sábado, 8 de outubro de 2011

Ora basta! Jobs non era il Messia! - Antonio Socci

E’ nata una nuova religione: la Chiesa catodica. Che non rivela il senso della vita, ma vi priva del senso del ridicolo. Questa chiesa si è scelta come suo (involontario) messia (provvisorio, in base ai gusti del mercato) il povero Steve Jobs. A sua insaputa.

In Fatti Sentire

I suoi celebranti, prosternati e adoranti, sono giornalisti, intellettuali, vip di ogni genere, politici e opinionisti. I quali, non credendo più a Dio, non è che non credano in nulla, ma – come diceva Chesterton – credono a tutto.

Si sono convinti perfino che Jobs sia il messia: colui che “ha cambiato il mondo”.

D’altra parte nei decenni scorsi intellettuali, politici e giornalisti avevano acclamato come “salvatori dell’umanità” dei sanguinari tiranni, che avevano milioni di vittime sulla coscienza, quindi con quelli di oggi in fondo c’è un miglioramento: il buon Jobs non mai fatto male a nessuno.

Ha semplicemente dato sfogo alla sua inventiva, producendo tanti aggeggi elettronici, diventando un grosso industriale e accumulando un patrimonio enorme.
La sua attività di industriale però non può spiegare lo stupefacente spettacolo di queste ore.

I tg che aprono su Jobs e occupano mezzo telegiornale, tutte le catene televisive del mondo che celebrano il defunto con tonnellate di incenso, come una divinità dei nostri tempi e poi i programmi della serata che inneggiano al “grande”, a colui che ha “realizzato il sogno dell’umanità”.

Un telegiornale ieri titolava: ““E ora? Come sarà il mondo senza di lui?”.
Tranquilli: sarà esattamente come prima.
Se l’umanità ha superato perfino la scomparsa dell’inventore della lavatrice, ce la farà anche stavolta.

Solo che della morte dell’inventore della lavatrice nessuno ha nemmeno dato notizia.
Per la morte di Jobs invece siamo stati alluvionati dalle “lacrime” mediatiche.

Come si spiega?

Si dice: la sua tecnologia ha cambiato le nostre abitudini.
Bene.
C’è qualcuno che conosce padre Eugenio Barsanti e Felice Matteucci?

Non credo.
Nemmeno fra giornalisti e intellettuali.

Eppure hanno cambiato la vita dell’umanità forse anche più di Jobs: hanno infatti inventato e brevettato il primo motore a scoppio. Auto, moto e quant’altro vengono da lì.

Scusate se è poco: senza di loro andremmo ancora a piedi, o in bicicletta. Ma restano del tutto sconosciuti (neanche noi italiani – loro connazionali – li riconosciamo come esempio di ingegno nostrano).

Volete un altro esempio proprio nel campo dei computer e di internet? Bene. C’è un tizio che – secondo me – è stato molto più decisivo di Jobs nel rivoluzionare i nostri modi di vivere e – sorpresa! – è un italiano.

Solo che nessuno lo conosce. Almeno in Italia, perché in America lo conoscono benissimo: si chiama Federico Faggin e il 19 ottobre 2010 ha ricevuto dalle mani di Barack Obama il più alto riconoscimento americano in campo scientifico, la Medaglia Nazionale per la Tecnologia e l’Innovazione.

E’ a lui che si deve il progetto del primo microprocessore, cioè quella cosina minuscola che fa funzionare tutti i nostri computer e tutti i congegni elettronici.

Credo si possa dire che senza quest’invenzione non ci sarebbero né Internet, né Jobs, né Bill Gates, né Google, né Facebook, perché non ci sarebbero nemmeno i personal computer e gli smart phone. E tante altre cose.

Ma in Italia resta uno sconosciuto. Non ricordo di aver mai letto un articolo su di lui (tanto meno in prima pagina) o di aver visto un programma tv che mostrasse questo vanto del genio italiano.

Un altro caso. Qualcuno conosce il dottore Albert Bruce Sabin? Molto pochi. Eppure è colui che ha realizzato il vaccino antipolio che ha liberato l’umanità (e anche il popolo italiano) dalla terribile poliomielite.

Ebbene Sabin, che poteva diventare miliardario con la sua scoperta, non ne ricavò neanche un dollaro. Rinunciò infatti a brevettarla e a sfruttarla in senso commerciale perché il prezzo del vaccino fosse alla portata di tutti.

Disse: “Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo”.

Sabin era ebreo e aveva avuto due nipotine uccise dalle SS: nel suo cuore c’erano i tanti innocenti che soffrivano ingiustamente. Non vi sembra un grande? Non vi pare che abbia fatto una cosa immensa per l’umanità?

Eppure alla sua morte, nel 1993, non si sono fatte paginate di giornali. Né editoriali dove si diceva che era un uomo che aveva cambiato il mondo.

Potrei continuare con gli esempi. Ce ne sarebbero tanti. E tutti dimostrerebbero che non si spiega l’enfasi mitologica dei media, i titoli messianici e queste ovazioni planetarie per Jobs.

Il Corriere della sera, per fare solo un esempio, ha dedicato – oltre all’apertura di prima pagina – otto pagine (ripeto: otto!) al decesso, peraltro annunciatissimo di Jobs. Non ha esitato – il “Corriere” – nemmeno a titolare: “A Cupertino come da Madre Teresa”.

E, per non farci mancare niente, ha affidato l’editoriale a Beppe Severgnini il quale ha occupato la prima pagina del quotidiano milanese per dare al mondo due fondamentali notizie: 1) “il primo portatile l’ho acquistato vent’anni fa in California” (e chi se ne frega!); 2) “il (mio) primo computer è stato un Macintosh: ci ho scritto il primo libro” (cosa che potrebbe gravare sulla coscienza di Jobs come un macigno).

Perfino i giornali di sinistra hanno partecipato alla devota processione con i turiboli per la mitizzazione di Jobs, sebbene sia un simbolo del grande capitalismo. “Il Manifesto” gli ha dedicato l’apertura e un editoriale laudatorio intitolato: “Un borghese rivoluzionario”.

E un altro titolo che (letto su un giornale comunista) fa un po’ ridere: “Il morso dell’utopia”. Di questo passo rischiano di mitizzare pure Berlusconi.

Anche “Avvenire” – il giornale dei vescovi – ha dedicato a Jobs un articolo (con foto) in prima e all’interno addirittura quattro pagine. Che francamente lasciano un po’ perplessi considerato che ci sono tantissimi missionari che donano la loro vita intera, fin da giovani, per assistere i più diseredati della terra, in condizioni durissime (ho presente certi lebbrosari africani) e la loro morte non è segnalata da nessuno, nemmeno sulla stampa cattolica.

Eppure credo che potrebbero testimoniare qualcosa, sulla vita e sulla morte. Penso che loro siano dei veri maestri. E la loro vita potrebbe essere più interessante e istruttiva della vicenda professionale di Jobs che in fin dei conti viene magnificato per delle massime che trasudano una certa banalità.

Sentite queste: “nella vita tutto serve”, “bisogna credere in qualcosa”, “quando la vita vi colpisce con una bastonata non scoraggiatevi”, “nessuno vuole morire, ma alla morte nessuno è mai sfuggito”.

Non c’era bisogno di Jobs: questi pensieri li abbiamo già sentiti tutti da nostra nonna. Decantare queste parole come perle filosofiche rischia di farci finire nell’assurdo o nel ridicolo.

Jobs è un uomo del nostro tempo. E’ stato un bravo inventore e un industriale di grande talento. Anche un tipo simpatico e tosto, per come ha vissuto la malattia. Ma, sinceramente, non mi pare uno che ha rivoluzionato la storia umana. Nemmeno un filosofo.

Le sole due frasi suggestive da lui pronunciate nel famoso discorso di Stanford non sono sue: sono citazioni (e lui peraltro lo dice esplicitamente). Eppure vengono evocate come massime del mito Jobs.

“Continuate ad aver fame. Continuate ad essere folli” è una frase del “Whole Earth Catalog” di Steward Brand. Mentre “vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo” è un pensiero della spiritualità monastica cristiana che Jobs lesse a 17 anni in forma di battuta umoristica: “Se vivrete ogni giorno come se fosse l’ultimo, un giorno sicuramente avrete avuto ragione”.

Jobs è stato semplicemente un creativo e un grosso industriale. Non facciamone il messia. E non inventiamo miti per coprire il nostro vuoto. Credo che lui stesso, che continuava a vestire jeans e girocollo, avrebbe trovato assurda questa enfasi messianica planetaria.

Antonio Socci


Un sacerdote canadiense de 85 años, proscrito por su obispo por molestar al alcalde homosexual

In Religi]on en Libertad

"Es hora de apartar de la Iglesia todo cuanto haya en ella de mundano", dijo el Papa en Alemania en su viaje de finales de septiembre. Pero hay algunos prelados que interpretan estas palabras con un sentido inverso de la mundanidad, apartando a quienes la critican.

Así se está viendo el caso del sacerdote Donat Gionet, de 85 años, quien celebró el año pasado sus bodas de oro sacerdotales rodeado del cariño de sus fieles en su parroquia de San Felipe, en Burlington, en Ontario (Canadá). Allí lleva desde 1985 sirviendo a la comunidad francófona de la ciudad, con el respeto de unos y de otros.

Pero todo comenzó a torcerse justo en los días en los que Benedicto XVI visitaba su país natal. En una homilía dominical, Don Donato fue muy explícito: "Las puertas del infierno que quieren destruir la Iglesia son la obra de Satanás, desde los primeros principios de la Iglesia hasta nuestros días. Pero hoy somos nosotros, los católicos, quienes destruimos nuestra Iglesia católica. No tenemos más que contemplar el número de abortos entre los católicos, los homosexuales, y a nosotros mismos: nosotros mismos destruimos nuestra Iglesia".

Cuando dijo "nosotros mismos", Gionet se señaló el pecho: "Con ese gesto quería referirme a nosotros los sacerdotes", aclaró después.

El obispo de Bathurst, Valéry Vienneau, decidió tomar cartas en el asunto y ha sancionado al sacerdote retirándole el cargo parroquial y destinándole a un hospital de cuidados paliativos, con prohibición de decir misa pública. ¿Por qué? Porque Don Donato se negó a modificar los términos en que denunciaba los ataques a la doctrina de la Iglesia: "Cuando me preguntaron si iba a continuar utilizando el mismo tono, dije que sí. Para mí es importante decir la verdad", explicó el anciano pastor de almas en una carta abierta tras conocer las medidas del obispo contra él.

Desde la diócesis reconocen que el padre Gionet no ha faltado a la doctrina católica. Wesley Wade, vicario general, dijo a Radio Canadá que sus palabras estaban en consonancia con las enseñanzas de la Iglesia: "Lo que le faltó principalmente fue una aproximación pastoral. Tal vez una falta de respeto a personas con nombres y apellidos y a grupos de personas, que han provocado división en la comunidad".

Entre las personas con nombres y apellidos a las que se refería Wade figura el alcalde de Saint-Leolin, Joseph Lanteigne, que forma parte del consejo parroquial... y proclama su homosexualidad abiertamente. Fue él quien pidió que el sacerdote fuese suspendido, acusándole de homofobia.

A finales de agosto, Gionet había criticado en su homilía la manifestación del Orgullo Gay en Moncton (New Brunswick). Pero no sólo el acto en sí, sino su trivialización con que muchos católicos lo consideran una celebración festiva y divertida, incluso acudiendo a verlo: "¿Qué pensaríais de alguien que, al ver derrumbarse las Torres Gemelas el 11 de septiembre, se pusiese a aplaudirlo como espectáculo? ¡No se debe apoyar al mal, sea en la forma que sea!".

"¿Me habéis preguntado qué dije exactamente en aquella homilía?", le dice el viejo sacerdote a sus superiores: "No. Sólo escucharon la opinión de algunos frustrados", sentenció, demostrando que la obediencia al cumplir el severo castigo de no poder celebrar ante sus feligreses, es compatible con la entereza de espíritu para mostrar su disconformidad.


sexta-feira, 7 de outubro de 2011

Can Neuroscience Tell Us Anything About Virtue?


In a new bestseller, David Brooks contends that the “new sciences” point to the incredible reality and importance of old-fashioned things like education, character formation, and virtue.

David Brooks’s recent bestseller, The Social Animal: The Hidden Sources of Love, Character and Achievement, is an unusually rich book for one aimed at popular audiences. Writing in the dramatic form of a novel, Brooks develops unique and insightful reflections on the new “sciences” of human nature—neuroscience, genetics, and psychology—in a serious attempt to understand what they have to tell us about the contours of a life well lived. Comparing his method to Rousseau’s in Emile, Brooks narrates the lives of two protagonists, Harold (from an upper-class background) and Erica (from more difficult circumstances), intending to show concretely how the new sciences can illuminate our understanding of education, human development, daily choices—and even happiness and love. Although some critics have disparaged the book and its popular success, Brooks accomplishes something truly original in his synthesis, meriting the thoughtful consideration of readers.

Those who appreciated Brooks’s earlier books—Bobos in Paradise and On Paradise Drive—will find The Social Animal suffused with his usual comic and perceptive observations about contemporary culture. For example, the reader is introduced to new social categories and concepts, including the “Composure Class” (“lavish spending on durables and Spartan spending on consumables. They’ll give you a ride on a multimillion dollar Gulfstream 5, and serve a naked turkey slice sandwich on stale bread from the Safeway”), and “Sublimated Liquidity Rage” (“the anger felt by Upper-Middle-Class Americans who make decent salaries but have to spend 60 percent of their disposable incomes on private-school tuition”).

However, The Social Animal goes beyond mere social commentary and explores deeper philosophical questions about the animating sources of human behavior. Drawing on the latest studies from disciplines such as neuroscience, psychology, and behavioral economics, Brooks highlights the role that the unconscious (or semi-conscious) mind plays in informing our everyday perceptions and judgments. His treatment is at once erudite and unorthodox.

Of course, the orthodox interpretation of the new sciences slouches toward determinism. In this view, neuroscience, genetics, and psychology reveal us to be the unwitting pawns of biochemical processes, hardwired at birth and changed only through pharmaceutical intervention. Yet by drawing on a vast range of research, Brooks suggests that the findings of these fields, rightly understood, in fact point to the incredible reality and importance of old-fashioned things like education, character formation, and virtue. Moreover, he shows how success in many aspects of life depends crucially upon capacities of self-discipline, empathy, and insight that must be cultivated rather than merely inherited. Although biology matters, our biological endowment is remarkably plastic. We are not born as individuals strapped to a particular fate. Rather, we are truly social animals, whose remarkable potential comes to be cultivated, exercised, and enjoyed in communion with others.

Stated like this, these conclusions might appear quite abstract, but the genius of Brooks’s narrative is that he brings them to life in a way that is convincing on both an academic and a literary level. Granted, the book may not win any prizes for “best fiction,” but to the extent that its characters are occasionally stilted, this not only reflects the difficulties of integrating scientific commentary, but likely also the real lives of many Americans. Sometimes the truth is not stranger than fiction.

The most significant intellectual achievement of the book is that it provides a reasonable, overarching framework through which to understand a vast jumble of narrowly focused, quirky, and seemingly trivial academic research churned out by biological and social scientists. These findings, Brooks suggests, are often produced in “academic silos,” where it can be difficult for researchers studying, say, the hormones involved in mammalian lactation to address the larger question of “so what?”

Brooks performs a crucial task that is seldom pursued in the modern research university; namely, he surveys and integrates the output of specialized disciplines to put together a comprehensive account of their implications for human flourishing. Indeed, at a number of points, Brooks tacitly critiques contemporary research that has become unhelpfully narrow due to the demands of scientific tractability. This is particularly evident in the social sciences, which can remain blind to any factors not easily quantified, and in educational policy, which is so often crafted around “factual” knowledge and measurable benchmarks. The result, Brooks suggests, is that “we are good at teaching technical skills, but when it comes to the most important things, like character, we have almost nothing to say.”

The central social teaching of the book comes in its critique of rationalistic views of human nature. Although Brooks does not doubt the importance of “rational” aspects of the conscious mind, he emphasizes the influence of “emotional” aspects, while also highlighting the interaction of both with subconscious processes such as memory, intuition, biochemical cues, reflexes, innate and learned responses, priming, anchoring, framing, etc. The outcome is a resounding defense of the British Enlightenment (Smith, Hume, and Burke) over the French Enlightenment (Descartes, Condorcet, and Comte) when it comes to politics, economics, and social philosophy.

In brief, humans are not dry, rationalistic calculators whose lives fit neatly into fixed models of behavior. Contrary to the dreams of rationalist planners, a humane society must find ways to address the human person in his or her fullness: emotions, biases, traditions, and all. Brooks illustrates this at one point with the example of Harrison, the hyper-rational consultant whose high IQ proves incapable of dealing with the vagaries of a changing world. However, the protagonist Harold’s stint at a Washington think tank late in the story provides Brooks a larger canvas upon which to sketch out the social implications of the British Enlightenment’s core truths. The illuminating result is a non-ideological blend of the thought of Hamilton, Lincoln, and Oakeshott.

The Social Animal has drawn many critics. One prominent reviewer faults the book for not having definitively resolved the question of whether and how human reason can properly evaluate human ends, as if the book was intended to be a work of analytic philosophy. (Incidentally, although the book indeed fails to resolve the central question of philosophical ethics, philosophers themselves have done a terrible job addressing it over the last century.) Another reviewer appears certain that the new sciences should counsel us toward nihilism, cites one study contra Brooks, and ultimately rejects the “happiness” of the narrative. However, the book—ironically—enables us to ask whether such reviewers are themselves motivated by their formal criticisms, or rather by their underlying biases against Brooks’s somewhat conservative political and philosophical conclusions. The thoughtful reader will have to judge for herself.

It is, of course, true that extrapolating from scientific research to a full vision of human nature requires much invention and artistic license. This speaks to the permanent limits of science, however, not the impropriety of novelists. The Social Animal reminds us that some kinds of knowledge can only be fully communicated and appreciated in narrative form. Moreover, we should always be able to ask of any narrow “scientific finding” how it relates intelligibly to our understanding of human life writ large. Brooks attempts precisely what needs to be done if a vast array of compartmentalized, social-scientific, and biological research is ever to amount to something meaningful.

It is, indeed, difficult to satisfy the demands of scientific commentary and literary depth together. For a book with “love” in the title that compares itself to Emile, the romantic elements are conspicuously underdeveloped (with the phenomenological often taking a back seat to the biological). Ultimately, though, Brooks condenses and communicates a vast range of research and presents it in a way that is entertaining and instructive, and that explores fundamental human questions. One can hardly ask for more in a popular book. There is even reason to hope that it may inspire, in both admirers and critics alike, a deeper appreciation for the rational animal’s social fulfillment.



William English is currently a Fellow at the Edmond J. Safra Center for Ethics at Harvard University. He received his PhD in political science from Duke University in 2010.

quinta-feira, 6 de outubro de 2011

República portuguesa ou Portugal? - P. Gonçalo Portocarrero de Almada

Proposta de uma designação mais popular e apolítica da identidade nacional

No verão passado, alguns jovens portuenses encontraram-se numa capital europeia com um grupo de rapazes norte-americanos, que ignoravam a existência e a localização de Portugal. Alguns ainda alvitraram ser um Estado da América Central, ou do Sul, ou até mesmo uma nação africana. Ou seja, em qualquer caso – com perdão! – uma república das bananas.

A ignorância dos outros não afecta a nossa dignidade nacional, mas a verdade é que, por muito que doa ao nosso patriotismo, talvez os «yankees» tenham razão. Sim, provavelmente Portugal, em termos legais, não existe.

Salvo melhor opinião, o país que ocupa a faixa ocidental da península ibérica e as ilhas adjacentes chama-se, oficialmente, República portuguesa. O Chefe de Estado não é o presidente de Portugal, mas apenas da República portuguesa. O parlamento nacional é tão só, na terminologia oficial, a Assembleia da República, que nominalmente nem portuguesa é...

A própria lei fundamental, que deveria ser o texto constitucional da nação e não apenas do sistema político vigente é, em termos literais, a Constituição da República portuguesa, muito embora Portugal seja referido em alguns dos seus artigos, como o 1º, o 5º e o 7º. Outro tanto se diga da Procuradoria-geral da República e de muitas outras entidades oficiais, que são em geral republicanas, mas não nacionais.

No Bilhete de Identidade também não consta o nome de Portugal, mas sim o da República portuguesa. Quer isto dizer que os respectivos titulares são, legalmente, republicanos-portugueses, como os cidadãos da Coreia do Sul são sul-coreanos e não apenas coreanos?! Nesse caso, os que só sejam portugueses, ou não sejam republicanos, são, em termos legais, apátridas, como qualquer coreano que não seja do norte nem do sul. Ou, pelo contrário, se o Bilhete de Identidade credencia o seu portador como português e não republicano-português, dever-se-á então concluir que o Estado correspondente não é a República portuguesa, mas Portugal?!

Para a nomenclatura oficial, a implantação da República significou, gramaticalmente, o fim de Portugal substantivo, porque antes o país não era a monarquia portuguesa, mas Portugal, ou o Reino de Portugal. Com o 5 de Outubro de 1910, o nome da pátria passou a adjectivo, perdeu a maiúscula e ficou reduzido à minúscula condição de uma secundária circunstância, um apodo da organização estatal.

A República, ao sobrevalorizar o regime em detrimento da nação, eclipsou a expressão histórica da identidade de um dos mais antigos países da Europa que, por este motivo, ficou conotada com o anterior regime. Mas a denominação nacional, que remonta à fundação da nacionalidade e persiste na língua e na cultura popular, na filatelia, nas selecções desportivas, etc., não é propriedade exclusiva de nenhum sistema ou partido político.

No país vizinho não há aldeia em que não exista uma praça de Espanha, como entre nós todos os lugarejos têm uma avenida da República. Porque razão? Porque o que é óbvio não carece de explicitação, mas sim o que o não é. Os espanhóis não precisam de afirmar a sua forma de Estado, que é comum a quase toda a sua história, mas sim a sua recente e ainda polémica unidade nacional. Ao invés, a nacionalidade portuguesa está firmemente consolidada por oito séculos de pacífica unidade, mas não a República que, por este motivo, precisou de se afirmar através de uma nomenclatura oficial e artificial.

Sem anacrónicos saudosismos do Estado Novo ou da Assembleia Nacional, nem tomar partido sobre a questão do regime, talvez não fosse descabido, agora que de novo se fala de uma revisão constitucional e se questiona a pertinência do hino e da bandeira republicana, propor uma fórmula mais plural e popular da nossa identidade colectiva.

Mais de um século volvido sobre a implantação da República, é hora de que a nação se desprenda de uma aparentemente obsoleta terminologia ideológica e adopte, oficialmente, na sua Constituição, nos seus órgãos de soberania e nas suas entidades oficiais, uma designação menos facciosa e mais consensual. É algo, aliás, que já acontece nas nossas missões diplomáticas, que são denominadas embaixadas de Portugal e não da República portuguesa. Nada obsta, portanto, a que o chefe de Estado, a lei fundamental ou o parlamento o sejam também, apenas e só, de Portugal.

A Igreja não deve intrometer-se em questões partidárias, nem manifestar simpatia ou aversão por qualquer regime político mas, como força de coesão social, pode e deve favorecer a reconciliação nacional, como sempre o fez, antes e depois de 1910. O nosso país, como pátria comum a todos os cidadãos, sejam republicanos ou monárquicos, de esquerda ou de direita, cristãos ou pagãos, talvez favorecesse a concórdia nacional e o seu prestígio internacional se adoptasse, oficialmente, o nome que melhor expressa a sua gloriosa e multissecular identidade: Portugal.


Major Pro-Life Legal/Scientific Document Launched at UN Headquarters


NEW YORK, October 6 (C-FAM) It is commonplace now for UN officials and American law professors to tell foreign governments that they are required by international law to liberalize their abortion laws. Just last month the UN Special Rapporteur on Health issued a report making this claim. The Secretary General endorsed his report. Shortly thereafter the UN High Commission on Human Rights said the same thing.

Pro-life activists have been saying for years that this is a false assertion. Even so, some governments have started to listen and to liberalize their laws. The High Court of Colombia changed their abortion laws based on these assertions from a UN committee. Two judges on the Mexican High Court have made these assertions also.

Enter the San Jose Articles, which were launched today in the UN press briefing room at UN headquarters in New York. Professor Robert George told UN press and observers that the San Jose Articles were drafted for the purpose of helping government officials fight back against such assertions.

“The San Jose Articles were drafted by a large group of experts in law, medicine, and public policy. The Articles will support and assist those around the world who are coming under pressure from UN personnel and others who say falsely that governments are required by international law to repeal domestic laws protecting human beings in the embryonic and fetal stages of development against the violence of abortion” said George.

Ambassador Joseph Rees, former US Ambassador to East Timor and one time US representative to the UN Economic and Social Council joined George at the press briefing. Rees said, “When I was in Timor I witnessed first-hand a sustained effort by some international civil servants and representatives of foreign NGOs to bully a small developing country into repealing its pro-life laws. The problem is that people on the ground, even government officials, have little with which to refute the extravagant claim that abortion is an internationally recognized human right. The San Jose Articles are intended to help them fight back.”

The Articles were a year in the making including a two-day negotiating session in San Jose, Costa Rica in March. Altogether 29 experts helped draft and sign the document. Signatories to the Articles include Professor John Finnis of Oxford, Professor John Haldane of the University of St. Andrews, Francisco Tatad, the former majority leader of the Philippine Senate, Javier Borrego, former Judge of the European Court of Human Rights, Professor Carter Snead of UNESCO’s international committee on bioethics, and Lord Nicholas Windsor an outspoken pro-life proponent who is a member of the British Royal Family.

In the coming days, the Articles will be launched in the British House of Lords, the European Parliament, and the Italian Parliament, also in Madrid, Washington DC, Santiago, Manila, Buenos Aires, Calgary and San Jose.

The Articles can be viewed at a website, also launched today, at www.sanjosearticles.org.

Very Important: the San Jose Articles


I numeri dimostrano in modo inequivocabile che i princìpi non negoziabili (vita, famiglia, educazione) sono la base di una politica per il bene comune

di Riccardo Cascioli

In La Bussola Quotidiana


Il Rapporto sulla demografia presentato dal Progetto culturale della Cei ci dice una cosa molto importante, oltre ai numeri allarmanti sulle conseguenze del crollo della natalità (potete leggere i contenuti del Rapporto nel Focus che presentiamo oggi). Ci dice il profondo nesso tra stabilità della famiglia e natalità e delle perverse conseguenze che il calo demografico ha sull’economia e sulla società nel suo insieme. E quindi quanto l’una o l’altra politica sociale possa influenzare sia la solidità della famiglia sia la natalità.

Il fatto che nel 2050, a questi ritmi, avremo un crollo della popolazione in età lavorativa unico al mondo, ad esempio, avrà ripercussioni negative sull’innovazione e sulla competitività della nostra economia e quindi sulla capacità di generare ricchezza (per approfondire le conseguenze economiche del crollo della fertilità vedi anche R. Cascioli – A. Gaspari, I padroni del pianeta, Piemme 2009). Allo stesso modo quanto si investe sulla famiglia dice anche l’evoluzione dei tassi di fertilità.

L’Italia è infatti uno dei paesi industrializzati dove è più bassa la quota di spesa sociale dedicata alla famiglia, e in effetti anche il tasso di fertilità è tra i più bassi. Inoltre il rapporto individua nella legge Dini sulle pensioni (1995) la mazzata decisiva ai tassi di fertilità nel nostro paese. “La percentuale dei contributi a carico delle imprese e dei dipendenti è rimasta complessivamente immutata, ma allora cambiò in modo radicale e definitivo la capacità di finanziamento per una politica a favore della famiglia”. E dal 1995 al 2010 ben 120 miliardi di euro sono stati tolti dalle risorse per la famiglia e le donne lavoratrici per andare a finanziare il sistema pensionistico.

Una politica per la famiglia, dunque, non significa occuparsi di un settore particolare della società, che ha una valenza prettamente morale. Un affare per esperti e fissati, insomma. Al contrario, significa decidere il futuro economico e sociale di un paese, di un popolo. La stessa cosa si può dire per una politica che accolga la vita, è fondamentale per invertire la tendenza dei tassi di fertilità che, a loro volta, saranno decisivi per l’andamento dell’economia.

Vale a dire che i numeri dimostrano in modo inequivocabile che i princìpi non negoziabili (vita, famiglia, educazione) sono la base di una politica per il bene comune, sono il fondamento di una visione globale della società, sono la piattaforma da cui partono tutte le politiche di settore (economia, immigrazione, energia e via dicendo). Il che smentisce chi pensa che invece aborto, eutanasia, fecondazione artificiale, divorzio, scuole paritarie, siano questioni accanto ad altre su cui non vale neanche la pena puntare troppo in un momento in cui la crisi economica impone ben altre priorità.

La verità è che non si creeranno mai sviluppo e posti di lavoro se non si interviene sulle cause strutturali che sono all’origine della crisi, come appunto il crollo demografico.

E’ per questo motivo che l’unità politica dei cattolici si fonda proprio sui princìpi non negoziabili: non per limitare l’impegno politico a singoli temi, ma per affrontare nella prospettiva giusta tutti i problemi di una società complessa.

E’ ciò che dovranno tenere bene a mente anche le organizzazioni cattoliche della società civile e del mondo del lavoro che il 17 ottobre si ritroveranno a Todi, sotto l’egida della Conferenza episcopale, per rilanciare il ruolo (pre) politico dei cattolici in questo momento di transizione. Il rischio di cercare l’unità sulle conseguenze (il lavoro e l’economia) dando per scontato ciò che viene prima (i princìpi non negoziabili) non è così remoto. Se si vuole dare un contributo originale alla società italiana è necessario partire con il piede giusto.



Ratzinger strikes again at the "filth" in the Church

The earthshaking decision to remove the monks from the Basilica of the Santa Croce in Gerusalemme (Basilica of the Holy Cross in Jerusalem), where they had been for five centuries, is another sign of how the “gentle rule” of Benedict XVI can also be decisive and drastic when it comes to eliminating that “filth” in the Church, the existence of which was denounced by Cardinal Ratzinger six years ago during the Way of the Cross.


by Andrea Tornielli

In Vatican Insider

The decree of the Congregation for Religious which suppressed the abbey come two years after the removal of the abbot, who was much talked about for the less than transparent management of his community and his friendships.

The Pope has not vacillated in the face of all kinds of old and new scandals that have surfaced. For example, he has established standards that are even more severe than the ones he suggested to John Paul II 10 years ago. The victims take priority, as he first showed with his personal stance and now with the new guidelines on abuse aimed at the bishops’ conferences and published last Monday. He has charged the bishops with the responsibility of serving as “fathers and brothers” to their clergy. But most importantly, he has acted, far from the spotlight, with determination during the first six years of his papacy.

One month after he was elected in May 2005, Ratzinger banned Father Gino Burresi, founder of the Congregation of the Servants of the Immaculate Heart of Mary, from any public ministry for sexually abusing his young followers. The priest had been the object of huge coverage for years and the offences he had committed had expired under the statue of limitations. Shortly thereafter came the famous decision on Father Macial Maciel, the former founder of the Legion of Christ, who was found guilty of serious abuse.

In September 2008, Benedict XVI laicized don Lelio Cantini, the charismatic priest from Florence and leader of an active community that saw a number of clergymen emerge from its ranks. He too was guilty of repeatedly abusing minors. In July of the following year, he cracked down on a German clergyman belonging to the Missionaries of the Holy Family of Munich, while in February 2010, with a decree that cannot be appealed, Ratzinger defrocked don Marco Dessi, a missionary in Nicaragua, before the end of his civil trial for sexually abusing minors. The following month, don Andrea Agostini, a priest in the diocese of Bologna who supervised a catholic nursery school in Ferrara, was dismissed from the clerical state for pedophilia. In October 2010, don Nello Giraudo from the diocese of Savona met the same fate, while at the beginning of this year Fernando Karadima, the powerful and influential priest from Chile, was forced to retire despite the fact that the offences had expired under the statute of limitations. A quick decision is also expected regarding don Riccardo Seppia, the priest from Genoa who is a cocaine addict and predator of young boys.

A year ago, at the height of the scandals that occurred mainly in the United States, Ireland and Germany, Benedict XVI made a dramatic pronouncement that «the greatest persecution of the Church does not come from enemies on the outside» but «is born from the sins within the church». He linked these events to the message of the apparitions of the Virgin Mary in Portugal during the last century, claiming that «We delude ourselves if we think that the prophetic mission of Fatima has come to an end».

In the interview book “Light of the World”, the Pope also supported the media and their role in the affair «The media would not have been able to provide those reports if the sin had not existed in the Church...as long as it is a matter of bringing the truth to light, we should be grateful». A lesson of great humility, which seen from the outside could be even better understood inside the Church.




Cardenal Piacenza: Nunca es lícito separar la Escritura de la Tradición

LOS ÁNGELES, 05 Oct. 11 / 12:41 pm (ACI/EWTN Noticias)

En la homilía de la
Misa que presidió el 4 de octubre por el día de San Francisco de Asís en la arquidiócesis de Los Ángeles, la más grande de Estados Unidos, el Prefecto de la Congregación para el Clero en el Vaticano, Cardenal Mauro Piacenza, señaló que el mundo de hoy necesita urgentemente sacerdotes santos en los que nada de lo humano pueda un día oscurecer la belleza y la fascinacion del Señor.

ACI Prensa da a conocer en esta nota algunos extractos de esta homilía y de otros tres discursos que pronunció el Cardenal Piacenza durante su estadía en la ciudad de Los Ángeles, en los que meditó sobre la identidad del sacerdote, la centralidad de las Escrituras, la importancia vital de la Eucaristía, y la urgencia de la santidad.

En su homilía de la Misa que celebró en el Seminario Arquidiocesano, el Purpurado meditó sobre el ejemplo de San Francisco de Asís, quien "incendió el mundo de fervor misionero y reorientó la mirada y el corazón de los fieles hacia lo esencial: ¡Jesús de Nazareth, el Verbo eterno hecho Hombre, muerto y Resucitado!"

El Cardenal dijo que "la experiencia de la vocación es siempre la de una gran predilección, inmerecida, nunca fruto de esfuerzos humanos, sino don gratuito de la misericordia de Dios. En la vocación todos nosotros hemos sido ‘tomados por Cristo’, envueltos en su designio de amor, ¡abrazados en una historia que será eterna!"

"Esta inserción en la vida divina, iniciada en el santo bautismo, y para nosotros extraordinariamente renovada por la vocación sacerdotal, tiene el sabor de la totalidad. ¡Cristo lo da todo y lo pide todo!"

Esta entrega total del sacerdote, explicó, se da en la Cruz como muestra el ejemplo de la vida de San Francisco, cuyo memorial se celebra cotidianamente en la Eucaristía que debe ser "el verdadero centro de la vida de un seminario y de un seminarista".

"Sin esta centralidad eucarística orante, que supera cualquier otro medio formativo, no hay auténtica formación sacerdotal. ¡Por eso es tan importante una auténtica y correcta vida litúrgica! El hombre de la Eucaristía se forma en la escuela de la Eucaristía".

Por ello, alentó, "debemos implorar con insistencia para cuantos se preparan hoy al Ministerio Sacerdotal aquella radicalidad y aquel fervor que tuvo San Francisco".

El Cardenal alentó luego a los seminaristas a vivir intensamente el tiempo de formación en el seminario, con mucho trabajo "a menudo fatigoso, sobre uno mismo, para que nada de nuestra humanidad pueda un día oscurecer la belleza y la fascinacion del Señor!"

El seminario, continuó, es el tiempo de la preparación de la Verdad, "no de las opiniones de un teólogo u otro, sino de la Verdad que Dios nos ha revelado sobre Sí mismo y que, en las diferentes épocas de la historia, permanece siempre inmutable, como Cristo, que es el mismo ayer, y hoy y siempre!"

La Palabra de Dios en la vida del sacerdote

El 3 de octubre, el Cardenal Piacenza dedicó una conferencia a los seminaristas titulada "La Palabra de Dios en la vida del sacerdote" en la que meditó sobre la exhortación apostólica post-sinodal Verbum Domini.

En español, el Cardenal explicó la importancia del Concilio Vaticano II para la vida de la Iglesia Católica, que debe ser comprendido como un hecho vital que no genera ruptura. "Siempre es bueno recordar que la única auténtica hermenéutica del gran acontecimiento conciliar es la de la continuidad y de la reforma", indicó.

"No existen dos Iglesias católicas, una preconciliar y una postconciliar; ¡si así fuera, la segunda sería ilegítima!", precisó luego.

El Purpurado vaticano dijo luego que esta perspectiva es importante para entender la función de las Sagradas Escrituras en la vida de todo presbítero. La Palabra de Dios, dijo, "es una persona, no un libro. Es necesario reconocer que el Cristianismo mantiene, respecto a los escritos en los cuales se inspira, una relación única, que ninguna otra tradición religiosa puede tener".

Estas Escrituras, explicó también el Cardenal, no puede separarse de la Tradición: "Nunca es lícito separar la Escritura de la Tradición; como tampoco es lícito separarlas de la interpretación que de ellas ha dado y da el Magisterio de la Iglesia. Separaciones de este tipo conllevan siempre gravísimas consecuencias espirituales y pastorales".

"Una Escritura sin Tradición sería un libro histórico y la historia nos habla del pensamiento de los demás, mientras que la Teología quiere hablar de Dios", precisó.

El Cardenal indicó además que "el tríptico Escritura-Tradición-Magisterio, en realidad, desde el punto de vista estrictamente histórico, debería configurarse como: Tradición, entendida como lugar en el cual la Escritura nace, Escritura y Tradición vinculada a la Escritura; todo, autorizadamente interpretado por el Magisterio, es decir, por los legítimos Sucesores de los Apóstoles".

Todo esto, afirmó, evita "prudentemente algunas unilateralidades ilegítimas".

Para leer, conocer y adherirse a las Sagradas Escrituras, el sacerdote debe leerlas teniendo siempre en cuenta el aspecto neumático, es decir, de la participación esencial del Espíritu Santo.

"Si Cristo es la plenitud de la Revelación y toda la existencia de Cristo está en el Espíritu, entonces la misma Revelación es un evento neumático: la Tradición la anima el Espíritu, la Escritura la inspira el Espíritu y el Magisterio, en la tarea de interpretar autorizadamente Escritura y Tradición, la guía el Espíritu", dijo el Cardenal.

El Prefecto aseguró luego que con la lectura de las Escrituras en el Espíritu, "se debe evitar todo enfoque meramente positivista o limitado al historicismo, que no permita la comprensión del significado real del texto".

"Las Escrituras, si nos acercamos a ellas prescindiendo de su dimensión neumática, se quedan como mudas y, en lugar de hablar de Dios y hacer que escuchemos Su Voz, narran simplemente una historia".

Tras resaltar la importancia de la Liturgia de las horas en la vida del sacerdote, el Cardenal Piacenza explicó que los presbíteros "por el ministerio que se nos ha encomendado, no somos solamente, con todos nuestros hermanos, oyentes de la Palabra, sino también autorizados anunciadores e intérpretes de esta".

Por ello, dijo, "no podemos anunciar lo que no conocemos y no hemos hecho nuestro; por tanto, la posibilidad del anuncio está estructuralmente vinculada al conocimiento de las Escrituras y a la familiaridad e identificación con el pensamiento de Cristo".

En este proceso, explicó, no hay "mecanicismos" sino una vida profunda interior profunda que permita hacer vida a Cristo, su mensaje, que también sirven para transformar la cultura cotidiana.

"Nada, como el anuncio de la Palabra, genera cultura. Es decir, genera un modo nuevo de concebir la vida, las relaciones, la sociedad e incluso la política. Un modo que, cuanto más evangélico es, más se descubre profunda y sorprendentemente correspondiente al corazón humano", explicó el Cardenal Mauro Piacenza.

Hombres de la Eucaristía

El mismo lunes 3 de octubre, el Prefecto de la Congregación para el Clero presidió una Misa en la que participaron los sacerdotes de Los Ángeles de lengua española, a quienes les recordó que el presbítero debe tener como centro de su vida a la Eucaristía.

El Purpurado explicó que "cualquier comprensión diferente del ministerio, aunque tienda a ilustrar aspectos relativos a éste, corre el riesgo de resultar una reducción substancial. El sacerdote es y debe ser principalmente el hombre de la Eucaristía, según el sentido amplio que tiene este gran Sacramento y, por lo tanto, ciertamente, no debe reducir el ministerio a una función cultual".

La identidad sacerdotal, dijo luego, nace también y principalmente del Bautismo. Por su ser presbítero, se le pide más que al laico "¡porque al sacerdote se le da mucho más! Y no se trata de volver a formas de clericalismo, que en el pasado hirieron la comunión eclesial, sino de ponerse a la escucha de modo sencillo, honrado y fiel de lo que Cristo mismo estableció para Su Iglesia: el modo concreto que Él ha elegido para permanecer a lo largo de los siglos como Presencia salvífica al lado de los hombres".

El sacerdote, como administrador de sacramentos como la Reconciliación, debe brillar siempre por su ejemplo, ya que "¡No puede haber nada, en el Sacerdote, que no haga referencia a la Redención!

Así, cada sacerdote debe llegar a ser "de modo cada vez más perfecto ‘imágenes vivas’ de Cristo Buen Pastor. Esto es lo que espera el pueblo Santo de Dios de nosotros, esto es lo que espera el Señor de nosotros: que le hagamos presente en el mundo, a Él y su salvación".

Sacerdotes santos

El 4 de octubre el Cardenal Piacenza dirigió también un discurso en italiano a los seminaristas de Los Ángeles, en el que explicó que lo más urgente en el mundo de hoy, es la santidad de cada fiel.

En su alocución el Cardenal explicó la primacía de Dios en la vida de las personas debe plasmarse en la vida de oración, de la intimidad divina, "primado de la vida espiritual y sacramental. ¡La Iglesia no necesita administradores sino hombres de Dios! (...) ¡La Iglesia necesita hombres creyentes y creíbles, de hombres que, acogida la llamada del Señor, sean Sus motivados testimonios en el mundo!"

"La Iglesia –prosiguió– necesita sacerdotes que, en las tempestades de la cultura dominante, cuando la ‘barca de no pocos hermanos es golpeada por las olas del relativismo’ sepan en efectiva comunión con Pedro, tener firme el timón de la propia existencia, de las comunidades confiadas a ellos y de los hermanos que piden luz y ayuda para su camino de fe".

El Cardenal se refirió luego a la importancia esencial de la formación intelectual, que debe estar orientada a "transmitir los contenidos ciertos de la fe, argumentándolos racionalmente" que debe ir acompañado del ejemplo de sacerdotes santos.

En esta formación resulta vital el conocimiento del Catecismo de la Iglesia Católica, uno de los grandes frutos del pontificado de Juan Pablo II, así como el Concilio Vaticano II, interpretándolo correctamente y no con "el llamado ‘espíritu’ del Concilio, que tanta desorientaciòn ha generado en la Iglesia, sino con lo que realmente el evento conciliar dijo, en sus textos a la Iglesia y al mundo".

Tras explicar nuevamente que no existe una "Iglesia preconciliar o postconciliar", el Cardenal exclamó que "¡la verdadera prioridad y la verdadera modernidad, queridos, es la santidad! ¡El único posible recurso para una auténtica y profunda reforma es la santidad y nosotros necesitamos reforma!"

"¡Para la santidad no hay un seminario, sino aquel de la gracia de Nuestro Señor y de la libertad que se abre humildemente a su acción plasmadora y renovadora!", concluyó.

Para leer los discursos completos puede ingresar a: http://www.aciprensa.com/Docum/documentos.php?id=26

quarta-feira, 5 de outubro de 2011

Il Papa e Lutero, una polemica sbagliata - di Massimo Introvigne

In La Bussola Quotidiana

Il week-end ci ha portato un buon numero di polemiche sterili, specie in Germania (ma non solo), a proposito di Martin Lutero (1483-1546) e dei due discorsi che il Papa gli ha dedicato visitando il 23 settembre l’ex-convento agostiniano di Erfurt, dove Lutero fu ordinato sacerdote nel 1507. A Erfurt Benedetto XVI ha proposto ai cattolici un nuovo «incontro con Martin Lutero», affermando che la domanda sul ruolo della fede e sul peccato, «questa scottante domanda di Martin Lutero deve diventare di nuovo, e certamente in forma nuova, anche la nostra domanda».

I commenti correnti vanno dall’idea che il Pontefice abbia riabilitato Lutero, con conseguente applauso scrosciante dei cattolici progressisti e vesti stracciate da parte di alcuni «tradizionalisti», a quella – prospettata da alcuni dirigenti protestanti tedeschi, e forse più vicina alla realtà – che Benedetto XVI abbia voluto ricordare ai luterani germanici di oggi, piuttosto liberali in materia sia di teologia sia di morale, che su questioni come i matrimoni omosessuali o la certezza della resurrezione di Cristo come evento realmente verificatosi nella storia Lutero era molto più rigoroso – e, se si vuole, più «cattolico» – di loro, suggerendo che – di fronte a certe loro posizioni – oggi si rivolterebbe nella tomba.


A queste discussioni manca il contesto. Quelli di Erfurt non sono certamente i primi discorsi dove il Papa parla di Lutero. Da anni, e come ci ha ricordato da ultimo in un in un incontro del 15 gennaio 2011 con una delegazione luterana giunta a Roma dalla Finlandia, di cui La Bussola Quotidiana ha dato conto, Benedetto XVI afferma di dare molta importanza a un testo che, quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha contribuito a redigere: la Dichiarazione congiunta della Chiesa Cattolica e della Federazione Luterana Mondiale sulla dottrina della giustificazione, firmata ad Augusta il 31 ottobre 1999. In questa Dichiarazione si riconosce che non era senza fondamento la domanda posta da Martin Lutero a un mondo orgoglioso, caratterizzato dal clima del Rinascimento in cui l’uomo si affermava, secondo un’espressione di Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), tui ipsius quasi arbitrarius honorariusque plastes in quam malueris tute formam effigas, «plasmatore e scultore di se stesso [così che] tu ti possa foggiare da te stesso nella forma che avrai preferito». È Dio che salva l’uomo o l’uomo sui ipsius plastes et fictor si salva da solo? La ragione può salvare senza la fede?


Nella Dichiarazione di Augusta – che ricorda certe formulazioni proposte nel dialogo fra i rappresentanti cattolici e il più diretto collaboratore di Lutero, Filippo Melantone (1497-1560), un dialogo che non si concluse soprattutto per l’intervento politico dei principi tedeschi che ormai avevano deciso di rompere definitivamente con Roma – luterani e cattolici concordano sul fatto che «l’uomo dipende interamente per la sua salvezza dalla grazia salvifica di Dio». Pertanto, «quando i cattolici affermano che l’uomo, predisponendosi alla giustificazione e alla sua accettazione, “coopera” con il suo assenso all’azione giustificante di Dio, essi considerano tale personale assenso non come un’azione derivante dalle forze proprie dell’uomo, ma come un effetto della grazia». Per quanto fondamentale sia l’armonia tra fede e ragione, se si deve rispondere alla domanda se ultimamente sia la fede o la ragione a salvarci la risposta non è oggetto di dubbi: è la fede che salva.


La Dichiarazione congiunta di Augusta è criticata sia «da destra» da chi la ritiene troppo conciliante con i luterani – ancora nel 2010 il superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da mons. Marcel Lefebvre (1905-1991), mons. Bernard Fellay, ha ripubblicato suoi scritti su questo testo in un libro al vetriolo, L’hérésie justifiée («L’eresia giustificata», Le Sel de la Terre, Avrillé 2010), accusando di riabilitare l’eresia direttamente Benedetto XVI – sia «da sinistra», da chi come Hans Küng pensa e scrive che il Papa si sarebbe incontrato con un mondo luterano conservatore sulla base di un’interpretazione tradizionale e letteralista del peccato originale, che sarebbe «superata».


Certamente la Dichiarazione congiunta ha bisogno di essere ben compresa e interpretata. Non deve dare l’impressione che tutti i problemi tra cattolici e luterani sono risolti. Il Papa lo ha detto il 24 gennaio 2011 ricevendo a Roma una delegazione luterana tedesca e pronunciando un altro importante discorso di cui pure La Bussola Quotidiana ha riferito. Se si ignora questo contesto, in cui il Pontefice parte dalla Dichiarazione congiunta e la valorizza, ma elenca anche con franchezza i problemi irrisolti, si rischia di non capire neanche i discorsi di Erfurt. In questa prospettiva, vanno ricordati anche altri due elementi.

Ricevendo i luterani finlandesi il 15 gennaio, il Papa ha richiamato pure un altro documento più recente, che definisce un «risultato degno di attenzione». Si tratta del testo del 2010 La giustificazione nella vita della Chiesa prodotto dal Gruppo di dialogo cattolico-luterano nordico in Finlandia e in Svezia. Più lungo della Dichiarazione congiunta (134 pagine), questo documento approfondisce sia il consenso sia il dissenso, e mostra come le divergenze sul rapporto tra fede e ragione tra la tradizione cattolica e Lutero abbiano generato gravi problemi nella storia della Chiesa. Queste stesse divergenze sono state evocate da Benedetto XVI nell’enciclica del 2007 Spe salvi, in particolare nel settimo paragrafo, dove sono mostrate le responsabilità di Lutero nel separare la fede dalla ragione, rischiando di ridurre la fede stessa a un qualche cosa di volontaristico e di sentimentale, con conseguenze rovinose per tutto il pensiero europeo successivo.


A Erfurt il Papa ha detto che le domande poste da Lutero a un mondo dominato dall’umanesimo e dal Rinascimento, che erano penetrati anche nella Chiesa, e che esaltavano la ragione a scapito della fede e inneggiavano alla grandezza dell’uomo dimenticando il peccato originale, erano sensate. La domanda di Lutero all’umanesimo, la quale implica che il peccato ha un ruolo centrale che non può essere eluso e che «il male non è un’inezia», merita ancora – ha detto il Papa a Erfurt – tutta la nostra attenzione. Rivendicare il primato della fede contro l’orgoglioso razionalismo rinascimentale: è questo il senso in cui il Papa parla dell’«interesse» di un incontro con Lutero oggi. Ed è – i dirigenti luterani tedeschi hanno capito bene – anche un argomento ad hominem perché oggi proprio tante comunità protestanti del Nord Europa che accettano l’aborto, l’eutanasia, il matrimonio omosessuale e teologie che, come ha detto il Papa, «annacquano» la fede con il «pericolo di perderla» sono vittima di quello stesso razionalismo che ha le sue radici remote nell’umanesimo contro cui era insorto Lutero.


Se però leggiamo i discorsi di Erfurt, com’è giusto fare, nel contesto di tutto il Magistero di Benedetto XVI su Lutero ci convinciamo che il Papa ci invita a prendere sul serio le domande del monaco di Erfurt – domande , per di più, formulate in gran parte quando era ancora cattolico – ma non certo ad accettare le sue risposte. Infatti, come emerge proprio dalla critica della Spe salvi, l’affermazione della fede come primaria rispetto alla ragione diventa nel pensiero maturo di Martin Lutero la tesi di una fede separata dalla ragione, cioè il fideismo. Anche se volessimo prescindere dalle frasi più dure e polemiche di Lutero, più frequenti negli ultimi anni della sua vita – come quelle in cui invitava a considerare la ragione «la più grande prostituta del diavolo» – non è periferica, ma centrale nel suo pensiero la svolta denunciata da Benedetto XVI nel celebre discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006, per cui in Lutero a un certo punto «la metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte [rispetto a quella biblica, alla sola Scriptura], da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa».


Nelle parole stesse di Lutero, «la ragione è direttamente opposta alla fede; perciò si deve abbandonarla; nei credenti essa dev’essere uccisa e sepolta»; «deve essere affogata nel battesimo». Per essere davvero se stessa, la fede divorzia – nel senso etimologico del termine, che fa riferimento a due strade che divertunt, divergono – dalla ragione e dalla filosofia greca, così che Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona vede in Lutero la prima ondata di quella «deellenizzazione», cioè di un’infausta separazione della fede cattolica dall’eredità greca, quindi dalla ragione, che è responsabile di tutti i guai ideologici che l’Europa ha conosciuto nei secoli successivi. Lutero butta via il bambino con l’acqua sporca. Per reagire al razionalismo umanista, butta via anche la ragione, l’eredità della filosofia greca e del diritto romano. Mentre «la cultura dell’Europa – lo ha ribadito il Papa in Germania al Parlamento Federale, con una sorta di sintesi del discorso di Ratisbona – è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa». Lutero aveva torto: alla Grecia e a Roma non si può rinunciare.


Quali sono le conseguenze della rinuncia di Lutero all’eredità greca e romana, cioè alla ragione e al diritto fondato sulla ragione? Si potrebbe parlare di «eterogenesi dei fini», un’espressione che risale a Giambattista Vico (1668-1744) e che è passata a indicare un’azione o un pensiero che, immesso nella storia, finisce per causare effetti opposti a quelli che si proponeva. Così, sganciando la ragione dalla fede e lasciandola, per così dire, libera di operare senza il freno del confronto con la teologia, è nell’ambito del protestantesimo che prospera quello stesso razionalismo che Lutero, spaventato dall’umanesimo, affermava di voler combattere. La svalutazione della ragione porta molti eredi di Lutero – anche se non tutti – a negare l’esistenza di un diritto naturale, di principi e di leggi che proprio in forza della ragione s’impongono a tutti gli uomini – e anche ai governanti. Il governante si trova così in grado di esercitare il suo potere secondo la regola dell’assolutismo: un potere absolutus, cioè solutus ab, «sciolto da» ogni vincolo a una legge superiore.


Se non ci sono princìpi che la ragione può conoscere e che valgono per tutti, la volontà del sovrano non ha limiti. Secondo l’espressione del filosofo del diritto Juan Vallet de Goytisolo (1917-2011), che abbiamo recentemente commemorato su La Bussola Quotidiana in occasione della sua scomparsa, si passa «dal legislare come legere al legislare come facere». Per chi crede nel diritto naturale l’autorità non «crea» la norma ma la «legge» nella natura stessa delle cose: il legislare è un legere. Ma per chi non ci crede l’autorità crea la legge con un puro atto d’imperio e di volontà: il legislare è un facere. Per Lutero la sola fides sembra ergersi sovrana, dopo avere divorziato dalla ragione. Ma è una sovranità limitata al campo della teologia, che lascia tutto il resto del pensare e dell’agire umano – una volta rimossa la ragione – alla volontà di potenza e all’arbitrio del principe. Così, la svalutazione della ragione e la prima ondata della deellenizzazione non creano libertà, ma assolutismo: e si spiega perché tanti principi vogliosi di assolutismo abbiano appoggiato Lutero.


Tutto questo processo – per cui la svalutazione della ragione non produce libertà, ma assolutismo e oppressione che, come il Papa ha ripetuto al Parlamento Federale di Berlino, sono i frutti tipici della negazione del diritto naturale – è stato ricostruito molte volte e con rigore da Benedetto XVI, in particolare nel discorso di Ratisbona e nell’enciclica Spe salvi, senza timore di fare il nome di Lutero come di colui che è alle origini di questa deriva negativa e pericolosa.


Nella storia della scristianizzazione dell’Occidente – un tema centrale del Magistero di Benedetto XVI – non bisogna mai confondere domande e risposte, esigenze comprensibili e modi sbagliati di rispondere a queste esigenze. Il 12 maggio 2010 a Lisbona – in un altro discorso fondamentale per comprendere quelli di Erfurt – il Papa, come fa spesso, ha assunto come punto di partenza il Concilio Ecumenico Vaticano II, «nel quale la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo.

Così da sé stessa la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita». Benedetto XVI invita dunque a distinguere nella modernità – compresa la Riforma, cioè anzitutto Lutero – le domande in parte giuste e le risposte sbagliate, i veri problemi e le false soluzioni, le «istanze», di cui la Chiesa si è fatta carico nella loro parte migliore – ma «superandole» –, e gli «errori e vicoli senza uscita» in cui la linea prevalente della modernità ha fatto precipitare queste istanze, ultimamente travolgendo e negando quanto nel loro originario momento esigenziale potevano avere di comprensibile.


Per il Papa la modernità come insieme di esigenze, Lutero compreso, può e deve essere presa sul serio e diventare oggetto di discernimento. La modernità, ancora: Lutero compreso, come insieme di risposte, è invece finita in «errori e vicoli senza uscita» e in orrori storici. La verità è che alle domande della modernità le risposte giuste le ha date, e poteva darle, soltanto la Chiesa.