In La nuova Bussola Quotidiana
Le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario dell’apertura del
Concilio Vaticano II sono state associate dal papa Benedetto XVI al
sinodo dei Vescovi sulla “nuova evangelizzazione”. Si può dire che
tutta la Chiesa cattolica si sia mobilitata per promuovere riunioni di
preghiera, seminari di studio e corsi di lezioni teologiche nella linea
indicata dal Papa. «Ma ? ha precisato opportunamente Benedetto XVI ?,
affinché questa spinta interiore alla nuova evangelizzazione non
rimanga soltanto ideale e non pecchi di confusione, occorre che essa si
appoggi a una base concreta e precisa, e questa base sono i documenti
del Concilio Vaticano II, nei quali essa ha trovato espressione. Per
questo ho più volte insistito sulla necessità di ritornare, per così
dire, alla “lettera” del Concilio – cioè ai suoi testi – per trovarne
l’autentico spirito, e ho ripetuto che la vera eredità del Vaticano II
si trova in essi. Il riferimento ai documenti mette al riparo dagli
estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in avanti, e consente di
cogliere la novità nella continuità» (Benedetto XVI, discorso dell’11
ottobre 2012).
Per comprendere bene il discorso che il Papava facendo
fin dall’inizio del suo pontificato sull’«ermeneutica del Concilio»,
occorre tener conto del fatto che, purtroppo, in questi cinquant’anni i
testi conciliari sono stati spesso oggetto di un’informe avvicendarsi
di interpretazioni arbitrarie e sostanzialmente ideologiche, tutte
deprecate a suo tempo in numerosi discorsi pubblici dallo stesso Paolo
VI, il papa che, dopo la morte di Giovanni XXIII, ha proseguito e
concluso il Concilio Vaticano II. Ha levato la sua voce contro siffatte
interpretazioni arbitrarie e sostanzialmente ideologiche anche il papa
Giovanni Paolo II, la cui opera di chiarificazione dottrinale è stata
continuata dall’attuale Pontefice. Ma gli stessi studiosi che hanno
analizzato scientificamente i documenti del Concilio Vaticano II (gli
schemi preparatori, le discussioni in commissione e in aula, i documenti
finali votati dall’assemblea) hanno contribuito a diffondere
nell’opinione pubblica cattolica una concezione confusa e conflittuale
di quello che è stato e di quello che significa per la Chiesa l’evento
pastorale e dottrinale del Concilio.
Vedrò di mettere a fuoco analiticamente i motivi di questa situazione,
che sollecita la consapevolezza critica di chiunque avverta la propria
diretta responsabilità nei confronti della vita di fede in mezzo al
Popolo di Dio e abbia a cuore le sorti della “nuova evangelizzazione”.
La pubblicistica teologica degli ultimi anni ha visto il
moltiplicarsi di opere di notevole valore scientifico sul concilio
ecumenico Vaticano II. Sono opere di genere assai diverso ? molte sono
di genere storiografico (di storia della Chiesa, di storia dei concili
ecumenici, di storia del dogma e di storia della teologia), mentre
altre sono di genere critico-dottrinale ? ma tutte hanno un carattere
spiccatamente polemico, nel senso che mirano alla rivendicazione di un
determinato atteggiamento critico nei confronti del Concilio,
atteggiamento che si basa su una ricostruzione delle vicende storiche
che hanno portato alla celebrazione di un concilio ecumenico dopo la
prima metà del Novecento e a novant’anni dalla forzata interruzione del
Vaticano I; a partire da tale ricostruzione storica, variamente
interpretata, questi testi orientano il lettore a formulare un
determinato giudizio di valore sul ruolo dei teologi che accompagnavano
e consigliavano i padri conciliari, e quindi un giudizio di valore
circa le stesse disposizioni pastorali e disciplinari emanate dal
Concilio con la “costituzione pastorale” Gaudium et spes, con le
“dichiarazioni” e con i “decreti”; infine ? come logica conclusione di
tutto ciò ? un giudizio di valore persino sugli insegnamenti
dottrinali contenuti nelle “costituzioni dogmatiche” Lumen gentium e Dei Verbum.
Tali giudizi di valore sono ovviamente di segno diverso, spesso
gli uni in aperta opposizione agli altri, sicché questi ultimi
cinquant’anni di vita della Chiesa cattolica ? il tempo che è trascorso
dall’apertura del Vaticano II nel 1962 ? appaiono come il tempo della
discussione su tutto, il tempo delle divisioni dottrinali e degli
opposti estremismi ideologici, il tempo insomma del “conflitto delle
interpretazioni”. Si è così generata nell’opinione pubblica cattolica
la sensazione che la Chiesa sia oggi lacerata da insanabili divisioni
ideologiche, quelle che superficialmente vengono sempre ricondotte a
due opposte categorie culturali, sul modello della “destra” e della
“sinistra” politica, la categoria dei “conservatori” e quella dei
“progressisti”: i “conservatori” sarebbero quelli che criticano il
Vaticano II o in diversi modi si oppongono al rinnovamento della vita
della Chiesa voluto dal Concilio, mentre i “progressisti” sarebbero
quelli che esaltano il Vaticano II e si adoperano per la più pronta e
completa attuazione delle riforme da esso decretate.
Questa diffusa sensazione che la pubblicistica teologica ha
ingenerato nell’opinione pubblica cattolica circa l’esistenza di
insanabili divisioni ideologiche nella Chiesa di oggi può essere
giustificata dai rilevamenti di sociologia religiosa, i quali però non
riguardano l’essenza soprannaturale della Chiesa e l’essenziale delle
vicende che riguardano la sua vita. In effetti, l’essenza soprannaturale
della Chiesa, come insegna lo stesso concilio ecumenico Vaticano II,
va vista nel suo essere, per istituzione divina, «l’universale
sacramento della salvezza che svela e insieme realizza il mistero
dell’amore di Dio verso l’uomo» (cfr Concilio ecumenico Vaticano II,
costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 45). Ora, la salvezza degli
uomini dipende dalla fede, ossia, in concreto, dall’accoglimento della
verità rivelata che la Tradizione apostolica conserva e annuncia
infallibilmente agli uomini di ogni generazione: «Andate in tutto il
mondo e annunciate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà
battezzato sarà salvo; chi non crederà sarà dannato» (Vangelo secondo
Marco, 16,15-18 ).
Ecco che, alla luce di questo dato teologico fondamentale, il
pericolo di una divisione all’interno della Chiesa è un pericolo reale,
e qualora siffatta divisione si verificasse di fatto essa dovrebbe
essere considerata, non solo grave, ma addirittura esiziale: ma solo
quando si tratta di attentati all’unità nella fede, ossia quando si
verificano episodi di eresia e di scisma. Ora, la crisi attuale della
Chiesa cattolica è davvero determinata dal diffondersi di posizioni
ereticali? Possono essere qualificate come vere e proprie eresie le
opposte teorie sulla dottrina del Concilio? È giusto dire che sia
un’eresia la posizione dei “progressisti”, in contrasto con la
posizione ortodossa rappresentata dai “conservatori”? Oppure, a
contrario, si deve dire che è un’eresia la posizione dei “conservatori”,
in polemica con la posizione ortodossa rappresentata dai
“progressisti”? Non si tratterà piuttosto di interpretazioni della fede
– diverse e talvolta anche contrapposte, ma sempre di per sé
ammissibili? In quest’ultimo caso si dovrebbe parlare di legittime
diversità di opinione, non di ortodossia e di eterodossia; in altri
termini, si dovrebbe parlare di legittimo pluralismo all’interno della
Chiesa, un pluralismo che di per sé non dovrebbe inficiare l’unità
nella fede della Chiesa, la concordia pacifica nella «una fides».
L’unità di tutti nella fede della Chiesa viene a essere
inficiata solo quando coloro che difendono una determinata
interpretazione del dogma la assolutizzano, presentandola come l’unica
possibile e giusta e giudicando di conseguenza le altre opinioni come
vere e proprie eresie.
Per questo lavoro di chiarificazione occorre servirsi di
considerazioni propriamente teologiche, che però siano fondate su una
specifica competenza filosofica, quella logico-epistemologica, l’unica
in grado di specificare quale sia il significato ? non equivoco né
arbitrario bensì univoco e scientificamente giustificato ? dei termini
essenziali del discorso che qui vien fatto, ossia: 1) “Chiesa
cattolica”; 2) “magistero ecclesiastico”¸3) “teologia”; 4) “concilio
ecumenico”; 5) “ermeneutica”.
1) Per “Chiesa cattolica”, nel contesto teologico che qui ci
interessa, occorre intendere la comunità dei credenti gerarchicamente
ordinata, nella quale spetta al collegio episcopale, con alla testa il
Romano Pontefice, la funzione di governo (munus regendi), la funzione di conferimento della grazia divina (munus sanctificandi) e soprattutto la funzione di insegnamento (munus regendi), funzione che riguarda il dogma e la morale rivelata (in rebus fidei et morum)
ed è autorevole perché dotata da Cristo stesso del carisma
dell’infallibilità, ossia della prerogativa di essere immune da errori
nell’annuncio della fede in ogni tempo e in ogni luogo (infallibilitas in docendo).
2) Tale funzione costituisce propriamente il “magistero ecclesiastico”,
esercitato in forma ordinaria o solenne, dal collegio episcopale
riunito in concilio ecumenico o dal Papa da solo quando parla ex
cathedra.
3) Per “teologia”, come ho accuratamente spiegato nel mio trattato su Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”
(Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma), deve intendersi lo studio
scientifico della dottrina cristiana (nei suoi aspetti dogmatici e
morali e nella dimensione storica e sociale, oltre che teoretica) il
cui esito finale è una ipotesi di interpretazione del dogma. Ciò va
rimarcato per distinguere la teologia dal magistero ecclesiastico,
visto che quest’ultimo, oltre a enunciare in termini definitori il
dogma, esercita necessariamente anche una funzione ermeneutica, e
quindi formula delle interpretazioni del dogma, che però partecipano in
vario modo e in grado diverso del carisma proprio del Magistero, che è
l’infallibilità. In altri termini, la dottrina del Magistero, quando
interpreta il dogma, non si esprime con proposizioni che si presentano
come interpretazioni meramente ipotetiche, come quelle della teologia,
ma con proposizioni che, pur non essendo definizioni dogmatiche, sono a
tutti gli effetti interpretazioni autorevoli, ancorché riformabili,
ossia riformulabili su piano linguistico e suscettibili di ampliamenti o
restringimenti sul piano dei contenuti dottrinali e delle loro
applicazioni pratiche.
4) Per “Concilio ecumenico” non si può intendere genericamente
un evento religioso-culturale, perché si tratta propriamente di un atto
del “magistero” ecclesiastico nella sua forma collegiale e solenne,
ragione per cui sono del tutto abusive e teologicamente infondate
(anche se si ricorre al linguaggio teologico parlando retoricamente di
“Vangelo vivo”, di “voce dello Spirito” e di “coscienza della Chiesa”)
le pretese di presentare il Vaticano II come un evento i cui
protagonisti sarebbero i “periti” e l’esito finale sarebbe il definitivo
prevalere nella Chiesa di un’ideologia (quella dei teologi
progressisti) nei confronti di un’altra (quella dei teologi
tradizionalisti). È in base a questa abusiva interpretazione teologica
che il Concilio viene esaltato come la manifestazione della “creatività
dogmatica” di una fantomatica “Chiesa dal basso” che, poi,
paradossalmente, ha come propri esponenti dei veri e propri “principi
della Chiesa” (come i cardinali Martini e Ravasi), gli autori della più
astrusa e cervellotica teologia filo-hegeliana e filo-heideggeriana, i
più potenti gruppi di potere teologico-politico all’interno della
comunità ecclesiale (come la Scuola di Bologna e le Edizioni San Paolo,
le Edizioni Dehoniane, la Cittadella Editrice), che elevano al rango
di “profeti” personaggi ambigui come Giovanni Franzoni ed Enzo Bianchi.
È anche in base a questa abusiva interpretazione teologica che il
Concilio viene interpretato come un evento che ha provocato una
“rottura”, una sostanziale “discontinuità” con la Tradizione dogmatica
(si noti che “discontinuità” e “rottura” sono i termini precisi con i
quali papa Benedetto XVI ha stigmatizzato questi errori teologici nel
celebre discorso alla Curia romana il 22 dicembre 2005).
Infine, è ancora in base a questa abusiva interpretazione teologica che
il Concilio Vaticano II viene presentato nella Chiesa come un insieme
di norme (che vengono definite “pastorali” e “dottrinali” ma in realtà
sono solo ideologiche) alle quali dovrebbero essere “fedeli”, non solo
tutti i vescovi della Terra ma anche e soprattutto i pontefici romani,
pena l’essere additati all’opinione pubblica ecclesiale ed
extra-ecclesiale come esponenti del potere ecclesiastico che resiste
alla rivoluzione conciliare per tema di perdere i propri privilegi,
quando addirittura non vengono vituperati come “traditori della
Chiesa”, “infedeli al Concilio”, “affossatori del rinnovamento
ecclesiale” eccetera. Viene così a scomparire l’unico criterio
autenticamente teologico riguardante l’interpretazione del Concilio,
quello che parte dalla premessa dogmatica per cui un atto del magistero
costituisce un insegnamento autorevole, rivolto a tutto il Popolo di
Dio, con l’autorità e la forza soprannaturale del carisma proprio del
munus docendi conferito da Cristo stesso agli Apostoli, ossia la
“infallibilitas in docendo. Ogni atto del Magistero, essendo rivolto a
tutti i cattolici in ordine alla conoscenza certa della fede che salva,
contiene necessariamente un “nucleo” dottrinale e disciplinare
accessibile a tutti e che pertanto non abbisogna di particolari
ermeneutiche; se poi si rilevano storicamente anche elementi che
possono aver bisogno di una ulteriore chiarificazione ermeneutica, nel
quale caso la prima e fondamentale istanza è il Magistero stesso, nel
senso che a esso spetta l’interpretazione autorevole del Concilio, ove
occorra.
5) Il termine “ermeneutica”, usato anche dal papa Benedetto XVI
per parlare della retta interpretazione della dottrina del Vaticano II,
va inteso nel senso primario e tradizionale di “interpretazione” di un
messaggio e/o di un testo scritto; non ha dunque alcuna
giustificazione teologica l’uso (e l’abuso) di questo termine nel suo
senso derivato e opinabile, che fa riferimento a una scuola filosofica ?
quella di Hans-Georg Gadamer e di Gianni Vattimo ? i cui presupposti
gnoseologici sono il soggettivismo e lo storicismo, e i cui esiti
speculativi sono caratterizzati da un sostanziale relativismo.
A conclusione di questo discorso, e applicando alla
pubblicistica sul Vaticano II le precisazioni concettuali che sono
andato esponendo, si deve riconoscere che la crisi della Chiesa
cattolica sta proprio nel fatto che talune posizioni ideologiche – che
dovrebbero essere mantenute come mere ipotesi di interpretazione del
dogma – sono invece presentate come l’unica maniera di intendere e di
vivere la fede nelle circostanze storiche che la Chiesa oggi si trova
ad affrontare. Così facendo, talune posizioni si configurano proprio
come eresia, almeno materialmente, in quanto contengono affermazioni
che sono oggettivamente contrarie alla fede della Chiesa, come quando
si dice che il Vaticano II ha insegnato una dottrina dogmatica e morale
difforme o addirittura contraria alla Tradizione, ossia in formale
contraddizione con quanto insegnato dai precedenti concili ecumenici e
dal magistero ordinario dei pontefici romani.
È la tesi che – pur da punti di vista opposti – sostengono sia
gli estremisti dell’ala progressista come gli estremisti dell’ala
conservatrice. I primi (i progressisti più radicali) articolano questa
tesi presentando la dottrina del Concilio come una “nuova coscienza”
sorta all’interno della Chiesa ad opera di teologi e “profeti” che sono
stati capaci di farsi comprendere e rappresentare ufficialmente dai
padri conciliari – il che contraddice la verità dogmatica sull’autorità
dottrinale di un concilio ecumenico in quanto atto del magistero
ecclesiastico che non può essere dettato o legittimato “dal basso”; i
secondi (i conservatori o tradizionalisti più intransigenti) articolano
questa medesima tesi sostenendo che alcune dottrine (a cominciare da
quella riguardante la libertà religiosa) e alcuni orientamenti
pastorali (l’ecumenismo e il dialogo con i non cristiani, soprattutto
con gli ebrei) del Concilio costituiscono l’abbandono, da parte dei
padri conciliari (incapaci di discernimento nei confronti delle teorie
teologiche nuove che venivano loro proposte), della dottrina e della
prassi che sempre prima di allora la Chiesa aveva mantenuto – il che
contraddice la verità dogmatica sull’autorità dottrinale di un concilio
ecumenico in quanto atto del magistero ecclesiastico che partecipa in
qualche modo dell’infallibilità e quindi non può essere formalmente in
errore in rebus fidei et morum, a meno che tale atto del
magistero ecclesiastico non risultasse illegittimo, ossia che non sia
stato convocato, presieduto e ratificato dal Romano Pontefice e non si
sia svolto secondo le relative norme canoniche, cosa che per il
Vaticano II non si può certamente asserire.
Altrettanto erronea è la tesi di chi va dicendo che il Vaticano
II non ha insegnato alcuna dottrina dogmatica e morale, ma ha impostato
la pastorale della Chiesa esclusivamente sulla base di esigenze di
carità universale e di servizio all’uomo, il che comporta l’abbandono
di ogni dogmatismo e di ogni condanna dottrinale da parte dell’autorità
ecclesiastica. Questa interpretazione, che per certi teologi dovrebbe
esprimere la vera natura (“pastorale”) e il vero “spirito” del Vaticano
II, è illegittima, perché contraddice gli stessi testi conciliari;
invano coloro che la difendono fanno ricorso (retoricamente, non certo
scientificamente) all’autorità del papa Giovanni XXIII, visto che il
suo discorso di indizione del Concilio, Gaudet mater Ecclesia,
dice proprio il contrario e insiste sul compito che l’assise conciliare
si attribuiva formalmente, che non era quello di mettere da parte
l’insegnamento della dottrina cristiana tradizionale bensì quello di
rendere più pastoralmente efficace questo insegnamento nelle
circostanze storiche nelle quali la Chiesa si trovava ad operare.
E il suo immediato successore, il papa Paolo VI, ebbe a dire
poco dopo la conclusione del Vaticano II: «L’apologia che gli autori
eterodossi di moda fanno di Cristo si riduce ad ammettere in Lui “un
uomo particolarmente buono”, “l’uomo per gli altri”, e così via,
applicando a questa interpretazione di Cristo un criterio, diventato
decisivo e dispotico, quello della capacità moderna a capirlo, ad
avvicinarlo, a definirlo. Lo si misura col metro umano, con un
dogmatismo soggettivo; e alla fine con uno scopo, seppur buono, ma
utilitario, lo si accetta per quello che Cristo oggi può servire, uno
scopo umanitario e sociologico» (Udienza Generale del 18 dicembre
1968).
Ecco dunque il giusto criterio di fede con il quale si deve
orientare la coscienza dei fedeli quando si fa riferimento al Vaticano
II: esso è un atto del Magistero che interessa la vita di fede dei
cristiani per i suoi contenuti dottrinali e disciplinari, la cui retta
interpretazione ? valida per tutti e non opinabile ? è fornita dal
Magistero stesso, ogni qual volta la natura dei documenti stessi o le
diverse circostanze storiche lo richiedano. Questa ermeneutica
autorevole e pastoralmente necessaria, in effetti, non è mai mancata
in questi cinquant’anni (prima con Paolo VI, poi con Giovanni Paolo II e
oggi con Benedetto XVI). Al di fuori di questi “punti fermi”, tutto
ciò che si presenta come ulteriore interpretazione va preso non come
materia di fede o di obbedienza ecclesiale, ma come opinione privata,
liberamente condivisibile, a patto che resti compatibile con quanto la
Chiesa ha già sufficientemente chiarito, e a patto anche che nessuna
opinione si presenti come l’unica verità che i credenti debbano
accogliere. Il conflitto delle interpretazioni (opinabili) non deve
ingenerare confusione dottrinale né deve incrinare l’unità della fede e
l’unione nella carità di tutti i cattolici. Unità e unione che
richiedono che nella coscienza dei fedeli resti sempre chiaro che non
c’è nella Chiesa se non una sola fede e un solo Buon pastore: il quale
non solo ci ha messi in guardia contro i falsi profeti e i cattivi
maestri, ma ci ha dato anche il criterio sicuro per il retto
discernimento.