-lo.

Em declarações à imprensa americana, Nicholson assegurou que não concorda com o aborto e que não poderia assumir outra postura porque seria "hipócrita", já que se sua mãe tivesse aceitado o aborto, "estaria morto, não existiria".

Nascido em 1936, Nicholson cresceu acreditando que sua avó era sua mãe, e considerava como sua irmã a quem na realidade era a sua mãe. O ator descobriu a verdade somente em 1974.

Nicholson assegurou que "sou contrário ao meu distrito eleitoral no tema do aborto, porque estou positivamente em contra. Não tenho direito a qualquer outro ponto de vista. Minha única emoção é gratidão, literalmente, por minha vida".

Em um vídeo difundido no YouTube, o tenor italiano Andrea Bocelli revelou a história do seu nascimento e elogiou a sua mãe por não abortá-lo depois de saber que nasceria com uma deficiência.

No vídeo, titulado "Andrea Bocelli conta uma ‘pequena história’ sobre o aborto", o tenor contou que sua mãe grávida foi hospitalizada por "um simples ataque de apendicite", mas os médicos, ao terminar os tratamentos, sugeriram-lhe abortar porque "o bebê nasceria com alguma deficiência".

"Esta valente jovem esposa decidiu não abortar, e o menino nasceu. Essa mulher era minha mãe, e eu era o menino. Talvez estivesse parcializado, mas posso dizer que a decisão foi correta", assegurou Bocelli, que padece glaucoma congênito e perdeu a vista aos 12 anos, por um golpe na cabeça jogando futebol.

Jim Caviezel, ator católico que interpretou Jesus no filme A Paixão de Cristo, assegurou ao Catholic Digest, em 2009 que "não amo tanto a minha carreira para dizer ‘vou ficar calado sobre isto’", referindo-se ao aborto.

"Estou defendendo a cada bebê que não nasceu", assinalou.
O músico adolescente Justin Bieber também manifestou seu rechaço ao aborto. Em uma entrevista à revista Rolling Stone, Bieber assegurou que "realmente não acredito no aborto", pois "é matar a um bebê".

A mãe de Justin Bieber, Pattie Malette, também se envolveu recentemente na causa pró-vida ao produzir o curta-metragem "Crescendo" contra o aborto e a favor da vida.

Pattie teve uma adolescência difícil, envolvida no mundo das drogas e do álcool, aos 17 anos tentou suicidar-se, antes de converter-se ao cristianismo.

Com seu curta-metragem, disse, "busco alentar às jovens mulheres de todo o mundo, como eu, para que saibam que têm um lugar aonde ir, pessoas que podem cuidar delas e um lar seguro onde viver se ficarem grávidas e acharem que não há lugar aonde acudir".

O veterano ator católico Martin Sheen também expressou repetidamente sua oposição ao aborto. Em uma entrevista em 2011, Sheen admitiu também que sua esposa, Janet, foi concebida por um estupro, por isso, assinalou, se sua mãe a tivesse abortado ou atirado em um rio, como chegou a pensar, ele não a teria conhecido.

The Left Lobbies for a Liberal Successor to Benedict - by George Neumayr

In Crisis

To the dictators of relativism and their allies in the chattering class, the resignation of Pope Benedict XVI is seen as an occasion for celebration and a chance to lobby the Church for a liberal successor. The mischief is already underway, as seen in such headlines as: “New Pope should not condemn contraception, says cardinal.”

The Church’s enemies, both within and without her walls, see an opportunity to capitalize on Benedict’s resignation, and the media, as always, stands ready to help. The coverage so far of the resignation has been grotesquely biased. ABC News wins the prize for the most ludicrously unfair post-resignation story: “Pope Benedict Dogged By Hitler Youth Past, Despite Jewish Support.”

Other media outlets have been only slightly less subtle in their distaste for Benedict’s pontificate. They considered it newsworthy to report that he didn’t “change” Church teaching, as if that fell within the range of plausible choices before him.

That the Church persists in naming believing Catholics to the chair of St. Peter is somehow “controversial” in the eyes of the media. “Benedict’s eight-year reign will be appraised intensively and, I expect, unkindly. He will be described as a diehard traditionalist, a reactionary in a time of revolutionary yearnings,” wrote Bill Keller, the former executive editor of the New York Times.  (Author Thomas Cahill, after John Paul II’s death, took a similar line in the pages of the Times, writing that historians may conclude that his conservatism “destroyed” the Church.)

Such judgments on Benedict’s pontificate are wholly predictable, given the hostility with which the media greeted his elevation and its equation of liberalism with “reform.” Leading newspapers billed Benedict at the time of his election as “God’s Rottweiler” (though later they would cast him as a lap dog during the abuse scandal). He “never had a chance” with the media, as an executive at Fox News put it.
But Benedict was never as rigid as the media claimed. If anything, he approached non-doctrinal matters with great flexibility, a style that explains his willingness to buck 600 years of history and resign from office. That’s quite a departure from tradition for the “diehard traditionalist” of Keller’s fevered imagination.

The media’s obsessional interest in the papacy is a tacit acknowledgment of its power. Journalists may claim the papacy has “weakened” under Benedict, but the very fact that they cover it with such intensity belies that description. What the media treats as the papacy’s greatest weakness—adherence to orthodoxy—is in fact the source of its prestige.
The media’s frenetic lobbying for a “more progressive” successor to Benedict, as the Washington Post editorialized, is also a measure of the papacy’s enduring power and influence. Why should liberals care so much about the direction of a religion to which they don’t belong? The answer is that they envy its immense power and wish to harness that power for their own ideological purposes. Out of this envy they pose as “reformers” who know what is best for the Church. Yet their unsolicited advice, if taken, would only  weaken her.

They regard the papacy as a relic of “absolutism” and the last great obstacle to the triumph of their ideology.  Consequently, they expend great energy in trying to neutralize or co-opt it. A liberal pope, in their eyes, would be an even greater propaganda coup than a liberal president. They think that if they could somehow cow the Church into naming a “progressive” to bless their various revolutions—from socialism to same-sex marriage—those revolutions would spread everywhere.

In the past, the Church’s enemies sought to eliminate the power of the papacy by force, even to the point of throwing popes in prison. And a few of her modern enemies harbor the same thoughts, as Pope Benedict found out. “Arrest the Pope? I rather think we should,” ran a headline on a column in the British press in 2010. “Put the Pope in the Dock,” read another headline. United Nations jurist Geoffrey Robertson, joined by atheists Richard Dawkins and Christopher Hitchens, wanted Pope Benedict prosecuted for “crimes against humanity.”

But since imprisoning popes is unrealistic the Church’s enemies seek to control the papacy through alternative means. Through the manipulation of  popular opinion and media pressure, they clamor for a liberal pope who will confirm the world in all its errors and surrender the Church’s institutions to the dictatorship of relativism.

The faithful, however, can take solace in the promise of Jesus Christ that that day will never come. The gates of Hell may clank against the Church, but they will never crush her.

Il commento di un “marxista ratzingeriano”

In Settimo Cieli

Paolo Sorbi, l’autore della seguente nota, è assieme a Mario Tronti, Giuseppe Vacca e Pietro Barcellona uno dei quattro “marxisti ratzingeriani” che nel solco di Benedetto XVI riconoscono nella “questione antropologica” la sfida centrale di questo tempo.

Ecco le riflessioni che gli ha ispirato la rinuncia di Joseph Ratzinger al papato.

TRAUMA E SOGNO

di Paolo Sorbi

Calderon de La Barca: ”La vida es sueño”. Mai dramma barocco viene più a proposito circa la grande rinuncia di Benedetto XVI. Ne “La torre” di Hugo von Hofmannsthal vengono descritte lotte di tutti contro tutti in una metaforica “Romania”, luogo che adombra la babele dei linguaggi, le bande ideologiche e corrotte vaticane. Come per l’autore austriaco, c’è un lato spagnolo nella crisi di civiltà europea che si scorge ben delineato in Calderon e che riflette la caduta di comportamenti culturali di una civiltà, un sistema organizzato impazzito, luogo di continui conflitti senza valori.
Il mio timore è che si voglia far passare l’opzione di Benedetto XVI come l’inizio di una modernizzazione traumatica che porterebbe a un vero e proprio collasso la posizione  elaborata dallo stesso Benedetto. Delle due l’una: o Ratzinger non ha percepito il cuore della questione – e lo escludo – o il suo messaggio è di responsabilizzarci ancora di più, anche senza lui. Anche senza quella formidabile sua visione che sola, però, con il ruolo sociologico e misteriosamente di fede del primato di Pietro, aveva potenza di lotta culturale per capovolgere l’infausta egemonia radicale e nichilista che avvolge e spinge verso il tramonto dell’Europa, cui ho accennato citando Calderon e Hofmannsthal, e della stessa vita, dei nostri anni come momenti dell’emergenza antropologica.

Dunque: è accaduto un “bradisismo ecclesiale” assolutamente imprevedibile, se lo viviamo come terremoto di una posizione teorica. Posizione elaborata in buona parte, negli ultimi trent’anni, dallo stesso Benedetto XVI. È un passaggio di una simbolicità enorme. Denunzia un’impasse nella nostra stessa corrente socioculturale, di credenti e non credenti, che sostiene le grandi questioni della critica razionale al relativismo etico e all’uso delle biotecnologie senza cultura dei limiti, della necessità, in campo dottrinale, di una cristologia fortemente centrale nelle pur legittime teologie presenti nella “Catholica”. Così come della irrinunciabilità dei mezzi poveri nelle differenziate pastorali, del provare sempre più ad essere minoranza creativa spiritualmente in grado di testimoniare eppur presente nell’arena pubblica senza complessi di assurde nuove cristianità che non sono né debbono essere l’orizzonte della nuova evangelizzazione. Per non parlare dei formidabili temi della “Caritas in veritate” sulla necessità dell’oltrepassamento del capitalismo selvaggio connotato da “maturità e stagnazione” e che non indica se non “pensiero debole”.

In un contesto internazionale, poi, di crisi generale dei modi di produzione, non solo e non tanto della semplice crisi della finanza. In un contesto geopolitico di crisi drammatica mediorientale e di dinamiche tumultuose. In un contesto di collasso demografico in tutto l’Occidente, di non circolarità delle giovani élites sempre più fragili e senza futuro. Insomma, in un passaggio grave di civiltà sarebbe stato importante che Benedetto XVI resistesse, nonostante tutto e nonostante le sue correttissime motivazioni.

”Perché ci hai lasciato così?”, si esprime il Grande Inquisitore al Cristo ritornato di nuovo per visitarci “ad limina” nuovamente. Siamo a questa altezza del dramma in questi giorni, bisogna intenderla bene la scelta della rinuncia del papa. È questione di categorie epistemologiche che dovevano sorreggerlo. Questo non è avvenuto.

Eppure non colgo forti autocontraddizioni nell’elaborazione della centralità della persona umana come elemento decisivo, nell’educazione e nel “politico”, dopo la fine della lotta delle classi e di fronte alla miseria educativa della proposta nichilista. Cos’è che non funziona nella teoria dell’emergenza antropologica?

Vorrei aggiungere che ritengo secondarie le questioni tipicamente “moderne” della “produttività” delle dimissioni di un pontefice che è lucido come Ratzinger. È banale dire che un tale gesto innova nella vita della Chiesa. È giusto, ovviamente, ma insufficiente e non si coglie il più profondo elemento di crisi di un pensiero che emerge da questi avvenimenti. Invece in quest’epoca di potenza delle tecniche ciò è avvenuto. Quasi ad indicarci come sia urgente una riflessione sulla pervasività in tutti gli ambienti delle mutazioni antropologiche a motivo delle reti tecnologiche che aprono inediti squarci di benessere e comunione tra gli umani, ma anche fortemente produttrici di individualismo e solitudini infinite dei soggetti sociali che, invece, vanno orientati ai beni comuni e di relazionalità che, per me, restano indubbiamente molto corporei ma che le tecniche smaterializzano. Che fare verso questo poderoso “cervello sociale” che irriducibilmente avanza nel globo e che ci inquieta, senza risposte adeguate con “fides et ratio”? E men che meno con i vari pensieri gnostici e spiritualizzanti, come se Dio non ci fosse, anzi ci fosse un ritorno, grottesco, degli dei arcaici.

In questo contesto dire che, per la Chiesa, è necessario un nuovo concilio, un Vaticano III, è aggiungere irresponsabilità a irresponsabilità. Non tanto per le condizioni sociologiche che, al contrario, renderebbero attuale dopo appena cinquant’anni una nuova ecumene (tanto il tempo si è accelerato e colossali avvenimenti storici sono accaduti). In effetti  la necessità di nuovi “aggiornamenti” ecclesiali è all’ordine del giorno, ma per la radicale inadeguatezza dei critici della linea personalista di Joseph Ratzinger tutto si avviterebbe nelle miserrime questioni “modernizzanti” sugli stili di vita e le opzioni eugenetiche. Pensieri teorici cristiani sostanzialmente sgangherati , balbuzienti nelle loro opposizioni teologiche progressiste. Ora, però, si aggiunge un altro segnale della sentinella: anche la cultura della vita e i suoi difensori ostinati e corretti soccombono?

Benedicto XVI cumplió con hacer la voluntad de Dios - por Cardenal A. Cañizares

In La Razón

El pasado lunes, festividad de Nuestra Señora de Lourdes, el Santo Padre, Benedicto XVI, anunció su renuncia al ministerio de Obispo de Roma, Sucesor de San Pedro. Quienes asistíamos al Consistorio escuchábamos atónitos esta decisión de tan «gran importancia para la vida de la Iglesia». Delante de Dios, el Papa había «llegado a la certeza de que, por la edad avanzada», no se ve con «fuerzas para ejercer adecuadamente el ministerio petrino». 

Benedicto XVI, como hombre de Dios, en la coherencia que le caracteriza, como dijo en el libro entrevista «Luz del mundo», al renunciar no huye ante los peligros del momento presente por serios y graves que sean. No es de los pastores que huyan en el peligro, y que lo afronte otro; nunca lo ha hecho; todo lo contrario: siempre ha permanecido firme y ha arrostrado las situaciones difíciles. No ha podido más: ha llegado a esta decisión «después de haber examinado ante Dios reiteradamente su conciencia», y llegar a la certeza de que no tenía fuerzas para seguir desempeñando el ministerio de Pedro. Ha reconocido, en conciencia delante de Dios, con claridad que física, psíquica y mentalmente no podía ya con el encargo de su oficio, y, «con plena libertad», en su derecho y en su deber según su propio pensamiento manifestado en dicho libro, ha anunciado su renuncia: es consciente, con la clarividencia y honestidad que le caracterizan, que «para gobernar la barca de San Pedro y anunciar el Evangelio, es necesario también el vigor tanto del cuerpo como del espíritu, vigor que, en los últimos meses, ha disminuido en mí de tal forma que he de reconocer mi incapacidad para ejercer bien el ministerio que me fue confiado».

¡Qué humildad, libertad, valentía, coherencia, sentido de responsabilidad y de servicio, qué amor a la Iglesia y a los hombres, qué confianza en Dios y qué fe tan grande la de este Papa! Nos emociona. Al final de su pontificado, con sus fuerzas ya debilitadas, con este gesto nos hace recordar los primeros momentos de su ministerio petrino cuando en su primera aparición pública se autodefinió como «un sencillo, humilde trabajador de la viña del Señor». Ha cumplido su programa, el que dijo en su primera homilía, en la Eucaristía con que iniciaba su ministerio petrino: «Mi verdadero programa de gobierno es no hacer mi voluntad.., ponerme, junto con toda la Iglesia, a la escucha de la palabra y de la voluntad del Señor, y dejarme conducir por Él, de tal modo que sea Él mismo quien conduzca a la Iglesia en esta hora de nuestra historia».

Es lo que ha hecho, siempre, en estos años de pontificado, y es lo que acaba de hacer, cuando llega al final del mismo, con total libertad: ha buscado la voluntad de Dios, se ha puesto a la escucha de la voluntad divina, y se ha dejado conducir por Él. Ha mostrado una inmensa confianza en el Señor, que es quien conduce a la Iglesia en esta hora de nuestra historia. «Como un niño en brazos de su madre», así se ha puesto el Papa en manos de Dios y ha puesto en las mismas manos a la Iglesia, por la que lo ha dado todo y para la que quiere lo mejor. Ama a la Iglesia y se entrega por ella, hasta el final, en oración y sufrimiento. 

Vimos el rostro del Papa muy sereno, con grande paz: La serenidad y la paz de quien considera que ha cumplido la voluntad de Dios. Esta voluntad, que, como dijo en la homilía del comienzo de su pontificado, «nos hace volver de Él a nosotros mismos. Así no servimos solamente a Él, sino también a la salvación de todo el mundo». Su pontificado, hasta este gesto final, es, sin duda, para la salvación de todo el mundo; la fecundidad de su ministerio sólo Dios la conoce, pero, con toda certeza, es muy grande.

¡Qué actualidad tan grande cobran hoy las siguientes palabras de su homilía, se han cumplido!: «No es el poder lo que redime, sino el amor. Este es el distintivo de Dios: El mismo es el amor... El Dios, que se ha hecho cordero, nos dice que el mundo se salva por el Crucificado y no por los crucificadores. El mundo es redimido por la paciencia de Dios y destruido por la impaciencia de los hombres». La mansedumbre, la humildad, su paciencia, la espera paciente del Papa ¿no nos recuerda la mansedumbre del Cordero de Dios y la paciencia de Dios hasta el final? 

Por eso damos gracias a Dios. Junto al sentimiento de un dolor grande, es más fuerte el agradecimiento a Dios y al Papa Benedicto XVI, el del asombro ante las obras de Dios y de los testigos suyos, amigos fuertes de Dios. Dios ha hecho obras grandes por el Papa Benedicto, y le damos gracias. Ahora, con la confianza y la fe que ha mostrado, legado y fortalecido el Papa, en este Año de la Fe, confiamos la Iglesia a Dios, la ponemos en sus manos, y le pedimos que la ayude, que la ilumine, que le conceda el Pastor universal, conforme a su corazón, que le conduzca en esta encrucijada de la historia en la que Dios, sin duda, actúa. Pedimos por el Papa y nos unimos a la oración del Papa: «Confiamos la Iglesia al cuidado de su Sumo Pastor, Nuestro Señor Jesucristo, y suplicamos a María, su Santa madre, que asista con su maternal bondad a los Padres Cardenales al elegir el nuevo Sumo Pontífice». Que Dios pague al Papa, el humilde trabajador de su viña, todo su amor, todos sus desvelos y sus trabajos, todos sus sufrimientos y sacrificios por la Iglesia, a la que tanto ama, tanto que, como él mismo dice, «también en el futuro, quisiera servir de corazón a la Santa Iglesia de Dios con una vida dedicada a la plegaria». Y, por último, que el Papa Benedicto XVI nos perdone, porque seguramente tenemos mucho para ser perdonados por él.

Il senso dell'economia nell'insegnamento del Papa - di Ettore Gotti Tedeschi

In NBQ 

Il nostro grande Pontefice Benedetto XVI, di cui sentiremo una mancanza indicibile, non ha fatto lezioni di economia, ma lezioni sulla volontà di Dio che necessariamente considera l’economia. O meglio considera l’uso dello strumento economico secondo i fini per cui è stato adottato, o il senso che gli è stato dato. Il magistero del papa in economia è assimilabile al consiglio di un medico speciale per una malattia dell’anima e conseguentemente del corpo.

Il magistero economico di Benedetto XVI è scritto nell’Enciclica della globalizzazione economica e sociale, Caritas in Veritate. Che esce circa due anni dopo la data prevista (2007) dovendo tener conto dell’impatto della crisi economica incombente. Il Pontefice decide di iniziare a parlare di economia contemporanea ricordando il messaggio della Populorum Progressio di Paolo VI: la promozione dello sviluppo dell’uomo. Promozione integrale, non solo materiale! Il che significa che l’uomo ha bisogno di tre nutrimenti: corporali-materiali, intellettuali e spirituali.

Ecco cosa è il bisogno dell’uomo e conseguentemente la sua “economia”. Successivamente il Papa si domanda se lo sviluppo economico auspicato da Paolo VI nella Populorum Progressio sia stato realizzato. E la risposta che si da è no. E il perchè no è a sua volta spiegato dal fatto che tale sviluppo economico è stato, e continua a esser, “gravato da distorsioni e drammatici problemi” soprattutto nella crisi economica in corso di esplosione. Quali sono queste distorsioni? Sono uno sviluppo economico egoistico, mal pianificato che prescinde dalle nascite o addirittura che le scoraggia. Uno sviluppo economico drogato per compensare la insufficiente crescita economica conseguente, la crescita dei costi fissi conseguente, la crescita delle tasse e la diminuzione della crescita del risparmio conseguente. Uno sviluppo economico fondato sull’indebitamento delle famiglie per imporre regimi di consumismo utili a far crescere il PIL. Riducendo così gli individui ad esser “sussidiari” ai bisogni di crescita economica di Governi che la pretendono per coprire i propri errori e assicurarsi la continuità di potere in un mondo globale dove il potere economico si stava trasferendo da occidente a oriente grazie al numero di popolazione, forza e ricchezza di questi paesi.

E tutto ciò con indifferenza invece verso altri paesi poveri che attendevano da decenni di esser coinvolti nel processo di crescita economica, ma non assicuravano sufficienti ritorni sull’investimento o evidenziavano troppo rischi. Benedetto XVI ci ricorda che i principi economici sono nella dinamica della natura. Ciò per una considerazione semplice, la natura è stata creata da Dio con un ordine da seguire per valorizzarla, se si prescinde da questo ordine invece di economia si fa diseconomia, invece di creare ricchezza, si distrugge ricchezza. E non si realizza nulla di buono e vero.

Di seguito Papa Benedetto spiega ancora una legge fondamentale: l’economia non può avere una sua autonomia morale, se la pretende fallisce con danni elevati. Se l’economia riconosce di esser strumento, necessita un fine, e solo allora produce il bene comune, l’unico sostenibile. Affinchè ciò avvenga l’uomo deve avere responsabilità personale delle sua azioni, dalla creazione di ricchezza attraverso una equilibrata natalità, fino alla valorizzazione di cosa è etica applicata, al problema dell’ambiente. Ecco un altro richiamo alle cose importanti da cui l’economia non può prescindere.

Successivamente il Papa pone l’uomo nel mezzo del consorzio umano e lo invita a pensare alle relazioni per impegnarsi alla collaborazione, alla solidarietà, alla sussidiarietà degli stati verso gli individui e alla solidarietà verso i paesi poveri. Infine il Papa considera che l’uomo ha saputo, e sa, far crescere lo strumento scientifico e tecnologico, ma obietta che se non cresce lui stesso in “maturità” di conoscenza rischia di non saperlo usare. Anzi di usarlo male. Con questa riflessione Benedetto XVI fa riflettere sul fatto chiave che il problema socio economico è più che mai oggi legato al problema antropologico. Cosa è l’uomo? Cosa è il suo bene ? E’, grazie alle ricerche scientifiche, vivere mille anni? E’ riprogrammarsi per non soffrire? Per cancellare vecchiaia, dolore, infermità? E’ considerarsi alla fine solo un animale intelligente, con una certa maggior dignità, ma sempre animale da soddisfare materialmente e perfezionare scientificamente?

L’uomo non si soddisfa solo materialmente e scientificamente, gli atei-agnostici più intelligenti hanno cominciato a comprendere che la soddisfazione dell’uomo non è solo materiale, ma anche, in qualche modo, spirituale. Magari tra poco scopriranno che oltre il corpo c’è un’Anima, e allora arriveranno alla vera conclusione: “senza Dio l’uomo non sa dove andare… e l’Umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano. ”Rileggendo il magistero di Benedetto XVI in materia economica si ha il gran conforto di comprendere l’insegnamento di un Papa che pensa a noi, che si preoccupa di noi. Ma di noi, quali creature di Dio, bisognose di consolazione, ma anche di educazione. E vorrei aggiungere, bisognose di amore. Tutte cose che Sua Santità Benedetto XVI ha saputo darci in modo esemplare.

Pope’s decision to resign came after his fall in Mexico - by Andrea Tornielli

In VI

The Pope’s decision to renounce the papacy was taken after his trip to Mexico and Cuba, when the Pope suffered a head injury and his collaborators treated him in secret.
 
The director of Vatican newspaper L’Osservatore Romano, Gian Maria Vian – one of the figures who accompanied the Pope on his trip to Central America - confirmed the news in his editorial last Monday. This was Benedict XVI’s last cross-Atlantic trip as Pope.

One of the prelates that formed part of the Pope’s entourage during the visit has revealed to Italian newspaper La Stampa that during that an accident took place during the papal pilgrimage, thankfully with no serious consequences. The Pope was hurt on the head and journalists were not informed about this.

 “At the start of this highly important international trip, the Pope confided he was facing it with a “penitential spirit.” On 25 March, the Pope’s last day in León – the prelate explained – we were in the house of the Capuchin Sisters and Benedict XVI’s head was bleeding as he got up. His collaborators asked him what had happened. The Pope said he had not fallen but had banged into the basis about an hour before the meeting. He had got up to go to the bathroom and as usually happens when one gets up in the middle of the night in a house that is not one’s own, he didn’t find the light switch immediately so he moved about in the dark.”

The Pope had a similar but nastier accident in Inrod, in Italy’s Val d’Aosta region on the night of 16 July 2009. He fell from his bed, fracturing his wrist.
 
“Even the pillow had blood stains on it – La Stampa’s source said – and there was a drop or two on the carpet as well. All stains were removed immediately. But the injury was not serious and presented no cause for concern. The wound was concealed by the Pope’s zucchetto (ecclesiastical skullcap) and was masked by the Pope’s thick hair.” “There were no plasters on show – the prelate added – as was the case with John Paul II, I recall well, when he visited Poland in June 1999.”

The Pope did not complain once in the hours that followed, constantly surrounded by big crowds. “He had not problem wearing the mitre which we placed on his head during the mass celebrated in the Guanajuato Bicentenario Park - the prelate said. Everything went smoothly and only in the evening when we returned to the Sisters’ residence was the wound carefully treated.”

This incident, which was seen as irrelevant at the time, has been interpreted quite differently by the prelate who was part of the papal entourage, in light of the public revelation made by the director of L’Osservatore Romano. “That day, after dinner – he said – I was told about the jokes exchanged between the Pope and his personal doctor. As he treated the Pope’s head wound, Dr. Patrizio Polisca had remarked: “You see Holy Father why I am so critical of these trips?” With that dash of irony which is so familiar to those who know Benedict XVI well, the Pope replied: “I am also critical...”.”

The prelate was keen to add that “ it was really important for the Pope to embrace the Mexican people, all the crowds of faithful in that big country which had been the first nation to welcome Benedict XVI’s predecessor at the start of his pontificate. But he was also aware of the fact that he no longer had the physical strength to deal with such long journeys, the jetlag that followed and the burden of public commitments.”

To what extent did this incident influence the Pope’s decision to resign, a move he had pondered on for some time? It is difficult to say. Last Monday, Benedict XVI’s brother, Georg Ratzinger, stated: “The Pope’s personal doctor had expressly told him that he should avoid transatlantic trips or long journeys. He was no longer in a condition to travel long distances.”


The fact remains that that visit - the Pope’s last transatlantic trip – stuck in Ratzinger’s mind as a point of no return. “The Pope successfully carried out all his commitments during the visit” – Vatican spokesman, Fr. Federico Lombardi, said, confirming the news published by L’Osservatore Romano. “But he realised the physical toll of such trans-Atlantic journeys” would be too much for him in the future. It is possible that the accident the Pope had in the Capuchin Sisters’ residence - which could have had far more serious consequences and may have meant him having to be admitted to hospital far from Rome – contributed to the Pope’s historic decision to resign, nine months later.

Benedict, Dawkins, and the Fullness of Reason - by Francis J. Beckwith

In The Catholic Thing


In his most eloquent account of the relationship between faith and reason – the 2006 Regensberg address – Pope Benedict XVI argues that the modern understanding of reason that restricts rationality to the deliverances of the hard sciences is incapable of offering a rational justification of itself, and much of anything else that makes life worth living. “Modern scientific reason,” the Holy Father writes, “quite simply has to accept the rational structure of matter and the correspondence between our spirit [i.e., mind] and the prevailing rational structures of nature as a given, on which its methodology has to be based.” 


In other words, the modern person who wants to limit rationality to the hard sciences must stop his inquiry and not ask why nature is intelligible and why our cognitive faculties are ordered towards the understanding of nature.  These are just “givens” about which we should not rationally inquire, since to do so would mean that scientific rationalism is not the limit of reason. Benedict writes that “this aversion to the questions which underlie [the]…rationality” of modern scientific reason “endangers the West” and “[we] can only suffer great harm” because of it. The modern world denies reason’s “grandeur” and thus cannot summon “the courage to engage the whole breadth of reason.”


Within hours of Pope Benedict’s announcement that he would resign the papacy, confirmation of the truth of those theological insights came rushing through cyberspace in a variety of comments issued by the Holy Father’s most hostile critics. It would be a mistake to say that the irony was lost on these pundits, since the irony was never within their grasp to begin with. 


With minds uncritically formed by the Zeitgeist that the pope powerfully explained in his Regensberg address – combined with an unwillingness to extend reason’s power to their most cherished secular pieties – these critics, despite their own native intelligence, would not likely understand what they do not realize they do not know. 


Although I could provide several examples, one stands out as that than which no greater irony can be conceived. Soon after Benedict announced his abdication, the eminent science writer and Oxford professor, Richard Dawkins, sent out this tweet: “I feel sorry for the Pope and all old Catholic priests. Imagine having a wasted life to look back on and no sex.”


If you know anything about Dawkins, you know that he is the quintessential scientific rationalist, denying that anything that cannot be captured and quantified under the categories of the hard sciences, or traceable to them, is outside the purview of reason – and that anything outside that purview is de facto irrational. For this reason, Dawkins, as the pope would put it, has an aversion to asking questions that cannot be subsumed under the rubric of scientific rationalism.


So let us explore the reason that dare not speak its name. Dawkins, as is well known, maintains that reason – understood as equivalent to scientific rationalism, which has established the truth of evolutionary theory – requires that we deny that nature is designed, and thus is not infused with intrinsic purposes or proper ends by which we can issue moral judgments. 


Setting aside his ungrounded belief that evolution per se is inconsistent with intrinsic purposes and proper ends in nature, it should be clear that Dawkins’ scientific rationalism means that his anti-papal tweet cannot be a deliverance of reason.  


After all, for one to claim that a life of priestly celibacy devoted to Christ and his Church is a wasted life requires that one know what a fulfilled life would look like. But such a life is an ideal, and thus is not like an empirical claim about the natural world. It is not an object of scientific inquiry. One cannot point to it, as one would point toward Pope Benedict or Richard Dawkins, though the intellect can be aware of this abstract truth when assessing Benedict and Dawkins by it. 


Just as we know that a blind person ought to have sight because we know what a human being is by nature and how his parts and properties are ordered toward certain ends that work in concert for the good of the whole, we also know what excellence and virtue are before and after we see them actualized in our fellows. 


But given his diminished understanding of reason, Dawkins must deny that even he can issue such judgments by means of his rational powers. Consequently, on Dawkins’ own account of reason, his verdict on the pope’s life is the cerebral equivalent of covert flatulence gone terribly wrong: not silent and not deadly.