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domingo, 4 de maio de 2014

Matrimonio e Famiglia - Seminario di studi su Giovanni Paolo II - di Cardinal Carlo Caffarra

In Caffarra.it

Desidero premettere subito che la mia relazione avrà un carattere testimoniale. In un duplice senso. Dirò cose che si basano su numerosi colloqui personali col b. Giovanni Paolo II, ed anche cose che vi comunico non principalmente attraverso ragionamenti formalmente corretti, ma attraverso l’invito ad un reditus ad seipsum. Una comunicazione più agostiniana che scolastica.

1. La vicenda di questo Istituto ebbe inizio la sera del 20 gennaio 1981 quando, durante la cena, Giovanni Paolo II mi chiese di realizzare il suo progetto di fondare un Istituto di studi sul matrimonio e la famiglia.

Da quel momento iniziò un dialogo molto profondo, che da parte mia nasceva dall’esigenza che sentivo assai forte, di capire fino in fondo il progetto concepito dalla mente di quel grande pontefice, le sue ragioni ultime. Non era solo in questione la costituzione di un istituto accademico, ma la testimonianza che il Papa desiderava rendere alla Chiesa e al mondo circa il matrimonio e la famiglia. Una testimonianza di cui Egli avvertiva drammaticamente la necessità: una testimonianza alla verità circa il bene dell’amore coniugale. Egli un giorno mi disse: "l’amore coniugale non è amato". Intendeva dire, non è più riconosciuto nella sua preziosità propria. Non si sbagliava, se ora consideriamo a quali relazioni oggi esso è equiparato.

Vorrei fermarmi un momento su questo punto, perché è di fondamentale importanza. Egli non voleva – ne esistevano già tanti, anche nella Chiesa – un luogo dove si producessero nuove opinioni da contrapporre ad altre opinioni, a riguardo del matrimonio e della famiglia. Ma un luogo di ricerca di una verità, di un bene che Adamo aveva scoperto "fin dal principio", quando vide per la prima volta la donna. Verità e bene che anche oggi l’uomo e la donna riscoprono in se stessi, quando diventano "una sola carne". E’ questo un punto di vista molto difficile da fare proprio, tentati come siamo di pensare la ricerca comune della verità come una controversia fra rivali, anziché di compagni di viaggio incamminati verso la meta, e la questione, cui oggi assistiamo, una questione alla fine di leggi, non una quaestio de veritate amoris.

Giovanni Paolo II ci chiedeva di essere scopritori – testimoni della verità circa il bene inscritto nella relazione uomo-donna. Ritornerò più avanti su questo "punto sorgivo". Ho detto relazione. Il bene di cui stiamo parlando è un bene relazionale, della persona in quanto è-in-relazione. Non un bene individuale.

La prima, grande testimonianza che il Santo Pontefice diede sono state le 134 catechesi sull’amore umano, che saranno la "carta topografica", per così dire, della vita intellettuale dell’Istituto. Alla fine della prima catechesi [5 settembre 1979], Giovanni Paolo II dice:


"Il ciclo di riflessione che iniziamo oggi, coll’intenzione di continuarlo durante i successivi incontri del mercoledì, ha anche come scopo fra altri, accompagnare, per così dire, da lontano i lavori preparatori del Sinodo, non affrontando direttamente il suo tema, ma dirigendo l’attenzione alle radici profonde".

Il testo è di grande importanza.

La Chiesa stava affrontando per la prima volta a livello sinodale il tema del matrimonio e della famiglia. Quale aiuto dà il Papa ai futuri Padri Sinodali? Li conduce "al principio"; li guida verso l’inizio, là dove nasce l’uomo e la donna nel matrimonio.

E’ caratteristico del grande Pontefice il tipo di aiuto che Egli ha voluto dare ai Padri Sinodali. Non è entrato nelle questioni particolari: molte, già allora, gravi e difficili. Ha desiderato che i Padri ri-scoprissero le "radici". E questo è l’aiuto che l’Istituto ha sempre cercato di dare alla Chiesa, secondo la proposta del Santo Pontefice.

Devo fermarmi un momento su questo punto. La nostra ragione è talmente indebolita che sentendo parlare di verità, pensa subito ad opinioni circa il matrimonio, ad una qualche teoria della famiglia. Opinioni alla quali si contrappongono altre opinioni; teorie contestate con altre teorie. E così è accaduto nel mondo di oggi. Il risultato non poteva che essere la convinzione che non esiste alcuna verità circa il matrimonio.

Quando siamo invitati a guardare "all’inizio", "alle radici" il Santo Pontefice non sta costruendo una sua e nuova antropologia. Più semplicemente ci dice: "guarda te stesso guardando al "Principio"" e "guarda il "Principio" guardando te stesso". E’ l’agostiniano "in interiore homine habitat Veritas".

Posso esprimermi anche nel modo seguente. Se uno avesse chiesto a Giovanni Paolo II se stava facendo un’esegesi dei primi due capitoli della Genesi, sia pure coll’autorevolezza propria del Papa, alla quale comunque si potevano opporre altre esegesi, egli – penso – si sarebbe meravigliato della domanda. Egli si vedeva nel ruolo di chi conduce gli altri a scoprire se stessi alla luce del "Principio".

Se non si percorre questa via, è inevitabile che si imbocchi la via dei farisei che interrogano Cristo sul matrimonio, cioè la via della casistica.

Esiste certo una legge sull’indissolubilità, ma quando è lecito eccepirvi? Che gravità devono avere le ragioni per farlo? L’uomo visto alla luce della legge. E in questa visione è comunque eliminato l’uomo. Anche se si allargano le maglie delle eccezioni.

Se penso secondo la prospettiva della casistica, nel momento in cui mi prendo cura della persona e delle sue relazioni, il problema che diventa centrale è: la persona è in grado di osservare la norma oppure questa è un peso da cui in parte o in tutto può essere dispensata? Mi infilo dentro al dilemma: o la legge morale o il bene della persona.

Studi storici ormai a portata anche dei non "esperti" hanno dimostrato che questo modo di accostarsi alla persona umana è iniziato, col Nominalismo, quando si negò che l’essenza delle proposizioni normative della morale si trova nella verità del bene che in esse è oggettivato.
Accettando questa prospettiva, si può giungere perfino a svuotare il Vangelo della grazia in nome del Vangelo della grazia.

Uno dei momenti in cui ho visto più chiaramente tutto questo, fu durante un dialogo con Giovanni Paolo II. Si parlava di Humanae Vitae. Egli disse – e me lo ripeté più volte – che la grande Enciclica di Paolo VI arrivò in un momento in cui la Chiesa non possedeva una robusta, adeguata antropologia. L’Enciclica stessa argomentava sulla base di un concetto di legge naturale quanto meno assai fragile. E il Santo Pontefice aggiungeva che bisognava riscoprire e ripensare la verità antropologica implicata in quell’insegnamento della Chiesa, oggettivata nell’Enciclica.

Il Santo Pontefice considerava questo non un dettaglio secondario della grande quaestio de veritate circa il bene del matrimonio. Ma uno dei punti in cui questo bene poteva essere riconosciuto in tutto il suo splendore o negato gravemente. Non sto parlando del comportamento del singolo coniugato\a. Se non è chiaro questo si finisce per parlare fra sordi.

Giovanni Paolo II era così consapevole della gravità della questione che nella Cost. Ap. Magnum matrimoni sacramentum [10 ottobre 1981], che fondò canonicamente l’Istituto, è detto esplicitamente che uno dei suoi compiti è l’elaborazione di una antropologia adeguata alla base dell’Enc. Humanae Vitae.

Tutto questo appare chiaramente anche in un’altra pagina del Vangelo, dove uno scriba fa la domanda: chi è il mio prossimo? La domanda è in ordine all’estensione del secondo comandamento: "quali persone comprende?". Lo scriba era fuori dalla prospettiva giusta; guardava in una direzione sbagliata. Non guardava al soggetto-uomo, ma ai vari attributi che possiamo predicare del soggetto: il prossimo sono gli ebrei o anche i pagani? Sono gli amici o anche i nemici? E così via. Il samaritano della parabola esce dalla "prospettiva dei predicati"; si libera di conseguenza dalla tirannia delle opinioni anche consolidate riguardo all’uomo, ed accede alla verità dell’uomo. Quando e come? Quando si commuove per il ferito. E’ questa commozione che fa scoprire al samaritano la semplice verità dell’uomo, alla quale appartiene sia il samaritano sia il ferito. Un’appartenenza che respinge ogni forma di relativismo.

Il Santo Pontefice ha voluto questo Istituto perché fosse possibile creare un luogo dove, nella comunione di studenti e docenti, fosse aperto il sentiero verso il "Principio": un sentiero che non si interrompesse.

In questo contesto – l’ho già detto in vari modi – la vera, più profonda intenzionalità di Giovanni Paolo II nel volere l’Istituto, era l’offerta alla Chiesa di una antropologia adeguata. Fu interessante nei primi anni di vita dell’Istituto sentirmi dire: "ma voi che cosa fate? Siete un Istituto di filosofia, o di teologia, o di etica?". Questa domanda, vi dico sinceramente, mi meravigliava molto. La risposta la diede Giovanni Paolo II stesso nella catechesi del 2 aprile 1980 [n. XXIII], che conclude e riassume tutto il primo ciclo.


"Abbiamo cercato di chiarire nel modo più profondo possibile il significato di questo Principio, che è la prima presenza di ogni uomo nel mondo, maschio e femmina, la prima testimonianza dell’identità umana secondo la parola rivelata".
Nel momento in cui ha origine il matrimonio, ha origine la persona umana nella sua intera verità. Il matrimonio è il sentiero che conduce dentro l’uomo; la visione plenaria dell’uomo è il sentiero che conduce alla Verità del matrimonio.

Come è stato scritto "non possiamo rendere conto filosoficamente dell’essenza dell’uomo, finché non comprendiamo la vera essenza dell’amore. Poiché solo nell’amore l’uomo si desta alla sua piena esistenza personale, solo nell’amore egli attualizza la totale pienezza della sua essenza" [D. von Hildebrand, Man and Woman, Franciscan Herald Press, Chicago 1966, pag. 32].

E’ una correlazione sulla quale il Santo Pontefice mi richiamava spesso, perché essa fosse la chiave di volta dell’Istituto. L’errore antropologico coinvolge inevitabilmente il matrimonio [ed il lavoro, ma di questo non devo parlare]. Non è un caso dunque il fatto che l’uomo perdendo se stesso ha di conseguenza perduto il matrimonio.

E’ assai importante quanto Giovanni Paolo II dice nella stessa catechesi succitata:


"Penso che fra le risposte che Cristo darebbe agli uomini del nostro tempo e alle loro domande, nonostante siano tante urgenti, ci sarebbe tuttavia quella che diede ai farisei. Rispondendo a questi interrogativi, Cristo si rimetterebbe sopra tutto al "principio". Lo farebbe in un modo anche più deciso ed essenziale, in quanto la situazione spirituale e culturale dell’uomo di oggi sembra estraniarsi da quel "principio" e assumere forme e dimensioni che divergono dall’immagine biblica di quel "principio" in punti sempre più chiaramente più distanti".
E’ un richiamo molto forte ad una vera metodologia pastorale, sempre valida.

2. In che modo il Santo Pontefice ricostruisce la verità circa il bene dell’uomo alla luce del "Principio", e quindi risponde alle questioni odierne circa il matrimonio? Il dramma Raggi di paternità comincia da questo interrogativo, che denota la condizione dell’uomo.


"Da tanti anni ormai vivo come un uomo esiliato dal più profondo delle mia personalità e nello stesso tempo condannato ad indagarla a fondo. In tutti questi anni l’ho penetrata a prezzo di incessanti fatiche, spesso però pensando con sgomento che l’avrei perduta; che sì, verrà cancellata in mezzo ai processi della storia, in cui decide la quantità o la massa".
[K. Wojtyla, Tutte le opere letterarie, Bompani ed. Milano 2001, pag. 887]

E’ questa la condizione paradossale della persona umana: costretta a cercarsi sempre perché sempre nel rischio di perdersi. E Giovanni Paolo II ritiene che l’uscita da questa condizione, la via per trovare finalmente se stessi è la via dell’amore, di cui l’amore coniugale è la forma arche-tipica, della quale Dio stesso si è servito per rivelare Se stesso. Ci aiutano a capire tutto questo due testimonianze.

Il Santo Pontefice mi raccontò che alcuni suoi sacerdoti di Cracovia, dopo aver letto Amore e responsabilità, gli dissero che questa opera esigeva una riflessione sull’uomo che mostrasse che quella dottrina era veramente radicata nell’uomo. "Fu in quel momento" mi disse " che nacque Persona e atto".

Un’altra volta, eravamo a Castel Gandolfo, mi disse che la verità antropologica più profonda che il Concilio aveva detto stava espressa nel seguente testo: "l’uomo non trova pienamente se stesso se non nel dono sincero di se stesso" [ Cost. Past. Gaudium et spes 24].
La via della ricostruzione di un’antropologia adeguata è trovata: il dono di sé. Nel Canto del Dio nascosto, K. Wojtyla scriveva:


"L’amore mi ha spiegato ogni cosa,
l’amore ha risolto tutto in me –
perciò ammiro questo Amore
dovunque esso si trovi".
[Tutte le opere, cit., pag. 49]

Egli si ferma in particolare sull’amore coniugale; sulla relazione che si istituisce nel matrimonio; sul dono di sé quale propriamente accade nel matrimonio.

E’ necessario uscire da un uso eccessivamente analitico della ragione per cogliere il "centro" della visione di Giovanni Paolo II, e compiere un atto di intelligenza sintetico. E’ al contempo antropologiaeticateologia.

Non è questo il momento di fare un’esposizione completa della costruzione dell’antropologia. Desidero richiamare la vostra attenzione su due punti.

Il primo. La via per ritrovare l’uomo, imboccata da Giovanni Paolo II, doveva incrociare la realtà del corpo e della diversità sessuale. Credo che sia stato uno dei più grandi apporti che il Santo Pontefice ha lasciato in eredità alla Chiesa, di aver costruito una profonda teologia del corpo e della diversità sessuale. Sono tentato di pensare infatti che la difficoltà che il pensiero cristiano trova non raramente nell’affrontare le tematiche odierne, sia dovuta alla dimenticanza pressoché totale della teologia del corpo.

La tematica viene affrontata per la prima volta nella Catechesi XIV [9 gennaio 1980], e penso che fin dall’inizio se ne dà l’intuizione centrale, là dove si dice:


"Sorge allora [=quando l’uomo è di fronte alla donna] la persona umana nella dimensione del dono reciproco, la cui espressione – che è l’espressione anche della sua esistenza come persona – è il corpo umano in tutta la verità originaria della sua mascolinità e femminilità".
Il testo è semplicemente mirabile. La persona umana, in quanto costituita per il dono di sé, è espressa nella sua corporeità sessuata. Questa esprime il dono come caratteristica fondamentale della persona. La "persona-dono" e "il corpo sessuato" sono simultanei. Di conseguenza, se si separa il corpo-sesso dalla persona o la persona dal corpo-sesso, non è più possibile costruire un’antropologia adeguata. Se l’età classica, anche teologica è orientata a separare la persona dal corpo-sessuato, la modernità ha separato il corpo-sessuato dalla persona. La grande tesi di Tommaso dell’unità sostanziale della persona umana non è risultata vincente. La riprende il Conc. Vaticano II, quando dice dell’uomo: "corpore et anima unus".

Il secondo. Si comprende la grande importanza che Giovanni Paolo II dava all’insegnamento dell’Enc. Humanae Vitae ed il modo nuovo di fondarlo. Le due cose stanno in piedi o cadono assieme.

Se consideriamo l’Humanae Vitae principalmente e fondamentalmente una legge morale, entriamo necessariamente nella logica della casuistica, dell’applicazione cioè dell’universale al particolare. Il Santo Padre non l’ha mai vista in questa luce, ma piuttosto nella logica – nel logos – del dono di sé quale accade nel matrimonio. Secondo la verità propria dell’amore coniugale.

In tale modo si evade dalla logica casuistica: universale-particolare; e si evade da una considerazione biologistica. Si entra nella persona: nella verità del suo amore e dono coniugale di sé. Il dramma vero dell’uomo non è il passaggio dall’universale al particolare. E’ il rapporto fra verità e libertà.

Una volta, il Card. Gagnon, ora defunto, mostrò al Santo Pontefice – ero presente anch’io – l’articolo di una rivista statunitense – non ricordo più quale – che sosteneva la seguente tesi. Abbiamo speso milioni di dollari per diffondere una mentalità contraccettiva. I risultati sono stati scarsi. La colpa è solo di un uomo: Giovanni Paolo II. Il Santo Pontefice rispose [ricordo quasi alla lettera le sue parole]: "non è così; non sono io: è la verità dell’amore coniugale che si impone per se stessa, se detta".

Mi piace concludere questo secondo punto della mia riflessione con un testo di Fratello del nostro Dio:


"Lei ha mai cercato di penetrare in tutta la mole di quei beni ai quali l’uomo è chiamato?... Non si può pensare soltanto un frammento di verità, bisogna pensare con tutta la verità".
[Tutte le Opere, cit. pag. 713].

Non si comprende l’Humanae Vitae se non nel contesto di una antropologia adeguata. L’Es. Familiaris consortio ha offerto, in un documento del Magistero, l’esempio di questa contestualizzazione [cfr. 28-31]

Forse la cosa più profonda che il Santo Pontefice ha detto, e che esprime tutta la sua cura pastorale del matrimonio, è alla fine della Bottega dell’orefice. Teresa, una delle protagoniste, dice:


"…creare qualcosa che rispecchi l’Essere e l’Amore assoluto è forse la cosa più straordinaria che esista! Ma si campa senza rendersene conto".
[pag.869]

E’ rimasta solo la Chiesa Cattolica a farci sentire il respiro dell’eternità nell’Amore umano. E se anche essa rinunciasse a farlo sentire?

quarta-feira, 11 de julho de 2012

La sinfonia e l'architettura della Fede - di Carlo Caffarra

ROMA, sabato, 7 luglio 2012 (ZENIT.org).- Riportiamo il testo dell’intervento tenuto sabato 30 giugno a Vidiciatico dal cardinale arcivescovo di Bologna, Carlo Caffarra.
***
Uno dei più grandi Padri della Chiesa, S. Ireneo [130-202/203], commentando la parabola del figlio prodigo, scrive: «per quelli che ritornavano al Padre uccise (Dio) il vitello grasso e gli donò la veste più bella, disponendo il genere umano in molti modi alla sinfonia della salvezza» [Adv. Haereses IV,14,2; 331].

La concezione di tutta la storia della salvezza come una “sinfonia” è molto presente nel grande Padre della Chiesa. Questa chiave simbolica per leggere tutta l’opera divina è particolarmente sviluppata nel Libro II,24,2 della medesima opera [pag. 183-184]; e diventa il criterio interpretativo fondamentale della Sacra Scrittura [cf. II,28,3; pag 188-189]: «attraverso la polifonia della parole si sentirà in noi un’unica melodia armoniosa inneggiante a Dio che ha creato tutte le cose» [pag. 189].

Ma nello stesso contesto, Ireneo usa anche il simbolo dell’architettura: «per quelli che gli erano graditi disegnava come un architetto, l’edificio della salvezza» [IV,14,2; pag. 331].

Fermiamoci un momento a considerare questi due simboli. Essi vanno nella medesima direzione pedagogica: aiutarci a cogliere nella pluralità degli elementi della fede l’unità dell’insieme; aiutarci ad entrare nell’universo della fede percependone l’unità che lega fra loro le diverse realtà che lo abitano.

Perché i due simboli sono particolarmente adatti a raggiungere questo scopo?

La simbologia musicale denota una pluralità di suoni: è poli-fonia. Ma essi sono eseguiti assieme: sin-fonia; così che l’ascoltatore attento ed educato a questo ascolto, nella sin-fonia sente la poli-fonia. Cioè: la pluralità è una, e l’unità è plurale.

Noi sappiamo che ciò avviene perché esistono leggi dell’armonia, secondo le quali sono relazionate le singole parti.

Il grande Padre della Chiesa vuole dunque dirci: l’opera di Dio va intesa in modo analogo con cui noi ascoltiamo una polifonia. Essa (l’opera di Dio) ha un tempo lungo il quale si sviluppa: un inizio [l’atto creativo]; uno sviluppo [la prima Alleanza]; un momento culminante [la risurrezione di Gesù]; un finale [il tempo della Chiesa]. Ma nessuna voce “stona” messa assieme all’altra: il Dio dell’Antica Alleanza è lo stesso Dio della Nuova Alleanza; il primato della grazia non distrugge la libertà; le due espressioni primordiali della stessa umanità, la mascolinità e la femminilità, non possono essere uniformate ed omologate, ma sono armonizzate nel loro “suono diverso”. E così via. Da questo punto di vista, possiamo e dobbiamo dirci: “omofobi”, perché l’opera di Dio è “poli-fonica”. L’edificio medioevale non era mai perfettamente simmetrico, perché si riteneva che la perfetta simmetria era opera del diavolo.

Ogni polifonia, ogni musica ha il suo ritmo. Anche l’opera di Dio ha il suo ritmo: il ritmo trinitario. Esso si esprime nel modo seguente: tutto è dal Padre – per mezzo del Figlio – nello Spirito Santo; tutto è orientato [alla gloria del] al Padre – per mezzo del Figlio – nello Spirito Santo [cf. pag. 490].

Come vi dicevo, non è facile ascoltare in questo modo la musica composta da Dio. Bisogna educarci a questo ascolto. La Chiesa ha dei grandi educatori all’ascolto. Se non abbiamo questa capacità, corriamo un rischio molto grave: l’eresia; oppure, senza giungere a questo estremo, il rischio di esaltare un elemento sproporzionandolo rispetto all’insieme: allungate anche di un centimetro il naso della Madonna della Pietà di Michelangelo, ed avreste rovinato tutto!

Ma c’è anche un’altra simbologia che ci aiuta ad entrare nell’universo della fede: quella dell’architettura. Anzi, questa è perfino biblica!

Iniziamo ad usarla, facendo notare le differenze delle due simbologie. Nella polifonia è sottolineata la simultaneità delle voci: l’armonia concorde dei vari momenti ed elementi. Si pensi all’esegesi di Origene; si pensi alla “necessitas” di Anselmo d’Aosta; si pensi alla pagina di S. Teresa del Bambin Gesù sul “cuore” della Chiesa. La simbologia architettonica dispone invece i vari momenti ed elementi dell’universo della fede in uno spazio, cioè secondo una successione. Le varie realtà della fede [l’atto creativo, l’atto redentivo, l’atto santificante] sono considerate non nel loro insieme, ma successivamente, ciascuna al suo posto, il posto che deve avere secondo il progetto architettonico del divino Architetto.
Esiste poi uno stile architettonico [il gotico non è il barocco]; esistono leggi statiche che tengono insieme l’edificio [c’è la scienza delle costruzioni]. Esiste quindi uno “stile divino”, ed esistono leggi che la divina Sapienza segue nella costruzione. Per esempio: molti e grandi personaggi della storia della salvezza sono nati da donne sterili. Questa costante rivela una legge che regola la costruzione dell’edificio della salvezza.

Chi ha pensato la divina Rivelazione in questo modo è stato soprattutto S. Tommaso d’Aquino nella Somma Teologia, ed è rimasto maestro insuperato.

La simbologia architettonica è particolarmente educativa per l’intelligenza della fede.

Se voi entrate in S. Petronio dalla porta centrale, in silenzio e con una grande attenzione spirituale, voi siete portati, quasi istintivamente, verso un punto: il Crocifisso sull’altare maggiore. Ma vi giungete percorrendo uno spazio che è suddiviso dalle varie campate. Una suddivisione che non spezza lo spazio medesimo, ma vi fa camminare e vi orienta secondo una direzione, secondo un asse architettonico.

Così è l’edificio della fede. Chi vi entra veramente, vede che le varie parti [articoli della fede] conducono ad un “punto” che tiene unito l’insieme. Ciò comporta che si conoscano le leggi che tengono in piedi la costruzione.

Questo ingresso nell’edificio è la fede del battezzato [porta fidei!]. La fede cioè dà una capacità di vedere che è sua proprietà esclusiva. I teologi parlano di “occhi della fede”. Vedremo fra poco che cosa vuol dire. Certamente un edificio può essere visto anche dall’esterno, girandovi attorno senza entrare mai. E si può anche avere di esso una grande conoscenza vera [= uso della retta ragione]. Ma esso è costruito per entrarvi ed abitarvi.

Ora vorrei farvi ascoltare la “sinfonia” della fede, farvi entrare nell’“edificio” della fede. Esso non è altro che la «regola della fede» o «regola della verità», cioè il Simbolo: la sintesi della fede della Chiesa che ognuno di noi ha ricevuto al momento del battesimo. Siamo discepoli del Signore solo se custodiamo intatta questa regola della verità: questo che è lo spartito musicale di Dio; il progetto disegnato dal divino Architetto.

Ma prima di prendere lo spartito o leggere il progetto, devo fare una premessa di straordinaria importanza, specialmente oggi.

L’atto della fede è molto complesso. E’ un atto che sintetizza in sé molte dimensioni o attitudini della persona. Se, e lo si deve fare, analizziamo una ad una queste dimensioni, non dobbiamo tuttavia mai dimenticare che la dimensione che stiamo analizzando, si trova dentro un organismo vivente.

L’atto della fede comprende in sé (a) la conoscenza dell’evento salvifico; (b) la fiducia nella Parola di Dio che si rivela come nostro salvatore; (c) l’obbediente autodonazione dell’uomo a Dio che parla; (d) l’aspirazione ad un’unione con Dio priva di ogni oscurità. La complessità dell’atto di fede è dimostrata anche dalle tre espressioni usate nel vocabolario della Chiesa: credo in Dio; credo a Dio; credo che Dio … [esiste, ha creato il mondo, …].

Orbene è assai importante ritenere che considerato in sé e per sé, l’atto del credere consiste in un atto della ragione, in un giudizio della ragione, mediante il quale affermiamo con assoluta certezza che il contenuto della divina Rivelazione è vero. Mediante la fede la persona umana dà il suo assenso a ciò che Dio le dice, non perché le piace o perché lo vide utile, ma semplicemente perché lo ritiene vero.

La struttura intellettuale della fede, la sua dimensione veritativa è manifestata con grande chiarezza dal fatto che fin dall’inizio la Chiesa ha proposto come oggetto della fede verità espresse con formule precise [cf. 1Cor 15,3-5.11]. E su questo la Chiesa  ha sempre insistito. Perché? Rispondo brevemente. Se non si ammette che l’atto del credere è un atto della ragione, perciò stesso si deve ammettere che tutta l’economia della salvezza non è vera, cioè non è reale. Le due affermazioni simul stant – simul cadunt. Fermiamoci a riflettere un poco su questa connessione inscindibile fra la dimensione intellettuale della fede e la realtà dell’economia salvifica. 

Dio ha rivelato, cioè ha detto all’uomo che Egli vuole renderlo partecipe della sua stessa vita in Cristo e per mezzo di Cristo. Ora, delle due l’una. O Dio “scherza” quando mi dice questo: non mi dice ciò che realmente vuole; oppure mi dice quale è la sua intenzione reale. Accettare, affermare qualcosa come vero [= nel nostro caso, l’intenzione di Dio], cioè come reale, è proprio di quella facoltà spirituale mediante la quale l’uomo apprende la realtà, l’intelligenza. 

L’uomo non potrebbe consentire liberamente al progetto salvifico, se non pensasse che esso è reale: la prima risposta dell’uomo all’economia salvifica è di ammettere che essa è reale. Cioè affermare la sua verità.

Ho parlato di “universo della fede” Non denota una costruzione fantastica; un mito attraverso il quale l’uomo esprime il suo bisogno di salvezza; un universo separato da quello di cui abbiamo naturale esperienza. L’espressione “universo della fede” denota un insieme di realtà, che accadono dentro a questo universo. Si potrebbe anche dire: è questo stesso universo, ma visto con gli “occhi della fede”.

Se togliamo dalla fede questa dimensione veritativa, crolla tutto il cristianesimo. Esso sarebbe una mera costruzione umana, mentre si presenta sempre come «Parola di Dio».

Il Beato Newman riteneva che le sorti del cristianesimo si giocassero nella modernità interamente a questo livello. Lo chiamava “il principio dogmatico”.

Prendiamo finalmente in mano lo “spartito musicale” o il “progetto disegnato dal divino Architetto”. E concretamente il Simbolo Niceno – Costantinopolitano: la regola della verità.
Il ritmo è un ritmo trinitario: sono rivelate le Tre persone ed il loro agire.

L’edificio ha una costruzione cristocentrica, ed ha il suo asse orientato alla vita eterna.

Le leggi che regolano l’armonia intrinseca alla polifonia della fede, o che tengono assieme l’edificio sono: la legge delle divine missioni [il Padre manda il Figlio; il Padre e il Figlio mandano lo Spirito], che riflettono le divine processioni; la legge dell’e-e [Dio e l’uomo]; la legge della finalizzazione ecclesiale [l’opera salvifica è la Chiesa].

Concludo con due riflessioni. 

L’Anno della Fede è un’occasione da non perdere. In esso ci sarà data la possibilità di studiare la Regola della fede, in tutte le sue articolazioni, anche se nelle catechesi ci fermeremo sull’articolazione cristologica.

La fede è una fede non solo professata: è una fede pensata; una fede vissuta. La suola principale di musica e/o di architettura in cui si apprende a sentire la polifonia della fede e a vederne l’architettura, è la liturgia. Non c’è vera educazione alla fede senza la liturgia. Il grande maestro al riguardo è stato S. Leone Magno, ed ora – non da meno – Benedetto XVI. Una liturgia celebrata male, una liturgia inventata e creata da coloro che celebrano [popolo e sacerdote] è devastante per la fede.


*
Le citazioni sono prese da Ireneo di Lione, Contro le eresie e gli altri scritti [Introduzione e traduzione di E. Bellini], Jaca Book, Milano 1981.

domingo, 5 de fevereiro de 2012

La Familiaris consortio trent'anni dopo - di Cardeal Carlo Caffarra

In Caffarra

Due sono le domande che possono sorgere in noi ogni volta che ricordiamo un documento del passato: in che cosa oggi la situazione in cui fu scritto è mutata? Il documento in questione è ancora in grado di orientarci oggi? Nella riflessione che segue cercherò di rispondere a queste due domande. Essa pertanto sarà divisa in due parti: la condizione attuale del matrimonio e della famiglia e la Familiaris Consortio [da ora in poi FC]; la FC documento-base del nostro impegno per il matrimonio e la famiglia.

1. FC e condizione attuale.

Penso che nei tre decenni che ci separano dalla pubblicazione di FC sia accaduto un cambiamento radicale nel modo occidentale di considerare il matrimonio e quindi la famiglia; sia accaduta nella cultura occidentale una vera svolta epocale. Cercherò di descriverla per sommi capi.

La proposta cristiana circa il matrimonio e la famiglia, l’Occidente ha sempre avuto difficoltà ad accettarla sul piano pratico. È stato un atteggiamento che potrei riassumere nel modo seguente: "questo modo di concepire e di proporre il matrimonio è vero, è bello, ma non è praticabile nella sua interezza". In breve: non è la sua verità in questione, ma la sua praticabilità. Soprattutto era giudicata tale la dottrina cristiana circa l’indissolubilità e, soprattutto dal secolo scorso, la dottrina circa la procreazione responsabile.

Questa, diciamo, contestazione ha anche indubbiamente favorito un approfondimento, una sempre maggiore precisazione da parte della Chiesa della sua dottrina. E da Leone XIII in poi gli interventi magistrali sono andati via via crescendo, fino all’imponente magistero del beato Giovanni Paolo II.

In questi ultimi decenni tuttavia è avvenuta, ed è ancora in atto, una vera svolta epocale. Non è la praticabilità della proposta cristiana che è messa in questione; è la sua verità. Anzi è andata messa in discussione progressivamente la verità dell’istituto matrimoniale come tale. Mi spiego, partendo proprio da questo punto.

Da sempre, l’Occidente aveva pensato che l’istituto matrimoniale, pur nella varietà delle forme in cui era giuridicamente regolamentato e quotidianamente vissuto, avesse una sua propria natura. Non tutto nel matrimonio è convenzionale, e quindi negoziabile. Esiste uno "zoccolo duro", cioè una verità del matrimonio indipendente dalle vicissitudini storiche.

Che cosa è accaduto, e sta accadendo? Viene negato che nel matrimonio esista "qualcosa" che le convenzioni non possono cambiare. Più precisamente. Il matrimonio non è per sua natura stessa un’unione legittima etero-sessuale in ordine alla procreazione-educazione dei figli; può anche essere un’unione legittima omo-sessuale, e la procreazione può essere legittimamente perseguita separatamente dalla sessualità coniugale. Chi stabilisce se il matrimonio è fra persone di sesso diverso o uguale? L’autonoma decisione del singolo, che gli ordinamenti giuridici devono semplicemente riconoscere senza discriminazioni di sorta.

Spero sia chiaro ora in che cosa consiste la svolta epocale di cui parlavo. Non viene detto: la proposta cristiana è impraticabile; viene detto: è falsa.

Devo a questo punto chiarire un poco questa descrizione della svolta epocale. Il matrimonio è qualcosa di singolare nella dottrina cristiana. Esso è uno dei sette sacramenti, ma non è stato "inventato" da Gesù Cristo. La sacramentalità presuppone sempre ciò che possiamo chiamare il matrimonio naturale, e sopra ho chiamato "ciò che definisce l’istituto matrimoniale come tale". Poiché è questo che la dottrina cristiana afferma, l’attacco alla verità del matrimonio coinvolge anche la proposta cristiana; e alla sua radice.

Ho detto "anche", poiché questa materia di contesa non coinvolge solo la Chiesa ma anche – oserei dire, soprattutto – la società civile e la sua sovrana organizzazione giuridica, cioè lo Stato.

Riprendo ora il tema della svolta epocale, per completare. La mutazione sostanziale nei confronti del matrimonio ha comportato la mutazione sostanziale delle fondamentali relazioni che costituiscono la famiglia: paternità/maternità – figliazione – fraternità.

Non considerando l’etero-sessualità elemento costitutivo dell’istituto matrimoniale, eo ispo devo mutare la definizione di paternità-maternità. La generazione della persona e la sua genealogia sono al contempo radicate nella biologia e la trascendono senza negarla. È nella biologia della persona che è inscritta la genealogia della persona [Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie (2 febbraio 1994) 9,1]. La relazione fondamentale paternità/maternità – figliazione, se viene sradicata dalla biologia, deve essere anche ridefinita ex novo. Chi è il padre/la madre? Chi ha dato il seme oppure chi si attribuisce il bambino? Chi ha dato l’ovulo oppure chi accoglie il bambino? La relazione diventa definibile secondo le convenzioni accettate e legalmente trascritte. Il convenzionalismo che ha investito l’istituto matrimoniale ha inevitabilmente coinvolto l’istituto famigliare.

Alla fine, in che condizione si trova l’Occidente a riguardo del matrimonio e della famiglia? Posso rispondere servendomi di un esempio.

Si può distruggere un edificio in due modi. Con una bomba, e lo rado al suolo; oppure lo de-costruisco pezzo per pezzo. Nel primo caso, alla fine ho solo polvere e macerie; nel secondo caso ho ancora tutti i pezzi ma non ho più l’edificio. È accaduta al matrimonio e alla famiglia la seconda cosa. Abbiamo ancora tutti i pezzi. Continuiamo a parlare di coniugi, di paternità/maternità; gli ordinamenti giuridici continuano ad avere i loro istituti. Ma sono pezzi, cioè termini che non veicolano più significati univoci, essendo stati estratti dall’insieme che li definiva.

Vorrei ora riflettere sulle cause che hanno portato a questa situazione.

Fenomeni culturali come questo sono processi storici assai complessi. L’individuazione delle loro cause rischia una semplificazione eccessiva. Comunque, abbiamo il bisogno di capire, e si capisce un fenomeno quando se ne conoscono le cause.

A me sembra che le cause principali siano soprattutto le tre seguenti, strettamente connesse: progressiva declinazione individualista delle fondamentali esperienze umane [il mito dell’auto-realizzazione e del sovrano diritto soggettivo]; oscurarsi della verità e del senso della diversità sessuale; la libertà pensata e vissuta come pura auto-determinazione. Dirò ora qualcosa brevemente su ciascuna di queste cause.

A) La vita coniugale è espressione e realizzazione della condizione della persona umana, che si realizza nella relazione con l’altro.

La relazione coll’altro può essere pensata – più concretamente, la socialità – in due modi differenti, e vissuta di conseguenza. Declinata secondo due possibili paradigmi.

Se si concepisce la relazione con l’altro come una dimensione congenita della persona, un bene umano naturale, la società sarà vissuta come la realizzazione integrale della propria umanità. La perfezione di se stessi è un bene relazionale; è cioè un bene che consiste in una relazione.

Se si concepisce la relazione con l’altro non una dimensione congenita, ma il frutto di una convenzione o contrattazione reciproca, l’associarsi verrà pensato e vissuto come una necessità dovuta alla ricerca del proprio bene, della propria felicità individuale. Non esistono beni relazionali, avendo la relazione carattere di mera utilità per il proprio benessere. Parlavo del mito del proprio benessere e della sovranità dei diritti soggettivi.

Se chiamiamo il primo paradigma "paradigma personalista", ed il secondo "paradigma individualista", si può dimostrare che il secondo ha avuto nettamente vittoria nella coscienza che l’uomo ha di sé in Occidente. Questa vittoria impediva di accettare la visione che fino ad allora l’Occidente aveva avuto del matrimonio, trasformandolo da "communio totius vitae" a contrattazione fra due diritti sovrani alla propria felicità individuale e alla soggettiva autorealizzazione. E ogni contrattazione è sempre istituita sulla base del dare ed avere, ponendo da parte di ciascun contraente la condizione che fra dare ed avere ci sia almeno parità. Altrimenti c’è la clausola tacita del recesso.

Qui troviamo forse una delle ragioni più profonde della progressiva equiparazione, anche giuridica, del matrimonio alla libera convivenza, e la progressiva legittimazione di questa.

B) La declinazione individualista dell’humanum è causata anche dal progressivo oscurarsi della verità e bontà della diversità sessuale. "Siamo in difficoltà culturale, noi post-moderni, nel vedere l’altro come differente (quale differenza è più invalicabile di quella dell’essere maschi e dell’essere femmine?) ma non estraneo. Siamo tentati di risolvere il problema in una omologazione che tutto appiattisce" [Comitato per il progetto culturale della CEI (a cura del), Il cambiamento demografico, Laterza, Bari-Roma 2011, 9].

La diversificazione sessuale è sempre stata vista dai pensatori essenziali come uno dei simboli fondamentali della verità della persona umana, di ciò che è la persona umana. Il secondo capitolo della Genesi lo dice in maniera assai suggestiva.

Simbolo della persona umana, perché la diversificazione sessuale dice che l’humanum non coincide interamente né colla mascolinità né colla femminilità; non coincide con la riduzione omologante dei due. Ma consiste nell’affermazione di ciò che è proprio di ciascuno dei due, all’interno di una relazione che, su un piano di uguale dignità, orienta e l’uomo e la donna alla pienezza della loro umanità.

L’istituzione matrimoniale nasceva in fondo da questa visione, anche se dobbiamo dire non in modo del tutto chiaro a causa anche del fatto che l’esercizio della sessualità era pensato esclusivamente in funzione della procreazione, e il non pieno riconoscimento dell’uguale dignità della donna.

Se mi colloco dentro a quella che ho chiamato declinazione individualista dell’humanum; se perdo di vista il fatto che la persona umana è uomo e donna; se - aggiungo – la procreazione è sradicata dall’esercizio della sessualità, non si capisce più la definizione eterosessuale dell’istituzione coniugale, o comunque cessa di essere impensabile la definizione omosessuale del medesimo. Cosa che sta puntualmente accadendo.

Mi fermo ora brevemente – il tema meriterebbe ben più ampio sviluppo – per indicare come questi due primi processi culturali hanno influito sulle relazioni famigliari.

Il primo ha cambiato la considerazione del figlio come dono, come persona che è attesa in se stessa e per se stessa, nel figlio come diritto, come ciò di cui ho bisogno per la mia auto-realizzazione.

Il secondo processo ha … combinato un guaio ancora più grave: ha reso sempre più difficile la generazione dei figli [= cambiamento demografico]. Per custodire infatti "il generare all’altezza del suo compito non vi è altra strada che quella della condivisione, del riconoscimento o della reciprocità nella quale non si realizza uno scambio do ut des, ma la crescita e la realizzazione in toto delle persone" [l. c.].

C) Il terzo processo riguarda la concezione e il vissuto della libertà. Con questo tocchiamo, penso, il fondo del dramma dell’uomo di oggi.

È una libertà che viene sradicata dalla verità circa il bene ed il male; che viene vissuta come una realtà prima; che viene sempre più vissuta come spontaneità.

In questo modo di vivere la propria libertà, la proposta cristiana circa il matrimonio diventa non impraticabile, ma impensabile. Per quale ragione? perché libertà e definitività sono pensate come grandezze inversamente proporzionali; perché la libertà non è più pensata come capacità di auto-donazione, ma come capacità di affermazione di se stessi a prescindere dall’altro.

La nostra storia occidentale di libertà era stata scandita da tre grandi eventi: la liberazione del popolo ebreo dall’Egitto e dono conseguente della Legge; l’esperienza della polis greca; la scoperta di una res publica compiuta da Roma, di cui ciascuno è responsabile.

In fondo, tutte e tre avevano una idea di fondo: la libertà è un bene da condividere, perché è un bene per natura sua relazionale. Il cristianesimo, con Paolo, porterà all’estrema conseguenza questa grammatica comune della libertà: essa è servizio; è dono; è oblativa, non possessiva. L’istituto matrimoniale si nutriva di questo terreno. Sradicato da esso, è divenuto privo di vita. È sempre più impensabile come progetto di vita.

2. La F.C. base permanente del nostro impegno.

Tutto quanto detto sopra stava già accadendo quando la F.C. venne scritta e promulgata, anche se quei processi non avevano mostrato ancora tutti i loro effetti sul matrimonio e la famiglia. La F.C. dunque ha accolto la sfida, e ha indicato le linee di risposta alla provocazione.

Per chiarezza indicherò sinteticamente questa risposta sottolineandone due punti: la risposta di metodo e la risposta di contenuto.

2.1. È stata una risposta metodologica. La F.C. ha indicato un metodo, cioè una via per "annunciare il Vangelo, cioè la buona novella a tutti indistintamente, in particolare a tutti coloro che sono chiamati al matrimonio e vi si preparano" [F.C. 3]. Il metodo è esposto nella Parte prima dell’Esortazione apostolica.

Esso è la coniugazione simultanea, l’insieme di tre percezioni, o, se volete, di tre attitudini spirituali: la conoscenza delle "situazioni entro le quali il matrimonio e la famiglia oggi si realizzano" [F.C. 4]; la profonda conoscenza della dottrina cristiana circa il matrimonio e la famiglia; l’interpretazione della situazione alla luce della dottrina della fede mediante un vero discernimento evangelico, operato dal soprannaturale senso della fede [al discernimento evangelico è dedicato tutto il n° 5 della F.C.].

Più semplicemente, spero. Se accosto i due poli della corrente elettrica, scocca la scintilla. Se accosto conoscenza della situazione e conoscenza della fede, scocca la scintilla del discernimento.

Se mi limitassi a misurare, a pensare l’annuncio del Vangelo del matrimonio e della famiglia sullo spirito del tempo, senz’altro ridurrei il Vangelo a misura dell’uomo e della donna che si sposano. Se mi limitassi a trasmettere la dottrina della fede senza una profonda conoscenza del quotidiano vissuto degli sposi, la dottrina della fede potrebbe, nel migliore dei casi, essere imparata, ma non sentita come risposta alle vere domande dell’uomo e della donna che si sposano.

Il "senso della fede", organo del discernimento, "è un dono che lo Spirito partecipa a tutti i fedeli, ed è pertanto, opera di tutta la Chiesa… I laici, anzi, in ragione della loro particolare vocazione, hanno il compito specifico di interpretare alla luce di Cristo la storia di questo mondo, in quanto sono chiamati ad illuminare e ordinare le realtà temporali secondo il disegno di Dio Creatore e Redentore" [F.C. 5].

È questa la via, il metodo appunto, che la Chiesa è chiamata a percorrere per la Nuova Evangelizzazione.

2.2. Vorrei ora richiamare nei suoi punti fondamentali la visione teologica ed antropologica che la F.C. ha del matrimonio e della famiglia [cfr. Parte seconda, 11-16], per farvi vedere come essa possa e debba costituire la base su cui edificare la nostra pastorale, anche oggi. La FC resta il Documento base.

Leggendo attentamente la parte teologico-antropologica di FC [cfr. parte seconda, 11-16], possiamo individuare nel testo pontificio alcune certezze di fondo. E’ dal loro insieme armonico che si evince la visione teologico-antropologica di FC.

La prima. Il matrimonio e la famiglia sono realtà "naturali". Essi si radicano profondamente nella natura stessa della persona umana. Togliamo subito però un equivoco che può insidiare questa formulazione. Essa non va intesa nel senso che la persona umana debba sposarsi per realizzarsi. Quale è allora il senso preciso di quella affermazione? Esso dipende dal concetto di "natura della persona umana" che ha la FC.

Ascoltiamo l’incipit della parte seconda di FC: "Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza: chiamandolo all’esistenza per amore, l’ha chiamato nello stesso tempo all’amore". La natura della persona umana è costituita dal suo essere "ad immagine e somiglianza" di Dio. Quando Tommaso scrive: "praepositio … "ad" accessum quemdam significat, qui competit rei distanti" [1, q.92, a.1c], esprime un’idea comune ai Padri greci. La natura della persona umana è "tendenziale in riferimento a …". Ciò che fa di essa un "unicum" nell’universo creato visibile è che il termine di questo essere-tendenza è Dio stesso.

Ma la FC non dice questo solamente. Essa afferma che l’intera natura della persona umana è definita dalla sua "vocazione all’amore". Dice il testo: "Dio è amore e vive in se stesso un mistero di comunione personale di amore. Creandola a sua immagine … Dio iscrive nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione, e quindi la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione. L’amore è, pertanto, la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano"[11,2]. L’uomo è costituito in ordine all’amore: la sua natura è orientata all’amore. Ne deriva che, come ha scritto Giovanni Paolo II nell’Enc. Redemptor hominis, "L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente" [10,1; EE 8/28].

E’ necessaria a questo punto una rigorizzazione concettuale. La definizione di uomo che stiamo elaborando non deve essere intesa nella luce di un’affermazione del primato dell’etica sull’ontologia. L’uomo non è definito da una esigenza; da un dovere; da una vocazione neppure: è definito dall’essere egli fatto in modo tale che l’amore ne indica la perfezione, il bene ultimo. E’ dentro a questa rigorizzazione concettuale che si comprende l’affermazione forse più profonda fatta dal Concilio Vaticano II sull’uomo: "Questa similitudine [= una certa similitudine tra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nell’amore] manifesta che l’uomo … non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé" [Cost. Past. Gaudium et Spes 24,4]. L’uomo può perdere il proprio "se stesso": può cioè dilapidare la sua umanità e quindi compiere una pseudo-autorealizzazione. Questo sperpero accade quando non realizza se stesso nel dono di sé.

Siamo ora in grado di cogliere il significato preciso e pieno del primo insegnamento fondamentale di FC. Matrimonio e famiglia sono radicati nella natura della persona umana perché sono in grado di esprimere l’intimo orientamento al dono di sé che la definisce. Matrimonio e famiglia non sono "estranei" alla natura della persona umana, ma consentanei alla sua struttura intima.

La seconda certezza di fondo di FC è che matrimonio e famiglia entrano nella storia della salvezza, sono una realtà dell’economia della salvezza. Questa collocazione è decisiva per capire la visione teologico-antropologica di FC. Essa viene descritta nel mondo seguente: "La comunione d’amore tra Dio e gli uomini, contenuto fondamentale della Rivelazione e dell’esperienza di fede di Israele, trova una sua significativa espressione nell’alleanza sponsale, che si instaura fra l’uomo e la donna. E’ per questo che la parola centrale della Rivelazione, "Dio ama il suo popolo" viene pronunciata anche attraverso le parole vive e concrete con cui l’uomo e la donna si dicono il loro amore coniugale. Il loro vincolo diventa l’immagine e il simbolo dell’Alleanza che unisce Dio e il suo popolo" [12,1-2].

Ma per comprendere esattamente la collocazione del matrimonio e della famiglia dentro all’economia della salvezza sono necessarie alcune precisazioni.

Trattasi di una collocazione che sembra fondarsi sopra la "similitudine": l’esperienza coniugale entra nell’economia della salvezza in quanto mezzo espressivo della stessa, come linguaggio umanamente comprensivo del mistero dell’Alleanza. In realtà non si tratta solo di questo. Ma di una vera e propria partecipazione di cui la coniugalità è dotata nei confronti del mistero dell’Alleanza. E’ questa l’essenza della sacramentalità propria del matrimonio di due battezzati. Dalla partecipazione deriva la similitudine, non viceversa: la partecipazione definisce l’ontologia del sacramento, la similitudine l’etica. Questo ordine va accuratamente custodito.

Ogni partecipazione consiste nel possedere in parte una perfezione che in se stessa è più ampia. La perfezione cui si riferisce il testo di FC è di volta in volta indicata con l’amore di Dio verso il suo popolo [12,2]. Alleanza che unisce Dio e il suo popolo [ib.], lo Sposo (Cristo) che ama e si dona (13,1) sulla Croce. La perfezione è quella insita nel dono che di sé ha fatto Cristo sulla Croce: "li amò eis télos" [Gv 13,1]. Dono "de quo magis cogitari nequit". La limitazione di questa perfezione negli sposi che pure ne partecipano realmente, è dovuta al fatto ovvio della loro creaturalità ed imperfezione morale, oppure alla forma della coniugalità che la perfezione dell’Amore quale si ha in Cristo assume negli sposi? La domanda verte sulla coniugalità come limitazione della partecipazione all’amore che ha mosso Cristo a donare Se stesso sulla Croce. La questione, come si capirà subito, non è di dettaglio.

La mia idea è che la coniugalità è limitativa, ma non nel senso che essa sia estranea, estrinseca all’amore di Cristo, ma nel senso che è in grado di esprimerne solo una dimensione [cfr. 16,1]. Tutti i colori dell’iride sono presenti nella luce, ma è necessario lo spettro per vederli. Tutte le forme dell’amore, del dono di Sé, sono presenti nell’auto-donazione di Cristo sulla Croce. Ma la ricchezza del tutto ha bisogno del frammento per farsi conoscere. Nello stesso tempo però il frammento rimanda sempre al tutto: l’amore coniugale rimanda per sua natura oltre se stesso, verso una pienezza d’essere che esso non è capace né di promettere né di realizzare [cfr. 1Cor 7,29].

Ci eravamo proposti di vedere come la FC pensa la presenza, la collocazione del matrimonio dentro all’economia della salvezza. Questa è vista nelle tre dimensioni che sono proprie del sacramento. E’ collocato nella storia della salvezza perché il matrimonio è memoriale dell’avvenimento centrale dell’economia salvifica, la morte-risurrezione del Signore; perché è attualizzazione dello stesso nel senso che l’effetto primo ed immediato della celebrazione sacramentale è il vincolo coniugale, partecipazione reale all’appartenenza reciproca di amore di Cristo colla Chiesa; perché è prolessi del compimento definitivo, quando Cristo sarà tutto in tutti (cfr. 13,7-8).

La terza convinzione di fondo riguarda la relazione esistente fra la natura della persona umana e del matrimonio [prima convinzione] e il matrimonio-sacramento [seconda convinzione].

Parto da due testi di FC: "In questo sacrificio [= quello di Cristo sulla Croce] si svela interamente quel disegno che Dio ha impresso nell’umanità dell’uomo e della donna, fin dalla loro creazione" [13,2: in nota si cita Ef 5,32]. E poco più sotto: "L’amore coniugale raggiunge quella pienezza a cui è interiormente ordinato, la carità coniugale, che è il modo proprio e specifico con cui gli sposi partecipano e sono chiamati a vivere la carità stessa di Cristo che si dona sulla Croce" [ib.].

Le due affermazioni si articolano e si connettono in quanto la prima è ontologica: parla dell’essere dell’uomo e della donna definito come "disegno del Creatore"; la seconda è etica: parla della pienezza, della perfezione della coniugalità definita come amore. Teoreticamente la più importante è la prima.

Il fine verso cui guardava Dio creatore nel momento in cui creava la persona umana, era "il sacrificio che Gesù Cristo fa di se stesso sulla Croce per la sua Sposa". E’ questo avvenimento il "punto gravitazionale" della persona umana.

Si noti bene che il testo non parla di persona umana in generale, ma di "umanità dell’uomo e della donna". Viene qui aperta una pista di riflessione tesa a mostrare come mascolinità-femminilità trovano nel mistero di Cristo la loro unità che salvaguarda la diversità, oltre una visione sia di contrapposizione insuperabile sia di insignificanza ed irrilevanza ultima della divaricazione sessuale, di cui ho già parlato. Il mistero nuziale di Cristo-Chiesa esprime la verità della persona umana, e la partecipazione a questo mistero nuziale realizza l’umanità in quanto maschile-femminile.

La trascrizione sul registro etico di quest’affermazione ontologica significa che l’amore coniugale, nel senso della sua naturalità di cui ho parlato al § 1,1, è orientato a realizzarsi come carità coniugale. Ciò non significa un più grande obbligo: il matrimonio sacramento è più indissolubile che il matrimonio non sacramento. Significa che l’amore, inteso come dono di sé a cui la persona è finalizzata, quando assume la forma della coniugalità, non è perfetto fino a quando non è elevato a carità coniugale. Il tempo affidatomi non mi consente di procedere oltre.

La quarta convinzione di fondo riguarda il rapporto coniugalità-dono della vita [cfr. n° 32]. In sostanza, FC ed il successivo sviluppo della riflessione ha mostrato la connessione inscindibile fra coniugalità e dono della vita: la coniugalità implica nella sua stessa essenza di communio personarum l’orientamento al dono della vita, e reciprocamente il dare origine ad una nuova persona umana deve accadere solo attraverso quell’atto nel quale i due coniugi diventano una caro, ed è quindi espressione eminente della communio personarum.

Questa visione dimostra la falsità di due tesi opposte. Quella che configura la coniugalità come "mezzo" per la procreazione, e quella che pone un rapporto estrinseco o solo di fatto fra coniugalità e dono della vita.

 

Conclusione: profezia di una visione

Concludendo la mia riflessione vorrei finalmente spiegare in che senso la FC è il Documento base di ogni pastorale matrimoniale.

Ancora nel 1974 K. Wojtyla scriveva: "Una onesta comprensione della realtà del matrimonio e della famiglia sulla base della fede richiede un approfondimento dell’antropologia della persona e del dono ed anche un approfondimento del criterio della comunità delle persone ("communio personarum")".

FC ha introdotto una forte ed ampia riflessione antropologica come esigenza imprescindibile per comprendere e far comprendere la dottrina cristiana del matrimonio.

Questi tre decenni che ci separano dalla promulgazione di FC hanno mostrato come questa visione fosse profetica.

L’esigenza della riflessione antropologica, come dimensione essenziale della proposta cristiana del matrimonio, è andata assumendo carattere di crescente urgenza, anche e prima di tutto dal punto di vista teoretico. Ci è chiesta la ricostruzione di una visione dell’uomo, che generata dalla fede, possa rispondere veramente alle domande dell’uomo su se stesso e sul suo destino.

Ma perché questa ricostruzione possa avvenire, il pensiero cristiano deve affrontare e vincere le tre sfide fondamentali che la contemporaneità gli sta lanciando: la sfida del nichilismo metafisico, la sfida del cinismo morale, la sfida dell’individualismo asociale.

La sfida del nichilismo: essa consiste nella negazione di un originario rapporto della nostra ragione colla realtà. Negazione che comporta una considerazione della realtà medesima alla stregua di un’illusione o di un gioco le cui regole sono frutto di pura convenzione. E’ la sfida al realismo della fede, perché nasce dalla negazione della capacità della ragione di andare oltre il verificabile. Se il pensiero cristiano non vincerà questa sfida, non usciremo dal costruttivismo convenzionalista in cui è caduta la dottrina civile del matrimonio.

La sfida del cinismo: negata ogni consistenza alla realtà, scompare il senso della divaricazione essenziale fra bene/male, e con ciò il gusto della scelta libera. Ogni scelta ha lo stesso significato, e pertanto nessuna scelta ha significato. L’etica, intesa come passione per la custodia dell’uomo, è estinta. E’ la sfida al realismo della speranza, perché nasce dalla negazione di un fine ultimo della vita. Se il pensiero cristiano non vincerà questa sfida, non usciremo dall’incapacità di mostrare l’incomparabilità di quel bene che è l’amore coniugale con quel vago e asettico senso di amore che non sa più definirsi, ed equipara ogni forma di convivenza.

La sfida dell’individualismo: è il risultato delle due sfide precedenti. La convivenza umana è pensata come coesistenza regolamentata di egoismi opposti. E’ la sfida al realismo della carità cristiana, perché nasce dalla negazione pura e semplice della categoria antropologico-etica della prossimità. Se il pensiero cristiano non vincerà questa sfida, verrà meno la possibilità stessa di parlare in modo sensato e comprensibile del matrimonio cristiano.

Il matrimonio e la famiglia sono uno dei percorsi privilegiati per avere un’intelligenza teologica e filosofica della verità dell’uomo, e lungo questo percorso è inevitabile oggi non essere provocati da questa triplice sfida.

Mi piace terminare con una riflessione. È da più di trent’anni che conosco la vostra attività. Essa è assai preziosa, poiché si è da sempre collocata dentro ad una profonda cura dell’humanum, dentro ad una profonda preoccupazione di sapere la verità circa la sessualità umana. Avete seguito la via di FC.