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quarta-feira, 26 de dezembro de 2012

L'anti-catechismo di Enzo Bianchi - di Antonio Livi

In nBQ

Ci eravamo lasciati in aprile con una polemica a proposito di una meditazione che Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, aveva pubblicato su Avvenire con una esposizione che contrastava con il Magistero della Chiesa cattolica (chi vuole riprendere gli argomenti di quella polemica può cliccare qui). Ora siamo in un altro “tempo forte”, l’Avvento, e di nuovo Bianchi - sempre dalle colonne di Avvenire - ha modo di propinare ai fedeli cattolici il suo anti-catechismo.

Il 16 dicembre si è messo a pontificare sul giudizio di Dio, e anche in questo contesto torna a riferirsi  a Cristo, nostro Signore, in un modo che certamente urta chiunque viva la fede cattolica e abbia pertanto un sentimento di vera adorazione nei confronti del Verbo Incarnato. A un certo punto Bianchi, riferendosi al giudizio universale, scrive: «Gesù confessa la sua ignoranza relativa all’ora precisa del giorno del giudizio: “Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre” [Mc 13,32]. Se Gesù non conosce l’ora, annuncia però il criterio del giudizio: il concreto amore fraterno». Ora, parlare di Gesù come di uno che «confessa la sua ignoranza» suona a bestemmia, almeno per chi ama Gesù come il Verbo eterno, consustanziale al Padre, che tutto sa e tutto può. Solo chi è ormai assuefatto al modo di parlare di Bianchi, che si riferisce sempre solo all’umanità di Cristo (lasciando intendere che Egli è un semplice uomo: un uomo esemplare, di grande spiritualità, tanto da poter essere chiamato “Figlio di Dio”, ma pur sempre un uomo) resta indifferente di fronte a questo discorso.

Bianchi può continuare a parlare così perché sa di poter contare, da una parte, sull’appoggio di molti opinion makers laici ed ecclesiastici, e dall’altra sull’ignoranza religiosa del pubblico cui si rivolge. La gran massa dei fedeli cattolici, infatti, soffre di una specie di analfabetismo di ritorno in materia di dottrina cattolica, e questa ignoranza è il vero dramma religioso che ci interpella tutti. Il relativismo dottrinale ha pervaso a tal punto la coscienza di tanti fedeli – quelli che non hanno avuto mai una adeguata catechesi circa il dogma trinitario e cristologico – che ormai non reagiscono più nemmeno di fronte a discorsi che sono oggettivamente blasfemi. E infatti la maggior parte dei fedeli non avverte alcun disagio nel leggere considerazioni spirituali o teologiche che riducono l’Emanuele, il “Dio-con-noi”, il Santo che nasce dalla Vergine Maria e riceve l’adorazione dei pastori e dei Maghi, a un santone laico o a “uno dei profeti”.

Ma chi ha sensibilità pastorale deve ragionare così: proprio perché c’è una carenza sempre più estesa di formazione catechistica nel popolo, è responsabilità degli operatori della pastorale far sì che gli strumenti della catechesi sappiano fornire argomenti di riflessione che mettano in luce, e non in ombra, il dogma centrale della nostra fede. Se non si predica che Gesù è Dio, come si può sperare che ci sia culto eucaristico? Come si può sperare che i “lontani” ritornino alle pratiche religiose, che sono tutte incentrate sull’adorazione di Cristo, vero Dio e vero Uomo, presente nell’Eucaristia «in corpo, sangue, anima e divinità»? Come si può attuare il programma pastorale del Vaticano II, che chiede di fare dell’Eucaristia «il centro e la radice di tutta la vita cristiana»?

L’artificio retorico cui ricorre Bianchi è quello tipico del “biblicismo”, che Giovanni Paolo II deprecava nell’enciclica Fides et ratio.  Esso consiste nel citare solo alcuni passi della Scrittura, selezionandoli e  interpretandoli con un’ermeneutica arbitraria, cioè per dare una parvenza di giustificazione alle proprie tesi di natura ideologica. Da secoli l’esegesi cattolica ha chiarito il senso di quella pericope evangelica nella quale Gesù parla ai discepoli del giorno del giudizio finale. La Scrittura non dice assolutamente che Cristo sia “ignorante” riguardo ai decreti eterni del Padre: dice solo che la rivelazione dei misteri del Padre da parte del Figlio è limitata, per divina disposizione, ad alcuni determinati contenuti, ossia che la missione di Cristo, rivelatore del Padre, ha dei limiti precisi nell’oggetto, nei modi e nei tempi. Chi adopera il metodo esegetico corretto (che esige il ricorso costante all’analogia della fede) ha presenti i passi del Nuovo Testamento nei quali ci è chiaramente rivelata l’onniscienza di Gesù.

In effetti, in Gesù non c’è una persona umana e una persona divina: c’è una sola Persona, ed è la Persona del Verbo eterno, consustanziale al Padre e allo Spirito santo. Per questo Gesù dice di sé: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo». Questo Figlio, secondo il Vangelo di Giovanni (Gv 1, 1-8), è il Verbo, che «è presso Dio ed è Dio». Certamente Gesù, Dio fatto uomo, ha una conoscenza umana limitata, fatta anche di esperienza e di acquisizione di nuovi saperi: ma in Lui questa conoscenza umana è unita ipostaticamente a quella visione immediata di ogni cosa che compete all’onniscienza divina. Tutti ricordano l’espressione di Pietro, dopo la Resurrezione, quando si rivolge a Gesù e gli dice «Signore, tu sai tutto!». Prima ancora, Tommaso apostolo rivolge al Risorto questa esplicita professione di fede nella sua divinità: «Tu sei il mio Signore, tu sei il mio Dio!». La Tradizione non ha mai tralasciato di porre l’accento sulla divinità di Cristo. Si pensi, ad esempio, a come parla dei Novissimi (il tema di cui si è voluto occupare Bianchi in un altro articolo su Avvenire del 6 dicembre) san  Giovanni Crisostomo: «Quando Tu, vita immortale, discendesti incontro alla morte, allora annientasti l’Inferno con il fulgore della tua divinità; poi però, quando resuscitasti i morti dai luoghi sotterranei, tutte le potenze che sono sopra il cielo esclamarono: “Gloria a te, o Cristo, Dio nostro, che dai la vita!”».

Non è comunque solo il dogma cristologico a essere ignorato da Bianchi con il ricorso ad arbitrarie interpretazioni della Scrittura. Anche il tema della giustizia divina e del castigo delle colpe è maltrattato nello scritto del 16 dicembre su Avvenire. Con una sicumera che non si sa su che cosa possa essere fondata, Bianchi afferma perentoriamente che «Dio non ci castiga mentre siamo in vita». Subito dopo, per giustificare in qualche modo questa sua tesi teologicamente ingiustificabile, scrive: «In questo caso [nell’ipotesi, cioè, che Dio ci castigasse mentre siamo in vita, ndr] saremmo “costretti” ad agire secondo il suo volere, senza la libertà che appartiene alla nostra dignità umana». Si tratta certamente di considerazioni antropologiche prive di qualsiasi coerenza logica, perché l’ipotesi che Dio ci castighi mentre siamo in vita non comporta affatto la perdita della nostra libertà, che certamente è la condizione per praticare l’amore e avere meritare il perdono in questa vita e infine la salvezza eterna. Nella teologia cattolica il concetto di “castigo divino” è visto in rapporto alla colpa dell’uomo, e quindi presuppone nell’uomo l’esercizio del libero arbitrio, con la conseguente responsabilità personale, sia prima che dopo il castigo stesso; per questo la teologia morale ha creato la figura morale della “recidività”, ossia l’ipotesi di una colpa liberamente ripetuta anche dopo un’eventuale ammonizione e un’eventuale castigo, persino dopo un eventuale pentimento.

Ma preme qui rilevare soprattutto come Bianchi manipoli la Scrittura. Egli commenta e interpreta un passo biblico facendo finta di ignorare tutti quegli altri passi, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, dai quali si evince che Dio, nella sua sapienza e giustizia infinita, infligge talvolta ai peccatori un castigo, già nella vita presente, in vista del loro ravvedimento. Ma chi conosce la Scrittura non ignora invece che nell’Antico Testamento c’è il racconto del  diluvio universale, della distruzione di Sodoma e Gomorra, delle piaghe che Dio infligge agli Egiziani, delle vicissitudini degli Ebrei nei quarant’anni dell’Esodo (ed è significativo che Dio punisca molte volte il suo stesso popolo per le sue ripetute infedeltà, e alla fine anche Mosè, l’«amico di Dio», è castigato e impedito di entrare nella Terra promessa). Così come non ignora, per quanto riguarda il Nuovo Testamento, che san Luca narra negli Atti degli Apostoli l’episodio drammatico di Anania e Saffira, e che san Paolo e l’autore della Lettera agli Ebrei parlano dei mali temporali che devono essere interpretati come castighi che Dio infligge per indurre i peccatori alla penitenza.  Le considerazioni astratte che si fanno per negare questa verità di fede  sono basate su fantasiose teorie pseudo-teologiche, di cui ho trattato già in passato e che sarebbe lungo ripetere in questa sede.

Resta il rammarico di constatare come l’autore di questo anti-catechismo non solo goda di ampia popolarità fra molti vescovi, ma addirittura trovi modo di propagarlo sistematicamente attraverso il quotidiano ufficiale della Cei che, da parte sua, tratta tesi molto opinabili (per non dire altro) da “verità sacrosante” al punto da escludere qualsiasi altro punto di vista, invitando a “vergognarsi” chiunque ci provi.

quarta-feira, 5 de dezembro de 2012

Concilio, ecco i 5 «punti fermi» - di Antonio Livi

In La nuova Bussola Quotidiana

Le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II sono state associate dal papa Benedetto XVI al sinodo dei Vescovi sulla “nuova evangelizzazione”. Si può dire che tutta la Chiesa cattolica si sia mobilitata per promuovere riunioni di preghiera, seminari di studio e corsi di lezioni teologiche nella linea indicata dal Papa. «Ma ? ha precisato opportunamente Benedetto XVI ?, affinché questa spinta interiore alla nuova evangelizzazione non rimanga soltanto ideale e non pecchi di confusione, occorre che essa si appoggi a una base concreta e precisa, e questa base sono i documenti del Concilio Vaticano II, nei quali essa ha trovato espressione. Per questo ho più volte insistito sulla necessità di ritornare, per così dire, alla “lettera” del Concilio – cioè ai suoi testi – per trovarne l’autentico spirito, e ho ripetuto che la vera eredità del Vaticano II si trova in essi. Il riferimento ai documenti mette al riparo dagli estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in avanti, e consente di cogliere la novità nella continuità» (Benedetto XVI, discorso dell’11 ottobre 2012).

Per comprendere bene il discorso che il Papava facendo fin dall’inizio del suo pontificato sull’«ermeneutica del Concilio», occorre tener conto del fatto che, purtroppo, in questi cinquant’anni i testi conciliari sono stati spesso oggetto di un’informe avvicendarsi di interpretazioni arbitrarie e sostanzialmente ideologiche, tutte deprecate a suo tempo in numerosi discorsi pubblici dallo stesso Paolo VI, il papa che, dopo la morte di Giovanni XXIII, ha proseguito e concluso il Concilio Vaticano II. Ha levato la sua voce contro siffatte interpretazioni arbitrarie e sostanzialmente ideologiche anche il papa Giovanni Paolo II, la cui opera di chiarificazione dottrinale è stata continuata dall’attuale Pontefice. Ma gli stessi studiosi che hanno analizzato scientificamente i documenti del Concilio Vaticano II (gli schemi preparatori, le discussioni in commissione e in aula, i documenti finali votati dall’assemblea) hanno contribuito a diffondere nell’opinione pubblica cattolica una concezione confusa e conflittuale di quello che è stato e di quello che significa per la Chiesa l’evento pastorale e dottrinale del Concilio.

Vedrò di mettere a fuoco analiticamente i motivi di questa situazione, che sollecita la consapevolezza critica di chiunque avverta la propria diretta responsabilità nei confronti della vita di fede in mezzo al Popolo di Dio e abbia a cuore le sorti della “nuova evangelizzazione”.

La pubblicistica teologica degli ultimi anni ha visto il moltiplicarsi di opere di notevole valore scientifico sul concilio ecumenico Vaticano II. Sono opere di genere assai diverso ? molte sono di genere storiografico (di storia della Chiesa, di storia dei concili ecumenici, di storia del dogma e di storia della teologia), mentre altre sono di genere critico-dottrinale ? ma tutte hanno un carattere spiccatamente polemico, nel senso che mirano alla rivendicazione di un determinato atteggiamento critico nei confronti del Concilio, atteggiamento che si basa su una ricostruzione delle vicende storiche che hanno portato alla celebrazione di un concilio ecumenico dopo la prima metà del Novecento e a novant’anni dalla forzata interruzione del Vaticano I; a partire da tale ricostruzione storica, variamente interpretata, questi testi orientano il lettore a formulare un determinato giudizio di valore sul ruolo dei teologi che accompagnavano e consigliavano i padri conciliari, e quindi un giudizio di valore circa le stesse disposizioni pastorali e disciplinari emanate dal Concilio con la “costituzione pastorale” Gaudium et spes, con le “dichiarazioni” e con i “decreti”; infine ? come logica conclusione di tutto ciò ? un giudizio di valore persino sugli insegnamenti dottrinali contenuti nelle “costituzioni dogmatiche” Lumen gentium e Dei Verbum.

Tali giudizi di valore sono ovviamente di segno diverso, spesso gli uni in aperta opposizione agli altri, sicché questi ultimi cinquant’anni di vita della Chiesa cattolica ? il tempo che è trascorso dall’apertura del Vaticano II nel 1962 ? appaiono come il tempo della discussione su tutto, il tempo delle divisioni dottrinali e degli opposti estremismi ideologici, il tempo insomma del “conflitto delle interpretazioni”. Si è così generata nell’opinione pubblica cattolica la sensazione che la Chiesa sia oggi lacerata da insanabili divisioni ideologiche, quelle che superficialmente vengono sempre ricondotte a due opposte categorie culturali, sul modello della “destra” e della “sinistra” politica, la categoria dei “conservatori” e quella dei “progressisti”: i “conservatori” sarebbero quelli che criticano il Vaticano II o in diversi modi si oppongono al rinnovamento della vita della Chiesa voluto dal Concilio, mentre i “progressisti” sarebbero quelli che esaltano il Vaticano II e si adoperano per la più pronta e completa attuazione delle riforme da esso decretate.

Questa diffusa sensazione che la pubblicistica teologica ha ingenerato nell’opinione pubblica cattolica circa l’esistenza di insanabili divisioni ideologiche nella Chiesa di oggi può essere giustificata dai rilevamenti di sociologia religiosa, i quali però non riguardano l’essenza soprannaturale della Chiesa e l’essenziale delle vicende che riguardano la sua vita. In effetti, l’essenza soprannaturale della Chiesa, come insegna lo stesso concilio ecumenico Vaticano II, va vista nel suo essere, per istituzione divina, «l’universale sacramento della salvezza che svela e insieme realizza il mistero dell’amore di Dio verso l’uomo» (cfr Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 45). Ora, la salvezza degli uomini dipende dalla fede, ossia, in concreto, dall’accoglimento della verità rivelata che la Tradizione apostolica conserva e annuncia infallibilmente agli uomini di ogni generazione: «Andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo; chi non crederà sarà dannato» (Vangelo secondo Marco, 16,15-18 ).

Ecco che, alla luce di questo dato teologico fondamentale, il pericolo di una divisione all’interno della Chiesa è un pericolo reale, e qualora siffatta divisione si verificasse di fatto essa dovrebbe essere considerata, non solo grave, ma addirittura esiziale: ma solo quando si tratta di attentati all’unità nella fede, ossia quando si verificano episodi di eresia e di scisma. Ora, la crisi attuale della Chiesa cattolica è davvero determinata dal diffondersi di posizioni ereticali? Possono essere qualificate come vere e proprie eresie le opposte teorie sulla dottrina del Concilio? È giusto dire che sia un’eresia la posizione dei “progressisti”, in contrasto con la posizione ortodossa rappresentata dai “conservatori”? Oppure, a contrario, si deve dire che è un’eresia la posizione dei “conservatori”, in polemica con la posizione ortodossa rappresentata dai “progressisti”? Non si tratterà piuttosto di interpretazioni della fede – diverse e talvolta anche contrapposte, ma sempre di per sé ammissibili? In quest’ultimo caso si dovrebbe parlare di legittime diversità di opinione, non di ortodossia e di eterodossia; in altri termini, si dovrebbe parlare di legittimo pluralismo all’interno della Chiesa, un pluralismo che di per sé non dovrebbe inficiare l’unità nella fede della Chiesa, la concordia pacifica nella «una fides».

L’unità di tutti nella fede della Chiesa viene a essere inficiata solo quando coloro che difendono una determinata interpretazione del dogma la assolutizzano, presentandola come l’unica possibile e giusta e giudicando di conseguenza le altre opinioni come vere e proprie eresie.

Per questo lavoro di chiarificazione occorre servirsi di considerazioni propriamente teologiche, che però siano fondate su una specifica competenza filosofica, quella logico-epistemologica, l’unica in grado di specificare quale sia il significato ? non equivoco né arbitrario bensì univoco e scientificamente giustificato ? dei termini essenziali del discorso che qui vien fatto, ossia: 1) “Chiesa cattolica”; 2) “magistero ecclesiastico”¸3) “teologia”; 4) “concilio ecumenico”; 5) “ermeneutica”.

1) Per “Chiesa cattolica”, nel contesto teologico che qui ci interessa, occorre intendere la comunità dei credenti gerarchicamente ordinata, nella quale spetta al collegio episcopale, con alla testa il Romano Pontefice, la funzione di governo (munus regendi), la funzione di conferimento della grazia divina (munus sanctificandi) e soprattutto la funzione di insegnamento (munus regendi), funzione che riguarda il dogma e la morale rivelata (in rebus fidei et morum) ed è autorevole perché dotata da Cristo stesso del carisma dell’infallibilità, ossia della prerogativa di essere immune da errori nell’annuncio della fede in ogni tempo e in ogni luogo (infallibilitas in docendo).

2) Tale funzione costituisce propriamente il “magistero ecclesiastico”, esercitato in forma ordinaria o solenne, dal collegio episcopale riunito in concilio ecumenico o dal Papa da solo quando parla ex cathedra.

3) Per “teologia”, come ho accuratamente spiegato nel mio trattato su Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa” (Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma), deve intendersi lo studio scientifico della dottrina cristiana (nei suoi aspetti dogmatici e morali e nella dimensione storica e sociale, oltre che teoretica) il cui esito finale è una ipotesi di interpretazione del dogma. Ciò va rimarcato per distinguere la teologia dal magistero ecclesiastico, visto che quest’ultimo, oltre a enunciare in termini definitori il dogma, esercita necessariamente anche una funzione ermeneutica, e quindi formula delle interpretazioni del dogma, che però partecipano in vario modo e in grado diverso del carisma proprio del Magistero, che è l’infallibilità. In altri termini, la dottrina del Magistero, quando interpreta il dogma, non si esprime con proposizioni che si presentano come interpretazioni meramente ipotetiche, come quelle della teologia, ma con proposizioni che, pur non essendo definizioni dogmatiche, sono a tutti gli effetti interpretazioni autorevoli, ancorché riformabili, ossia riformulabili su piano linguistico e suscettibili di ampliamenti o restringimenti sul piano dei contenuti dottrinali e delle loro applicazioni pratiche.

4) Per “Concilio ecumenico” non si può intendere genericamente un evento religioso-culturale, perché si tratta propriamente di un atto del “magistero” ecclesiastico nella sua forma collegiale e solenne, ragione per cui sono del tutto abusive e teologicamente infondate (anche se si ricorre al linguaggio teologico parlando retoricamente di “Vangelo vivo”, di “voce dello Spirito” e di “coscienza della Chiesa”) le pretese di presentare il Vaticano II come un evento i cui protagonisti sarebbero i “periti” e l’esito finale sarebbe il definitivo prevalere nella Chiesa di un’ideologia (quella dei teologi progressisti) nei confronti di un’altra (quella dei teologi tradizionalisti). È in base a questa abusiva interpretazione teologica che il Concilio viene esaltato come la manifestazione della “creatività dogmatica” di una fantomatica “Chiesa dal basso” che, poi, paradossalmente, ha come propri esponenti dei veri e propri “principi della Chiesa” (come i cardinali Martini e Ravasi), gli autori della più astrusa e cervellotica teologia filo-hegeliana e filo-heideggeriana, i più potenti gruppi di potere teologico-politico all’interno della comunità ecclesiale (come la Scuola di Bologna e le Edizioni San Paolo, le Edizioni Dehoniane, la Cittadella Editrice), che elevano al rango di “profeti” personaggi ambigui come Giovanni Franzoni ed Enzo Bianchi. È anche in base a questa abusiva interpretazione teologica che il Concilio viene interpretato come un evento che ha provocato una “rottura”, una sostanziale “discontinuità” con la Tradizione dogmatica (si noti che “discontinuità” e “rottura” sono i termini precisi con i quali papa Benedetto XVI ha stigmatizzato questi errori teologici nel celebre discorso alla Curia romana il 22 dicembre 2005).

Infine, è ancora in base a questa abusiva interpretazione teologica che il Concilio Vaticano II viene presentato nella Chiesa come un insieme di norme (che vengono definite “pastorali” e “dottrinali” ma in realtà sono solo ideologiche) alle quali dovrebbero essere “fedeli”, non solo tutti i vescovi della Terra ma anche e soprattutto i pontefici romani, pena l’essere additati all’opinione pubblica ecclesiale ed extra-ecclesiale come esponenti del potere ecclesiastico che resiste alla rivoluzione conciliare per tema di perdere i propri privilegi, quando addirittura non vengono vituperati come “traditori della Chiesa”, “infedeli al Concilio”, “affossatori del rinnovamento ecclesiale” eccetera. Viene così a scomparire l’unico criterio autenticamente teologico riguardante l’interpretazione del Concilio, quello che parte dalla premessa dogmatica per cui un atto del magistero costituisce un insegnamento autorevole, rivolto a tutto il Popolo di Dio, con l’autorità e la forza soprannaturale del carisma proprio del munus docendi conferito da Cristo stesso agli Apostoli, ossia la “infallibilitas in docendo. Ogni atto del Magistero, essendo rivolto a tutti i cattolici in ordine alla conoscenza certa della fede che salva, contiene necessariamente un “nucleo” dottrinale e disciplinare accessibile a tutti e che pertanto non abbisogna di particolari ermeneutiche; se poi si rilevano storicamente anche elementi che possono aver bisogno di una ulteriore chiarificazione ermeneutica, nel quale caso la prima e fondamentale istanza è il Magistero stesso, nel senso che a esso spetta l’interpretazione autorevole del Concilio, ove occorra.

5) Il termine “ermeneutica”, usato anche dal papa Benedetto XVI per parlare della retta interpretazione della dottrina del Vaticano II, va inteso nel senso primario e tradizionale di “interpretazione” di un messaggio e/o di un testo scritto; non ha dunque alcuna giustificazione teologica l’uso (e l’abuso) di questo termine nel suo senso derivato e opinabile, che fa riferimento a una scuola filosofica ? quella di Hans-Georg Gadamer e di Gianni Vattimo ? i cui presupposti gnoseologici sono il soggettivismo e lo storicismo, e i cui esiti speculativi sono caratterizzati da un sostanziale relativismo.

A conclusione di questo discorso, e applicando alla pubblicistica sul Vaticano II le precisazioni concettuali che sono andato esponendo, si deve riconoscere che la crisi della Chiesa cattolica sta proprio nel fatto che talune posizioni ideologiche – che dovrebbero essere mantenute come mere ipotesi di interpretazione del dogma – sono invece presentate come l’unica maniera di intendere e di vivere la fede nelle circostanze storiche che la Chiesa oggi si trova ad affrontare. Così facendo, talune posizioni si configurano proprio come eresia, almeno materialmente, in quanto contengono affermazioni che sono oggettivamente contrarie alla fede della Chiesa, come quando si dice che il Vaticano II ha insegnato una dottrina dogmatica e morale difforme o addirittura contraria alla Tradizione, ossia in formale contraddizione con quanto insegnato dai precedenti concili ecumenici e dal magistero ordinario dei pontefici romani.


È la tesi che – pur da punti di vista opposti – sostengono sia gli estremisti dell’ala progressista come gli estremisti dell’ala conservatrice. I primi (i progressisti più radicali) articolano questa tesi presentando la dottrina del Concilio come una “nuova coscienza” sorta all’interno della Chiesa ad opera di teologi e “profeti” che sono stati capaci di farsi comprendere e rappresentare ufficialmente dai padri conciliari – il che contraddice la verità dogmatica sull’autorità dottrinale di un concilio ecumenico in quanto atto del magistero ecclesiastico che non può essere dettato o legittimato “dal basso”; i secondi (i conservatori o tradizionalisti più intransigenti) articolano questa medesima tesi sostenendo che alcune dottrine (a cominciare da quella riguardante la libertà religiosa) e alcuni orientamenti pastorali (l’ecumenismo e il dialogo con i non cristiani, soprattutto con gli ebrei) del Concilio costituiscono l’abbandono, da parte dei padri conciliari (incapaci di discernimento nei confronti delle teorie teologiche nuove che venivano loro proposte), della dottrina e della prassi che sempre prima di allora la Chiesa aveva mantenuto – il che contraddice la verità dogmatica sull’autorità dottrinale di un concilio ecumenico in quanto atto del magistero ecclesiastico che partecipa in qualche modo dell’infallibilità e quindi non può essere formalmente in errore in rebus fidei et morum, a meno che tale atto del magistero ecclesiastico non risultasse illegittimo, ossia che non sia stato convocato, presieduto e ratificato dal Romano Pontefice e non si sia svolto secondo le relative norme canoniche, cosa che per il Vaticano II non si può certamente asserire.

Altrettanto erronea è la tesi di chi va dicendo che il Vaticano II non ha insegnato alcuna dottrina dogmatica e morale, ma ha impostato la pastorale della Chiesa esclusivamente sulla base di esigenze di carità universale e di servizio all’uomo, il che comporta l’abbandono di ogni dogmatismo e di ogni condanna dottrinale da parte dell’autorità ecclesiastica. Questa interpretazione, che per certi teologi dovrebbe esprimere la vera natura (“pastorale”) e il vero “spirito” del Vaticano II, è illegittima, perché contraddice gli stessi testi conciliari; invano coloro che la difendono fanno ricorso (retoricamente, non certo scientificamente) all’autorità del papa Giovanni XXIII, visto che il suo discorso di indizione del Concilio, Gaudet mater Ecclesia, dice proprio il contrario e insiste sul compito che l’assise conciliare si attribuiva formalmente, che non era quello di mettere da parte l’insegnamento della dottrina cristiana tradizionale bensì quello di rendere più pastoralmente efficace questo insegnamento nelle circostanze storiche nelle quali la Chiesa si trovava ad operare.

E il suo immediato successore, il papa Paolo VI, ebbe a dire poco dopo la conclusione del Vaticano II: «L’apologia che gli autori eterodossi di moda fanno di Cristo si riduce ad ammettere in Lui “un uomo particolarmente buono”, “l’uomo per gli altri”, e così via, applicando a questa interpretazione di Cristo un criterio, diventato decisivo e dispotico, quello della capacità moderna a capirlo, ad avvicinarlo, a definirlo. Lo si misura col metro umano, con un dogmatismo soggettivo; e alla fine con uno scopo, seppur buono, ma utilitario, lo si accetta per quello che Cristo oggi può servire, uno scopo umanitario e sociologico» (Udienza Generale del 18 dicembre 1968).

Ecco dunque il giusto criterio di fede con il quale si deve orientare la coscienza dei fedeli quando si fa riferimento al Vaticano II: esso è un atto del Magistero che interessa la vita di fede dei cristiani per i suoi contenuti dottrinali e disciplinari, la cui retta interpretazione ? valida per tutti e non opinabile ? è fornita dal Magistero stesso, ogni qual volta la natura dei documenti stessi o le diverse circostanze storiche lo richiedano. Questa ermeneutica autorevole e pastoralmente necessaria, in effetti, non è mai mancata in questi cinquant’anni (prima con Paolo VI, poi con Giovanni Paolo II e oggi con Benedetto XVI). Al di fuori di questi “punti fermi”, tutto ciò che si presenta come ulteriore interpretazione va preso non come materia di fede o di obbedienza ecclesiale, ma come opinione privata, liberamente condivisibile, a patto che resti compatibile con quanto la Chiesa ha già sufficientemente chiarito, e a patto anche che nessuna opinione si presenti come l’unica verità che i credenti debbano accogliere. Il conflitto delle interpretazioni (opinabili) non deve ingenerare confusione dottrinale né deve incrinare l’unità della fede e l’unione nella carità di tutti i cattolici. Unità e unione che richiedono che nella coscienza dei fedeli resti sempre chiaro che non c’è nella Chiesa se non una sola fede e un solo Buon pastore: il quale non solo ci ha messi in guardia contro i falsi profeti e i cattivi maestri, ma ci ha dato anche il criterio sicuro per il retto discernimento.