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sexta-feira, 21 de março de 2014

A grande dívida - por Nuno Serras Pereira



21. 03. 2014

Portugal tem uma dívida muito maior do que aquela de que se fala habitualmente. E é de justiça que tome consciência disso. Mais ainda, somente aproveitará e se recomporá se a reconhecer, agradecer e corresponder a quem tanto fez por nós.

Deus suscitou entre nós um generoso guerreiro que, como S. Paulo, combateu o bom combate – um valente, um bravo, cheio de Fé e de audácia – com uma inteligência perspicaz, uma capacidade de liderança singular e uma habilidade organizadora exímia. Exemplar na luta pela Justiça, um modelo de Caridade e de Misericórdia. Não só cuidou dos feridos como intrepidamente, na linha da frente, se opunha aos exércitos do Maligno para que não fizessem mais vítimas.

Num tempo em que tantíssimos poderosos se têm empenhado feroz e encarniçadamente contra a vida, o matrimónio, a família, a liberdade de educação, o cristianismo (e outros tantos covardes ou indiferentes se demitem da sua humanidade e da sua Fé), raros, se é que alguém, como ele se entregou com tamanha generosidade e competência à defesa, consolidação e promoção destes princípios inegociáveis que são os fundamentos do Bem-comum, da sociedade e da política, no seu sentido mais nobre.

Deus que tanto lhe deu para acudir a tantos não o poupou, como a Seu Filho, à Cruz. Assim como durante a maior parte da sua vida o fez participante dos Mistérios da Sua vida pública, nos últimos tempos quis fazê-lo participante da Sua Paixão em favor da nossa Salvação. Nestes tempos de grande configuração ao Crucificado poderíamos aplicar-lhe, analogicamente, o que o P. António Vieira disse de Cristo crucificado: “Nunca fez tanto, como quando nada fez”. 

Tenho para mim, sem a pretensão de me antecipar ao juízo da Igreja, que o Fernando Castro, que Deus ontem chamou a Si, participa já da Sua Glória; e que com a sua intercessão nos fortalecerá para continuarmos a missão que com tanta bondade e verdade desempenhou.

Deus compadecido das nossas misérias deixou-nos a Leonor (das Dores), sua mulher, e uma trezena de filhos para nos continuar a favorecer com as Suas Graças. À honra e glória de Cristo. Ámen.

sábado, 12 de outubro de 2013

Il fondatore de “young gay America” rinnega il suo passato omosessuale: Capii che l'omosessualità impedisce di trovare la propria vera identità: è per questo che i rapporti gay non sono soddisfacenti - di Michael Glatze

In BB

All'omosessualità sono arrivato facilmente, perché ero già fragile. Mia madre è morta quando avevo 19 anni. Mio padre quando ne avevo 13. Giovanissimo, ero già confuso sulla mia identità e i miei sentimenti. La confusione che provavo riguardo i miei "desideri" e l'attrazione che sentivo per i ragazzi, ha fatto si che già a 14 anni mi sentissi parte della categoria "gay". A 20 anni, mi dichiarai gay con tutti quelli che mi conoscevano. A 22 anni, divenni editore della prima rivista per giovani gay. Il contenuto fotografico rasentava la pornografia, ma ritenevo di poterlo utilizzare come piattaforma per ottenere risultati sempre maggiori. Infatti arrivò Young Gay America. Questa rivista aspirava a riempire il vuoto creato dalla precedente rivista per la quale avevo lavorato; doveva essere qualcosa di non troppo pornografico, mirata al pubblico di giovani gay americani. Young Gay America decollò. Il pubblico gay accolse calorosamente Young Gay America.

La rivista ricevette premi, riconoscimenti, rispettabilità e grandi onori, incluso il National Role Model Award da parte di Equality Forum, la più importante organizzazione gay, premio che fu consegnato l'anno seguente al Primo Ministro Canadese Jean Chrétien. E tantissime apparizioni nei media, da PBS a Seattle Times, da MSNBC alla copertina di Time magazine.

Ho prodotto, con Equality Forum e con l'aiuto di società affiliate alla PBS, il primo importante documentario che affronta il tema del suicidio di adolescenti gay "Jim In Bold"; é stato mostrato in tutto il mondo e ha ricevuto numerosi premi "best in festival".
 
Young Gay America ha organizzato una mostra fotografica, ricca di foto e storie di giovani gay di tutto il continente Nord americano; la mostra ha fatto il giro dell'Europa, del Canada e di parte degli Stati Uniti.
 
Nel 2004 Young Gay America ha lanciato la rivista YGA, che aveva la pretesa di essere il "gemello virtuoso" di altre riviste rivolte ai giovani gay. Dico "gemello virtuoso" ma la verità é che YGA era dannosa quanto qualsiasi altra rivista, era solo più "rispettabile" perché non manifestamente pornografica.
 
Mi ci vollero quasi 16 anni per scoprire che l'omosessualità non è esattamente "virtuosa". Fu difficile fare chiarezza dentro di me riguardo i miei sentimenti sulla questione, dato che la mia vita ne era completamente assorbita.
 
L'omosessualità è per sua natura pornografica. E' distruttiva e crea confusione nelle menti dei giovani, proprio in quel periodo in cui l'identità sessuale è ancora in via di definizione. Ad ogni modo, non mi resi conto di ciò fino a quando non raggiunsi i 30 anni.
 
La rivista YGA esaurì il suo primo numero in diverse città del Nord America. Il sostegno alla rivista era enorme; scuole, gruppi di genitori, biblioteche e associazioni governative, tutti sembravano volerla. Sfruttava il "filone" della "accettazione e promozione" dell'omosessualità, ed era considerata una guida. Nel 2005 mi fu chiesto di tenere un discorso al prestigioso JFK Jr. Forum della Harvard's Kennedy School of Government.
 
Fu quando vidi una videoregistrazione di quella "performance", che iniziai a dubitare seriamente di ciò che stavo facendo della mia vita e della mia influenza.
 
Non conoscendo nessuno con cui poter parlare dei miei dubbi ed interrogativi, mi rivolsi a Dio, grazie anche ad un debilitante attacco di crampi intestinali causato dalle mie abitudini di vita.
 
Presto iniziai a comprendere cose che non avevo mai immaginato potessero essere reali, come il fatto che ero il leader di un movimento di peccato e corruzione. Questa frase può dare l'impressione che la mia scoperta si sia basata su un dogma, ma decisamente non é stato così.
 
Sono giunto al questa conclusione da solo.
 
Mi divenne chiaro, mentre ci riflettevo seriamente – e pregavo – che l'omosessualità ci impedisce di trovare la nostra vera identità. Non possiamo vedere la verità quando siamo accecati dall'omosessualità.
 
Crediamo, influenzati dall'omosessualità, che la lussuria non solo sia accettabile ma che sia anche una virtù. Ma non esiste "desiderio" omosessuale che sia separabile dalla lussuria.
Non volevo accettare questa verità e all'inizio ho cercato in tutti i modi di ignorarla. Ero certo, a causa della cultura e dell'influenza dei leader gay – di fare la cosa giusta.
 
D'altra parte mi sentivo spinto a cercare la verità perché avvertivo che dentro di me c'era qualcosa che non andava. Gesù Cristo ci consiglia ripetutamente di non confidare in nessuno tranne che in lui. Ed io l'ho fatto, sapendo che il Regno di Dio risiede nel cuore e nella mente di ogni uomo.
 
Ciò che ho scoperto e appreso sull'omosessualità é sorprendente.
 
Divenne chiarissimo che avrei fatto del male o rischiato di fare del male ad altre persone se avessi continuato con quella vita.
 
Mi accorsi di avere desideri omosessuali alle scuole medie quando per la prima volta iniziai a prestare attenzione ad altri ragazzi.
 
Cominciai a guarire quando per la prima volta iniziai a prestare attenzione a me stesso.
Ogni volta che provavo la tentazione di cedere alla lussuria, ne prendevo coscienza, mi fermavo e mi occupavo di essa. La chiamavo con il suo nome e poi lasciavo che si dissolvesse da sola con l'aiuto della preghiera.
 
Esiste un'enorme e vitale differenza tra ammirazione superficiale – per se stessi o per altri – e ammirazione integrale. Quando amiamo pienamente noi stessi, cessiamo di essere schiavi di desideri lussuriosi, dell'apprezzamento degli altri o di soddisfazioni fisiche. I nostri impulsi sessuali diventano intrinseci alla nostra essenza, liberi da confusioni nevrotiche.
 
L'omosessualità ci consente di evitare di scavare in profondità, oltre la superficialità e le attrazioni ispirate dalla concupiscenza – e continuerà ad essere così fino a quando avrà l' "approvazione" della Legge. Il risultato è che tantissimi perdono l'opportunità di conoscere il loro vero io, l'io fatto ad immagine di Cristo, donatoci da Dio.
 
L'omosessualità iniziò per me all'età di 13 anni e terminò quando riuscii ad isolarmi da influenze esterne e a concentrarmi intensamente sulla verità interiore – quando scoprii, all'età di 30 anni, le profondità del mio io donatomi da Dio.
 
Dio è considerato un nemico da molte persone dominate dall'omosessualità o da altri comportamenti concupiscenti, perché Egli rammenta loro chi e che cosa dovrebbero veramente essere. Queste persone preferiscono rimanere "beatamente ignare", mettendo a tacere la verità. E lo fanno condannando ed apostrofando coloro che la dichiarano con parole come "razzisti", "insensibili", "malvagi" e "discriminatori".
 
Guarire dalle ferite causate dall'omosessualità non è facile. Il sostegno è scarso e poco evidente. Il poco che c'è viene infamato, ridicolizzato, fatto tacere con la retorica o reso illegale tramite l'alterazione di norme legislative. Per trovarlo ho dovuto separare il mio sentimento di imbarazzo e le "voci" di disapprovazione da tutto ciò che avevo imparato. Parte dell'agenda omosessuale consiste nel convincere le persone a smettere di farsi domande sulla conversione e, tanto meno, sulla la sua efficacia.
 
"Uscire" dall'influenza della mentalità omosessuale è stata per me la cosa più liberatoria, sorprendente e bella che abbai mai sperimentato nella mia intera vita.
 
La lussuria ci sottrae ai nostri corpi per "fissare" il nostro spirito alla forma fisica di qualcun altro. Ecco perché i rapporti sessuali omosessuali – e qualsiasi altra forma di attività sessuale basata sulla lussuria – non è mai soddisfacente: é un processo nevrotico piuttosto che naturale, normale. La normalità è la normalità – ed è stata chiamata così perché c'è una ragione.
 
Anormale significa "ciò che ci danneggia, che danneggia la normalità". L'omosessualità ci toglie al nostro stato di normalità, al nostro di sentirci perfettamente uniti in tutte le cose, e ci divide, facendoci tormentare dal desiderio per un obiettivo fisico esterno che non potremo mai possedere.
 
Le persone omosessuali – come tutte le persone – bramano il mitico "vero amore". Il vero amore esiste davvero, ma arriva soltanto quando non abbiamo nulla che ci impedisce di lasciarlo fuoriuscire da dentro in tutto il suo splendore.
 
Non possiamo essere pienamente noi stessi se le nostre menti sono intrappolate in una spirale, in una mentalità di gruppo edificata su una protetta, autorizzata e celebrata lussuria.
Dio mi è venuto incontro quando mi sentivo confuso, perso, solo, spaventato e sconvolto. Mi ha detto – attraverso la preghiera – che non avevo nulla da temere e che ero a casa. Avevo solo bisogno di fare un po' di pulizia nella mia mente.
 
Credo che tutti, essenzialmente, conoscano la verità. Credo che questo sia il motivo per cui il Cristianesimo spaventa così tanto le persone. Perché rammenta loro la coscienza, che tutti noi possediamo.
 
La coscienza ci dice cosa sia giusto o sbagliato ed è una guida che ci permette di crescere e diventare più forti e più liberi come esseri umani. Uscire dal peccato e dall'ignoranza è sempre possibile, ma la prima cosa che tutti devono fare è abbandonare le mentalità che dividono e conquistare l'amore per l'umanità.
 
La verità sessuale può essere trovata solo se si è disposti ad accettare che la nostra cultura sanzioni i comportamenti che nuocciono alla vita. Il senso di colpa non è una ragione sufficiente per evitare le questioni difficili.
 
L'omosessualità si è presa quasi 15 anni della mia vita, una vita trascorsa tra compromessi e menzogne, perpetuate attraverso i media nazionali mirati ai giovani.
Nei Paesi Europei l'omosessualità è considerata così normale che i bambini delle scuole elementari pubbliche vengono forniti di libri dedicati ai ragazzi "gay" come letture obbligatorie.
 
La Polonia, che conosce fin troppo bene la distruzione del suo popolo ad opera di influenze esterne, sta tentando coraggiosamente di impedire all'Unione Europea di indottrinare i suoi figli con propaganda omosessuale. In riposta, l'Unione Europea ha definito "ripugnante" il Primo Ministro della Polonia.
 
Io sono stato ripugnante per parecchio tempo; sto ancora cercando di metabolizzare tutte le mie colpe.
 
In qualità di leader nel movimento per i "diritti dei gay", mi è stata data molte volte l'opportunità di parlare in pubblico. Se potessi cancellare alcune delle cose che ho detto, lo farei. Adesso so che l'omosessualità è lussuria e pornografia insieme. Non mi lascerò mai convincere del contrario, non importa quanto sciolte possano essere le loro lingue o quanto triste la loro storia. Io l'ho vissuta. Io conosco la verità.
 
Se Dio ci ha rivelato la verità c'è un motivo. Essa esiste affinché possiamo essere noi stessi. Esiste affinché possiamo condividere quel perfetto io con il mondo, per rendere perfetto il mondo. Questi non sono progetti fantasiosi o ideali astrusi: è la Verità.
 
Non ci si può purificare dai peccati del mondo in un istante, ma succederà, se non ci opponiamo orgogliosamente a questo processo. Dio alla fine vince sempre, in caso non lo sappiate.
 
(traduzione a cura di Patrizia Battisti)

Fonte: NARTH, 23 ottobre 2012

sexta-feira, 27 de setembro de 2013

Opiniões - por Nuno Serras Pereira



27. 09. 2013

O Concílio ecuménico Vaticano II ensina que a Igreja é Mestra da verdade (DH 14), que esta lhe foi confiada na sua plenitude (UR 3), que é sua coluna e fundamento (LG 8) e instrumento de Cristo para a comunicar (LG 8).


Agora diz-se que verdades, universais e imutáveis, são afinal opiniões. Eu, como filho da Igreja, tratando-se de meros pareceres posso partilhar, ou não, delas. De facto quem me garante que a Igreja não mudará de opinião?

quarta-feira, 11 de setembro de 2013

Libertad, verdad y ley moral - por Enrique Molina

In Almudi 

El problema de fondo que va a ser estudiado, referente a los números de la sección I del capítulo II de la encíclica ‘Veritatis splendor’, está constituido por las concepciones que de uno u otro modo acaban por desvincular la libertad de la verdad, por entender erróneamente la una y la otra

Índice

a) El sentido cristiano de la libertad. Vínculos de la libertad a la verdad.
b) La ley moral tiene su origen último en Dios. Autonomía y heteronomía morales.
c) La naturaleza humana, y en concreto el cuerpo humano, tiene un significado moral. La comprensión cristiana de la ley natural.
d) Universalidad e inmutabilidad de las normas morales naturales.
      El tema que trataremos aquí es el contenido de la sección I del capítulo II de la encíclica Veritatis splendor, titulada “La libertad y la ley”, que se dirige a comentar críticamente aquellas interpretaciones de la doctrina moral cristiana sobre la libertad humana, la ley moral y la relación entre ambas, que la desvirtúan de tal modo que no la hacen compatible con las verdades reveladas al respecto. Con ella comienza la tarea de discernimiento de la Iglesia sobre algunas tendencias de la teología moral actual (este es precisamente el subtítulo del capítulo II), tras haber puesto como referencia de juicio los contenidos esenciales de la revelación del Antiguo y del Nuevo Testamento sobre el comportamiento moral (n. 28).

a) El sentido cristiano de la libertad. Vinculación de la libertad a la verdad

      El problema de fondo que va a ser estudiado en estos números del documento está constituido por las concepciones que de uno u otro modo acaban por desvincular la libertad de la verdad, por entender erróneamente la una y la otra.

      Los nn. 28 a 31 presentan el objetivo que se pretende: “enunciar los principios necesarios para el discernimiento de lo que es contrario a la «doctrina sana», recordando aquellos elementos de la enseñanza moral de la Iglesia que hoy parecen particularmente expuestos al error, a la ambigüedad o al olvido” (n. 30).

      Los nn. 31 a 34 recogen muy brevemente las interpretaciones de la libertad que no son compatibles con la verdad sobre el hombre como criatura a imagen de Dios, y que han de ser corregidas a la luz de la fe. Dichas interpretaciones se agrupan en dos grandes tipos: a) considerar la libertad como un absoluto, de modo que se constituye en fuente de los valores, y b)  poner radicalmente en duda la posibilidad de una verdadera libertad en el hombre, siguiendo las conclusiones de las ciencias humanas. Estas posturas conducen, respectivamente: a) a una concepción radicalmente subjetivista del juicio moral (cada conciencia determina autónomamente lo que es bueno y lo que es malo), y b) a una concepción relativista de la moral, que la hace depender de los hábitos y costumbres del tiempo presente.

      Frente a estas posturas se sitúa la doctrina católica sobre la libertad recordada en el Concilio Vaticano II, según la cual sólo se puede hablar de libertad verdadera cuando se entiende con ella la capacidad del hombre de buscar sin coacciones la verdad, y, adhiriéndose a ella, llegar libremente a la plena y feliz perfección (cf. Gaudium et spes, n. 11). Así, si existe libertad para emprender el propio camino de búsqueda de la verdad, existe también el deber ineludible de buscar la verdad y seguirla una vez conocida. La relación esencial de la libertad a la verdad forma parte irrenunciable de la revelación sobre el hombre (VS cita aquí Jn 8, 32: “La verdad os hará libres”).

      A partir de aquí, se afrontarán las siguientes cuestiones:

— el origen divino de la ley moral natural frente a algunas concepciones erróneas de la autonomía moral (nn. 35-45);
— el lugar del cuerpo en las cuestiones de la ley natural (nn. 46-50);
— la universalidad e inmutabilidad de las exigencias éticas fundamentales, y la existencia de preceptos éticos particulares que obligan semper et pro semper (nn. 51-53).

      Aun a riesgo de incurrir en un cierto reductivismo, a efectos de no hacer excesivamente larga esta exposición, se puede decir que los problemas fundamentales abordados y aclarados por la encíclica en esta sección son los siguientes:

      1) las normas morales que han de guiar la conducta humana no proceden de la sola libertad, sino primera y fundamentalmente de la Sabiduría divina, sin que esto lleve consigo para el hombre una heteronomía moral;

      2) la naturaleza humana –y, en concreto, el cuerpo humano- tiene un significado moral que se ve recogido y reflejado en la ley moral, sin que esto suponga en modo alguno un fisicismo o biologismo moral;

      3) las normas morales que emanan de una recta comprensión de la libertad y de la naturaleza humanas llevan en sí las exigencias de universalidad e inmutabilidad, sin que esto se oponga al carácter histórico que reviste la existencia y vida misma del hombre.

      A continuación se comentan brevemente estos puntos centrales.

b) La ley moral tiene su origen último en Dios. Autonomía y heteronomía morales

      La doctrina aquí enjuiciada es la que concede a la libertad una total autonomía (independencia de otras fuentes o instancias) para determinar las normas que han de regular la propia conducta moral.

      El proceso que cristaliza en este tipo de posturas es enormemente complejo y está ligado al transcurrir del pensamiento ético contemporáneo. Podría decirse que dicho proceso sigue un iter que comienza con la ruptura entre la ética normativa y la cuestión del sentido de la vida. Esta ruptura consiste en que se piensa que no es posible dar una respuesta única, objetiva y universal a la pregunta sobre el bien de la vida humana tomada como un todo. Es decir, la razón moral humana, al no ser considerada capaz de encontrar una solución a esta cuestión (la cuestión del sentido objetivo de la vida humana), no puede basarse en una verdad sobre el hombre que sea la referencia firme para determinar las normas morales que han de regir su conducta de modo que llegue a realizar la plenitud de sentido de su vida. En consecuencia, la función de la razón que tiene por objeto captar el sentido del ser y existir humano, y regular, en consecuencia, la conducta del hombre en orden a realizar esa plenitud de sentido, queda poco menos que silenciada y sustituida por aquella otra función de la razón que tiene por objeto descubrir al hombre los modos de sobrevivir, de orientarse en el propio ambiente y de satisfacer sus necesidades básicas. Es lo que se ha llamado el predominio de la “razón técnica” o instrumental o tecnológica sobre la “razón sapiencial” o metafísica o moral. Por este motivo, los intereses primordiales del hombre contemporáneo son más descubrir los modos de dominar y disfrutar los recursos de la naturaleza en orden a sobrevivir, “tener”, “dominar”, etc., que descubrir la verdad sobre el sentido profundo de la vida[1].

      A consecuencia de esto, el discurso normativo (el discernimiento de lo que es lícito y de lo que no lo es) se separa de lo que se ha venido a llamar metaética, es decir, de la búsqueda del pleno sentido de la vida.

      Este modo de pensar, caracterizado por la ruptura recién mencionada, influirá en la teología moral católica. Algunos autores separarán la cuestión de sentido de la cuestión normativa, o, lo que es lo mismo, el plano salvífico (orden de la salvación o trascendental) del plano normativo (orden mundano), de tal modo que el primero representaría el contexto en que se desenvuelve el segundo pero sin determinarlo, es decir, concediendo a la ética normativa u orden intramundano autonomía frente al orden trascendental. Las normas morales del orden trascendental tendrían carácter exhortativo u orientativo, pero no normativo concreto; son llamadas trascendentales. En cambio, pertenecerían al plano intramundano las normas con contenido concreto, que son dictadas por la razón “en situación”, es decir, en función de las circunstancias histórico-culturales y personales del sujeto agente; son llamadas normas categoriales. Las primeras tienen a Dios por autor; las segundas, al hombre, dando lugar a una ética humana, válida para todos. Es el planteamiento que queda descrito en los nn. 36 ss. de la encíclica. Consecuencias suyas serán, de una parte, la negación de la existencia en la revelación divina de un contenido moral específico y determinado, universalmente válido y permanente. De otra, la negación de la competencia del Magisterio como instancia con autoridad y garantía de discernimiento en las cuestiones morales concretas, sólo ligadas a la razón humana y a la búsqueda del “bien humano”, no de la salvación.

      Con esta concepción de la autonomía moral no se pretendía contraponer frontalmente la libertad humana a la ley divina ni negar la existencia de un fundamento religioso último a la moral. Todo eso vendría dado por el plano religioso o salvífico. Se quería favorecer el diálogo con la cultura moderna, hacer patente el carácter racional de la ley moral, remarcar el carácter interior de la ley natural y de la obligación que engendra, etc. Pero se llegó a extremos que son doctrinalmente inaceptables[2].

      El punto clave erróneo de toda esta doctrina sobre la autonomía moral está en conceder a la razón en el plano intramundano una autonomía en la determinación de las normas morales que no es real. Es verdad que corresponde a la razón conocer y aplicar el orden moral, pero no es ella misma la última instancia. Por ser participación de la Sabiduría divina, ha de guardar siempre una referencia a “una razón más alta” (n. 44), de la que en último término procede y depende. Precisamente por esto la “voz de la razón humana” tiene fuerza de ley: por ser la voz e intérprete de una razón más alta, la de Dios (cf. n. 44). Por lo tanto, se puede hablar con verdad de una “justa autonomía de la razón” humana (cf. n. 40), consistente en la actividad y espontaneidad de la misma cuando busca y aplica la norma moral: la vida moral exige creatividad e ingeniosidad para descubrir los muy diversos caminos que pueden conducir a la realización del bien. Es decir, es conforme a la verdad afirmar que el hombre posee en sí mismo la propia ley recibida del Creador, y la razón humana ha de “funcionar” según sus propias reglas para descubrirla y aplicarla, pero no lo sería sostener que eso significa la creación o capacidad de creación de las normas y valores.

      Dos detalles más para terminar con este punto.

      1) No cabe introducir una oposición entre libertad y ley moral cuando se entiende la autonomía y el papel de la razón tal y como ha sido explicado: la ley divina es, por así decirlo, explicitación de lo que verdaderamente hay en el interior del hombre, no simple mandato arbitrario. La obediencia a Dios no puede suponer heteronomía, pues su voluntad no es nunca contraria a la verdadera libertad. Lo que hay, más que heteronomía o autonomía, es una teonomía participada: la participación de la razón y voluntad humanas por la obediencia en la Sabiduría y Providencia de Dios, haciéndose así el hombre providente para sí mismo.

      2) A la vista de lo explicado resulta patente que la ley natural no se llama natural por relación a las reglas que guían los procesos naturales de los seres irracionales, sino porque la razón que la promulga es propia de la naturaleza humana (cf. n. 42, donde se cita el n. 1955 del Catecismo de la Iglesia Católica).

c) La naturaleza humana, y en concreto el cuerpo humano, tiene un significado moral. La comprensión cristiana de la ley natural

      El segundo punto fuerte en que la encíclica se detiene al estudiar la relación entre libertad y ley es precisamente el del significado moral intrínseco de la naturaleza humana, y, en concreto, del cuerpo humano y sus procesos.

      Se trata de salir al paso de las frecuentes acusaciones de fisicismo, biologismo, etc. de que hay sido objeto la doctrina de la Iglesia sobre la ley natural, una vez que han sido sintéticamente expuestas las diversas posturas que separan radicalmente el mundo de la libertad del mundo de la naturaleza.

      El fondo de este problema vuelve a ser el que señalábamos antes, al hablar del predominio de la razón tecnológica o científica sobre la metafísica, sapiencial o ética. Si se piensa que la naturaleza sólo puede ser conocida “científicamente” -y esto supone prescindir de antemano a toda finalización intrínseca o “sentido” de la misma-, se la enfrenta con la libertad, apareciendo únicamente como un objeto a su servicio. Es la libertad la que da el sentido o significado a la naturaleza[3].

      Evidentemente, una concepción así de las cosas hace imposible la obtención desde la naturaleza humana de referentes para la conducta personal.

      En concreto, por lo que se refiere al cuerpo humano y sus procesos, se piensa que el significado de los actos humanos viene dado por la libertad, no por el cuerpo humano mismo y sus procesos. Y se apoya este modo de ver en el hacer mismo de Dios, que  en la interpretación de estos autores- deja al hombre en manos de su libre albedrío, es decir, deja que sea el hombre quien dé forma y significado a su vida (cf. nn. 46 y 47).

      El Papa rechaza este modo de pensar desde la antropología, la Sagrada Escritura y la Tradición de la Iglesia.

      Resumiendo, se puede decir que el argumento central que se emplea es mostrar que semejante doctrina introduce en el ser humano un dualismo (libertad-naturaleza) que es contrario a la razón y a la Revelación: rompe la unidad esencial del ser humano.
      En definitiva, el Papa afirma que tanto la Revelación como la filosofía muestran la unidad intrínseca del ser humano y, por tanto, la existencia de significado moral de los procesos corporales.

      Por lo que se refiere a la Revelación, se recogen los textos de San Pablo que enseñan de modo particularmente claro que el cuerpo y sus comportamientos tienen un significado moral, de modo que la voluntaria aceptación de algunos comportamientos específicos impide la salvación: cuerpo y alma se pierden o se salvan juntos: son inseparables y están íntimamente unidos en una única realidad (cf. n. 49).

      Desde la perspectiva filosófica, se parte de que las obras son de la persona, que integra en sí una dimensión espiritual y una dimensión corporal. La persona descubre con su razón en los dinamismos de su cuerpo un signo de lo que ha de ser su plenitud. Y, por tanto, encuentra que algunos bienes a los que la persona se siente naturalmente atraída tienen un valor moral específico. Así, ya que la persona no es pura libertad, sino que comporta una estructura espiritual y corpórea determinada, el respeto a ella misma lleva intrínsecamente consigo el respeto de esos bienes fundamentales. Lo contrario sería un relativismo arbitrario (cf. n. 48).

      Por lo tanto, entender bien la ley natural exige percibir que se refiere a la naturaleza de la persona humana en la unidad de las inclinaciones espirituales y biológicas, abarcando tanto finalidades espirituales como corporales en su unidad. De ahí que no pueda ser entendida como una normativa “naturalística” o biológica, sino como un orden racional por el que se regulan la vida y los actos de la persona humana, también los que suponen uso y disposición del propio cuerpo. Con los límites de un juego de palabras, podría decirse que la ley natural es más racional que natural, si se reduce el significado de natural a material, corporal o biológico.

      Es interesante subrayar que el documento insiste a renglón seguido en que lo estrictamente corporal tiene relevancia moral por relación a la persona y a su realización auténtica, no por su misma constitución física. O lo que es lo mismo: “Sólo con referencia a la persona humana en su «totalidad unificada» se puede entender el significado específicamente humano del cuerpo” (n. 50). Dicho con otras palabras, se sostiene que la razón descubre en los procesos corporales un significado humano o moral que le permite prescribir o vetar determinados comportamientos por lo que estos suponen para la realización misma de la persona. No se está sosteniendo  como se ha interpretado a veces, y no siempre de buena fe  el respeto irreflexivo de todo proceso corporal por el hecho de que al estar presente en la naturaleza refleja la voluntad de Dios sobre la misma, y, por tanto, ha de ser respetado tal y como es; con semejante modo de pensar sería ilícito en último extremo, por ejemplo, afeitarse o cortarse el pelo.

d) Universalidad e inmutabilidad de las normas morales naturales
     
 Se trata ahora de salir al paso de las doctrinas que niegan esas propiedades por sostener una idea errónea de la historicidad que afecta al ser humano.

      No nos detendremos aquí porque, en el fondo, el argumento no puede ser otro que el clásico: la unidad y unicidad de la naturaleza humana en cualquier contexto histórico o cultural implica necesariamente la universalidad e inmutabilidad de las normas morales naturales.

      Únicamente deseamos señalar que el Papa argumenta con claridad que universalidad no significa uniformidad o constreñimiento de la espontaneidad que facilita encontrar los diversos modos de obrar bien (cf. n. 52), y que deja claro que la inmutabilidad afecta a las normas no a su formulación: hay que buscar en cada tiempo las formulaciones de las normas morales naturales más capaz de expresar en cada contexto cultural, la verdad que contienen (cf. n. 53).

*  *  *
     
 Al final de nuestro estudio no nos queda ya sino concluir sintéticamente todo lo desarrollado. A mi juicio esto se puede hacer muy brevemente del siguiente modo. En la doctrina cristiana la ley moral es, sin más, la expresión práctica de los puntos fundamentales de la verdad de lo que el hombre es y a lo que está destinado. Precisamente por eso, la verdad es siempre condición del ejercicio de la libertad o, lo que es lo mismo: ésta sólo es tal cuando se deja vincular por la ley, porque sólo entonces conduce a la criatura a su más completa plenitud. El que sigue la ley no sólo obedece a Dios, Creador y Señor del hombre, sino que  y sobre todo  se respeta a sí mismo dejándose educar y guiar por su Padre. De ninguna manera, en la tradición cristiana puede ser considerada la ley moral como la imposición arbitraria de un ser poderoso en cuyas manos caprichosas estaría nuestro destino; ni tampoco, en el extremo contrario, como una simple indicación de carácter orientativo sin poder normativo  que quedaría confiado a la sola razón del hombre concreto que vive en una situación particular . Más bien, la ley moral es, de algún modo, la revelación que Dios hace al hombre del hombre mismo, y que el hombre es capaz de reconocer como tal con la luz de su inteligencia elevada por la gracia. La ley es más luz que mandato.

      Permítaseme, por último, añadir, que este planteamiento facilita enormemente comprender que la plenitud de la vida cristiana no puede situarse en un simple cumplimiento de la letra de los mandamientos. Ese es sólo el principio, y un principio necesario, pero completamente insuficiente en la fe cristiana. La plenitud de vida está más allá; está al final del camino que tiene como punto de partida el cumplimiento reverente y agradecido de los mandamientos de Dios.

Enrique Molina
Universidad de Navarra



[1] Cfr. RODRIGUEZ LUÑO, A., La libertà e la legge nell’Enciclica “Veritatis splendor”, en “Veritatis splendor”. Atti del Convegno dei Pontifici Atenei Romani 29-30 ottobre 1993, Cittá del Vaticano, 1994, pp. 44-46.
[2] Basta ver para ello afirmaciones como la siguiente: “Né le opere corrette né quelle sbagliate comportano la salvezza o la dannazione. Le opere non determinano la bontà morale e la salvezza” (FUCHS, J., Etica cristiana in una società secolarizzata, Piemme, Roma 1984, p. 69).
[3] Cf. RODRIGUEZ LUÑO, A., o.c., p. 49.




sexta-feira, 26 de julho de 2013

What Is Religious Freedom? - by Robert P. George

In The Public Discourse 

In its fullest and most robust sense, religion is the human person’s being in right relation to the divine. All of us have a duty, in conscience, to seek the truth and to honor the freedom of all men and women everywhere to do the same.

When the US Congress passed the International Religious Freedom Act in 1998, it recognized that religious liberty and the freedom of conscience are in the front rank of the essential human rights whose protection, in every country, merits the solicitude of the United States in its foreign policy. Therefore, the United States Commission on International Religious Freedom, of which I became chair yesterday, was created by the act to monitor the state of these precious rights around the world.

But why is religious freedom so essential? Why does it merit such heightened concern by citizens and policymakers alike? In order to answer those questions, we should begin with a still more basic question. What is religion?

Religion as Right Relation to the Divine

In its fullest and most robust sense, religion is the human person’s being in right relation to the divine—the more-than-merely-human source or sources, if there be such, of meaning and value. In the perfect realization of the good of religion, one would achieve the relationship that the divine—say God himself, assuming for a moment the truth of monotheism—wishes us to have with Him.

Of course, different traditions of faith have different views of what constitutes religion in its fullest and most robust sense. There are different doctrines, different scriptures, different ideas of what is true about spiritual things and what it means to be in proper relationship to the more-than-merely-human source or sources of meaning and value that different traditions understand as divinity.

For my part, I believe that reason has a very large role to play for each of us in deciding where spiritual truth most robustly is to be found. And by reason here, I mean not only our capacity for practical reasoning and moral judgment, but also our capacities for understanding and evaluating claims of all sorts: logical, historical, scientific, and so forth. But one need not agree with me about this in order to affirm with me that there is a distinct human good of religion—a good that uniquely shapes one’s pursuit of and participation in all the aspects of our flourishing as human beings—and that one begins to realize and participate in this good from the moment one begins the quest to understand the more-than-merely-human sources of meaning and value and to live authentically by ordering one’s life in line with one’s best judgments of the truth in religious matters.

If I am right, then the existential raising of religious questions, the honest identification of answers, and the fulfilling of what one sincerely believes to be one’s duties in the light of those answers are all parts of the human good of religion. But if that is true, then respect for a person’s well-being, or more simply respect for the person, demands respect for his or her flourishing as a seeker of religious truth and as one who lives in line with his or her best judgments of what is true in spiritual matters. And that, in turn, requires respect for everyone’s liberty in the religious quest—the quest to understand religious truth and order one’s life in line with it.

Because faith of any type, including religious faith, cannot be authentic—it cannot be faith—unless it is free, respect for the person—that is to say, respect for his or her dignity as a free and rational creature—requires respect for his or her religious liberty. That is why it makes sense, from the point of view of reason, and not merely from the point of view of the revealed teaching of a particular faith—though many faiths proclaim the right to religious freedom on theological and not merely philosophical grounds—to understand religious freedom as a fundamental human right.

Since its establishment by Congress, the US Commission on International Religious Freedom has stood for religious freedom in its most robust sense. It has recognized that the right to religious freedom is far more than a mere “right to worship.” It is a right that pertains not only to what the believer does in the synagogue, church, or mosque, or in the home at mealtimes or before bed; it is the right to express one’s faith in the public as well as private sphere and to act on one’s religiously informed convictions about justice and the common good in carrying out the duties of citizenship. Moreover, the right to religious freedom by its very nature includes the right to leave a religious community whose convictions one no longer shares and the right to join a different community of faith, if that is where one’s conscience leads. And respect for the right strictly excludes the use of civil authority to punish or impose civic disabilities on those who leave a faith or change faiths.

From the perspective of any believer, the further away one gets from the truth of faith in all its dimensions, the less fulfillment is available. But that does not mean that even a primitive and superstition-laden faith is utterly devoid of value, or that there is no right to religious liberty for people who practice such a faith. Nor does it mean that atheists have no right to religious freedom. Respect for the good of religion requires that civil authority respect and nurture conditions in which people can engage in the sincere religious quest and live lives of authenticity reflecting their best judgments as to the truth of spiritual matters. To compel an atheist to perform acts that are premised on theistic beliefs that he cannot, in good conscience, share, is to deny him the fundamental bit of the good of religion that is his, namely, living with honesty and integrity in line with his best judgments about ultimate reality. Coercing him to perform religious acts does him no good, since faith really must be free, and coercion dishonors his dignity as a free and rational person.

Just Limits on the Freedom of Religion

Of course, there are limits to the freedom that must be respected for the sake of the good of religion and the dignity of the human person as a being whose integral fulfillment includes the spiritual quest and the ordering of one’s life in line with one’s best judgment as to what spiritual truth requires. Grave injustice can be committed by sincere people for the sake of religion. The presumption in favor of respecting liberty must be powerful and broad. But it is not unlimited.

Even the great end of getting right with God cannot justify a morally bad means, even for the sincere believer. I don’t doubt the sincerity of the Aztecs in practicing human sacrifice, or the sincerity of those in the history of various traditions of faith who used coercion and even torture in the cause of what they believed was religiously required. But these things are deeply wrong, and should not be tolerated in the name of religious freedom. To suppose otherwise is to back oneself into the awkward position of supposing that violations of religious freedom (and other injustices of equal gravity) must be respected for the sake of religious freedom.

Still, to overcome the powerful and broad presumption in favor of religious liberty, to be justified in requiring the believer to do something contrary to his faith or forbidding the believer to do something his conscience requires, political authority must meet a heavy burden.

What Is Conscience?

But conscience has burdens proper to itself as well. To understand the nature of conscience and the ground of its claim to freedom, we do well to turn to John Henry Newman, the great nineteenth-century English intellectual. Newman understood human beings as free and rational creatures—creatures whose freedom and rationality reflects their having been made in the very image and likeness of God.

Newman’s dedication to the rights of conscience is well known. Even long after his conversion from Anglicanism to Catholicism, he famously toasted “the Pope, yes, but conscience first,” as he put it in his Letter to the Duke of Norfolk (1875). Our obligation to follow conscience was, he insisted, in a profound sense primary and even overriding. Is there a duty to follow the teachings of the pope? Yes, to be sure. As a Catholic, he would affirm that with all his heart. If, however, a conflict were to arise, such that conscience (formed as best as one could form it) forbade one’s following the pope, well, it is the obligation of conscience that must prevail.

Many of our contemporaries will be tempted to see in this their own view of conscience—as an interior, self-liberating referral of grave moral questions to our “feelings” or untutored intuitions as “autonomous” beings. But Newman, the most powerful defender of freedom of conscience, held a view of conscience and freedom that could not be more deeply at odds with such a view. Let Newman himself state the difference:

Conscience has rights because it has duties; but in this age, with a large portion of the public, it is the very right and freedom of conscience to dispense with conscience. Conscience is a stern monitor, but in this century it has been superseded by a counterfeit, which the eighteen centuries prior to it never heard of, and could not have mistaken for it if they had. It is the right of self-will.

Conscience, as Newman understood it, is the very opposite of “autonomy” in the modern sense. It is not a writer of permission slips. It is not in the business of licensing us to do as we please or conferring on us “the right to define one’s own concept of existence, of meaning, of the universe, and of the mystery of human life.” Rather, conscience is one’s last best judgment specifying the bearing of moral principles one grasps, yet in no way makes up for oneself, on concrete proposals for action. Conscience identifies our duties under a moral law that we do not ourselves make. It speaks of what one must do and what one must not do. Understood in this way, conscience is, indeed, what Newman said it is: a stern monitor.

Contrast this understanding of conscience with what Newman condemns as its counterfeit. Conscience as “self-will” is a matter of feeling or emotion, not reason. It is concerned not so much with the identification of what one has a duty to do or not do, one’s feelings and desires to the contrary notwithstanding, but rather, and precisely, with sorting out one’s feelings. Conscience as self-will identifies permissions, not obligations. It licenses behavior by establishing that one doesn’t feel bad about doing it, or, at least, one doesn’t feel so bad about doing it that one prefers the alternative of not doing it.

I’m with Newman. His key distinction is between conscience, authentically understood, and self-will—conscience as the permissions department. His core insight is that conscience has rights because it has duties. The right to follow one’s conscience, and the obligation to respect conscience—especially in matters of faith, where the right of conscience takes the form of religious liberty of individuals and communities of faith—obtain not because people as autonomous agents should be able to do as they please; they obtain, and are stringent and sometimes overriding, because people have duties and the obligation to fulfill them. The duty to follow conscience is a duty to do things or refrain from doing things not because one wants to follow one’s duty, but even if one strongly does not want to follow it. The right of conscience is a right to do what one judges oneself to be under an obligation to do, whether one welcomes the obligation or must overcome strong aversion in order to fulfill it. If there is a form of words that sums up the antithesis of Newman’s view of conscience as a stern monitor, it is the imbecilic slogan that will forever stand as a verbal monument to the “Me-generation”: “If it feels good, do it.”

Freedom, Justice, and Duty

Fifty years ago, Martin Luther King, Jr., responded in his Letter from Birmingham Jail to those who criticized his program of civil disobedience as mere willful law-breaking:

I would be the first to advocate obeying just laws. One has not only a legal but a moral responsibility to obey just laws. Conversely, one has a moral responsibility to disobey unjust laws. I would agree with St. Augustine that "an unjust law is no law at all."

King turned not inward to his own feelings of being aggrieved by the law, not to the intuitions of his autonomous self, and not even to a claim of his own rights. Instead he turned to “moral responsibility”—to obligation, to duty. He, like Newman, understood this as a duty to principles of justice we did not create, but to which we must respond. As the Declaration of Independence teaches us, prior to any laws made by men are the immutable standards of justice—standards by which we judge whether the laws are just and can rightfully command our obedience.

These standards, of the equal dignity of all human persons, of their equal freedom, and of the accountability of government to the people, apply not just to our own laws but to those of other nations as well. As the United Nations recognized in its 1948 Universal Declaration of Human Rights, religious freedom is an essential principle of justice, in all nations and in all ages. Our Congress said the same in the International Religious Freedom Act of 1998. All of us have a duty, in conscience, to work for the religious freedom of all men and women everywhere.

Robert P. George is McCormick Professor of Jurisprudence and Director of the James Madison Program at Princeton University. He is the new chairman of the United States Commission on International Religious Freedom. This essay, adapted from his new book Conscience and Its Enemies, represents his own opinions. He is not speaking on behalf of the USCIRF.