sábado, 12 de maio de 2012

Cartas de obispos lefebvristas revelan pugnas internas ante negociaciones con el Vaticano

ROMA, 11 May. 12 / 06:38 pm (ACI).- Una reciente filtración de cartas reveló las pugnas internas entre los cuatro obispos de la Fraternidad Sacerdotal San Pío X (lefebvristas) en relación a las negociaciones de esta organización con el Vaticano para su posible ingreso a la plena comunión de la Iglesia Católica.

Las cartas corresponden a abril de este año, poco antes de que el superior de la organización, Bernard Fellay, remitiera al Vaticano su segunda respuesta al Preámbulo doctrinal que les fue entregado en 2011 para ingresar a la plena comunión de la Iglesia Católica. La primera que entregaron en enero había sido considerada "insuficiente".

A la fecha, se espera el pronunciamiento de la Santa Sede con relación a la respuesta de los lefebvristas presentada en abril, sobre la que el Padre Federico Lombardi, director de la Sala de Prensa del Vaticano, dijo que era "alentadora".

Por su parte y en un comunicado de la Casa General de la Fraternidad San Pío X, emitido el 11 de mayo, se calificó de "pecado grave" la filtración de la correspondencia entre sus obispos.

Los documentos comprenden una primera carta remitida por tres obispos –entre los que estaba Richard Williamson, conocido por negar el holocausto judío– a Mons. Fellay, el 7 de abril, en la que afirmaron que un "acuerdo doctrinal es imposible con la Roma actual" por lo que se oponen formalmente a un "acuerdo práctico" con la Iglesia Católica.
Al referirse a la actitud de los principales líderes lefebvristas, más favorables a un acuerdo con la Santa Sede, los obispos señalaron que están "conduciendo a la Fraternidad a un punto del que no podrá dar marcha atrás, a una profunda división sin retorno, y si llegan a un acuerdo de esas características, a poderosas influencias destructivas que no soportará".

En su respuesta, Mons. Fellay criticó la "falta de visión sobrenatural y realismo" de quienes lo criticaron.

Tras afirmar que Benedicto XVI es el legítimo Papa y que el Señor habla por su boca, Fellay cuestionó que "si expresa una voluntad legítima respecto a nosotros, que es buena, que no es contraria a los mandamientos de Dios, ¿tenemos el derecho de desatender o rechazar esa mano tendida?".

"El Papa nos ha hecho saber que la preocupación de arreglar nuestra situación para bien de la Iglesia estaba en el corazón de su Pontificado, y asimismo que sabía bien que para él y para nosotros era más fácil mantener la situación en su estado actual".

El líder de la Fraternidad Sacerdotal San Pío X subrayó que "para el bien común de la Fraternidad, preferiríamos con mucho la situación actual de un statu quo intermedio, pero es manifiesto que Roma ya no lo admite".

Fellay también señaló que "hay un cambio de actitud en la Iglesia, ayudado por los gestos y los actos de Benedicto XVI hacia la Tradición".

"Este nuevo movimiento, que tiene menos de diez años, se va reforzando. Alcanza a un buen número (aunque aún una minoría) de jóvenes sacerdotes, de seminaristas, e incluso ya de un pequeño número de jóvenes obispos que se distinguen claramente de sus predecesores, que nos muestran su simpatía y su apoyo, pero que todavía están bastante apagados por la línea dominante en la jerarquía de apoyo al (Concilio) Vaticano II".

Para el líder lefebvrista "no hemos buscado un acuerdo práctico. Eso es falso. En cuanto a la cuestión crucial entre todas, la posibilidad de sobrevivir en las condiciones de reconocimiento de la Fraternidad por Roma, no llegamos a la misma conclusión que vosotros".

Como un síntoma de la división interna entre lefebvristas, el obispo Fellay lamentó no haber contado con el apoyo y consejo de quienes le escribieron "para sobrellevar este momento tan delicado de nuestra historia".

quinta-feira, 10 de maio de 2012

Cardinal Dolan: President Obama's Remarks on Marriage 'Deeply Saddening'

In USCCB

May 9, 2012
WASHINGTON—Cardinal Timothy Dolan, president of the U.S. Conference of Catholic Bishops (USCCB), issued the following statement:

President Obama’s comments today in support of the redefinition of marriage are deeply saddening. As I stated in my public letter to the President on September 20, 2011, the Catholic Bishops stand ready to affirm every positive measure taken by the President and the Administration to strengthen marriage and the family. However, we cannot be silent in the face of words or actions that would undermine the institution of marriage, the very cornerstone of our society. The people of this country, especially our children, deserve better. Unfortunately, President Obama’s words today are not surprising since they follow upon various actions already taken by his Administration that erode or ignore the unique meaning of marriage. I pray for the President every day, and will continue to pray that he and his Administration act justly to uphold and protect marriage as the union of one man and one woman. May we all work to promote and protect marriage and by so doing serve the true good of all persons.

quarta-feira, 9 de maio de 2012

Il Cardinale di Vienna e il consigliere parrocchiale omosessuale - di Prof. Josef Seifert

In CR 

Pubblichiamo alcune riflessioni critiche del prof. Josef Seifert, noto filosofo cattolico tedesco, sul recente caso della Conferma, da parte del , arcivescovo di Vienna, di un omosessuale praticante come membro di un consiglio pastorale parrocchiale.

Le riflessioni che seguono sono quelle di un cattolico austriaco che si duole per la decisione di un Cardinale della sua patria lontana, per il quale egli prova un grande rispetto e l’affetto di una amicizia di lunga data – anche se “inattiva” a causa della distanza geografica – che risale all’epoca in cui entrambi insegnavano all’Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi su Matrimonio e Famiglia di Roma.

I fatto sono ben noti: il cardinale Cristoph von Schönborn, arcivescovo di Vienna e presidente della Conferenza Episcopale Austriaca, ha di recente annullato la decisione di un sacerdote polacco, parroco in un piccolo villaggio dell’Austria meridionale. Don Gerhard Swierzek si era opposto all’elezione nel consiglio parrocchiale di un uomo che pratica apertamente uno stile di vita omosessuale e ha perfino registrato pubblicamente la propria unione omosessuale e para-matrimoniale. Il cardinale, che inizialmente aveva dichiarato di appoggiare la decisione di Swierzek, ha invitato a pranzo, nel palazzo arcivescovile, il giovane (26 anni) Florian Stangl e il suo compagno.

Poi ha annunciato la sua decisione di confermare l’elezione di Stangl, in contrasto con la decisione del parroco. Il cardinale ha poi commentato di essere stato colpito dalla fede e dall’atteggiamento cristiano dei due uomini, e di aver compreso perché Stangl è stato eletto a grandissima maggioranza. Ciò ha indotto il parroco a dare le sue dimissioni, perché la sua coscienza non gli permetteva di svolgere il suo ministero in tali circostanze. La decisione di Schönborn è stata lodata e difesa da molti, e criticata da molti altri, compresi alcuni vescovi e cardinali, che l’hanno trovata incomprensibile.

Tra i difensori ci sono non solo le lobbies omossessuali o il vasto gruppo di laici e sacerdoti che hanno formato una associazione che dissente pubblicamente dagli insegnamenti e dalla disciplina della Chiesa, ma anche eminenti filosofi e politici cattolici impegnati, come l’Onorevole  Rocco Buttiglione, già Ministro delle Politiche Europee, e poi della Cultura e del Turismo, membro del senato italiano e dal 2008 Vice Presidente della Camera dei Deputati italiana. Egli è un mio caro amico, Professore ed ex Pro-Rettore dell’Accademia Internazionale di Filosofia del Principato del Liechtenstein e ora Presidente degli Amici della IAP.

A differenza dalle voci che hanno argomentato in favore della decisione del Cardinale a partire da una posizione apertamente o tacitamente anti-cattolica, oppure per ragioni del tutto irrazionali, Buttiglione difende la decisione del Cardinale senza chiamare in questione gli insegnamenti morali della Chiesa. Buttiglione riconosce pienamente che l’omosessualità praticata è un peccato, e che il peccato grave, specialmente quello commesso ripetutamente e senza pentirsi, anche se non conduce automaticamente e immediatamente alla perdita della fede, può facilmente condurre ad essa.

Inoltre, Buttiglione concorda sul fatto che un omosessuale praticante non può essere ammesso ai Sacramenti, e che lo scopo dei peccatori deve essere quello di convertirsi a cercare la santità, e non quello di persistere nei loro peccati o di traformarli in una nuova legge.
 
Ciononostante, Buttiglione difende la decisione del Cardinale sulla base del fatto che siamo tutti peccatori e che vivere nel peccato non distrugge automaticamente la fede cattolica, né esclude gli omosessuali praticanti o gli altri peccatori da una collaborazione fruttuosa in una istituzione politica della Chiesa, quale un consiglio parrocchiale.

Non intendo affrontare qui le difese della decisione che sono basate su serie deviazioni dalla verità o dall’insegnamento della Chiesa, ma mi limiterò ad una analisi critica della difesa fatta da Buttiglione, grande pensatore cattolico e coraggioso politico – in altre parole, mi limiterò ad una analisi critica della miglior difesa fatta dalla persona migliore tra coloro che sostengono la decisione di Schombrön, colui che ha lavorato per anni con me per edificare una scuola di filosofia sotto il motto diligere veritatem omnem et in omnibus, «amare la verità tutta intera e in tutte le cose».

Nonostante l’intelligenza e l’eccellente background della sua difesa mi sembra chiaro che su questo argomento il mio amico è in errore. Infatti, anche i migliori argomenti in favore della decisione del Cardinale chiaramente non tengono conto di importanti distinzioni, alle luce delle quali, a mio avviso, la decisione andrebbe revocata, o ribaltata da Roma.

Quali sono le mie ragioni?
In primo luogo, dobbiamo fare una distinzione importante riguardo all’affermazione che “siamo tutti peccatori”.

Essere un peccatore non è lo stesso che vivere in uno stato di peccato grave. Qualsiasi cosa la sua coscienza gli dica, e qualsiasi possa essere il giudizio di Dio sul suo agire (cosa che non sappiamo, né possiamo presumere di sapere), la condizione nella quale Stangl vive apertamente è, secondo la Chiesa, uno stato oggettivo di peccato grave – uno stato nel quale non tutti viviamo.
Secondo, nel caso di Stangl non abbiamo a che fare con un peccato compiuto molto tempo fa, o più recente, di cui l’autore si è pentito. Questo, dato che alcuni dei santi più grandi hanno commesso gravi peccati prima della loro conversione, non escluderebbe certamente nessuno dall’essere membro di un consiglio pastorale o in alcuni casi addirittura del sacerdozio. Un peccato di questo tipo possiamo presumere che sia in questione nel caso del parroco di Stangl, che ora è pubblicamente accusato di aver avuto una relazione con una donna durata alcuni mesi, prima di essere nominato pastore di Stützenhofen.

Anche se ammettiamo che la donna che lo accusa stia dicendo il vero e dunque il parroco abbia violato sia il celibato sacerdotale, sia la liceità delle relazioni sessuali esclusivamente all’interno del matrimonio, egli si è senza dubbio pentito ed è tornato ai suoi impegni. Nel caso di Stangl, al contrario, siamo di fronte ad un peccato presente, ammesso dall’interessato, e che continua tuttora.

Ancora più allarmante è il fatto che evidentemente la pratica omosessuale di Stangl non è riconosciuta da lui come moralmente negativa. Piuttosto, egli insiste sul suo ritenersi del tutto approvabile dal punto di vista morale. Stangl afferma che ai giorni nostri non si può chiedere a  nessuno di vivere castamente o addirittura che nessuno vive in castità – un commento con il quale si squalifica in modo ancora più grave di quanto fa semplicemente con il proprio stile di vita. Anche se vivesse una vita casta, la sua approvazione pubblica dei rapporti omosessuali lo renderebbe inadatto a ricoprire il ruolo di membro di un consiglio della Chiesa.

Appartiene alla missione di ogni Consiglio pastorale della Chiesa annunciare i tesori dei suoi insegnamenti, e dunque anche proclamare l’ideale evangelico e il valore della purezza, che è sempre stata difficile da vivere, ma che è lodata nel Discorso della Montagna come una beatitudine che porta con sé una promessa unica: «beati i puri di cuore, perché vedranno Dio». Anche a prescindere dal «sermone della sua vita», dunque, deridere apertamente questa virtù e definirla impossibile è chiaramente incompatibile con il fatto di far parte di un consiglio parrocchiale secondo le linee guida della Chiesa, sulle quali tornerò fra poco.

Inoltre, c’è un aspetto importante dell’essere un esempio per altri che è inseparabile dal fatto di occupare qualsiasi posizione ufficiale nel corpo della Chiesa. Accogliere un omosessuale dichiarato in una carica di questo tipo costituirebbe una «lezione all’impurità» e un esempio che altri potrebbero seguire, affermando: «faccio solo ciò che fa anche il membro del consiglio pastorale Stangl, che il Cardinale ha difeso contro il nostro parroco e ha definito un profondo credente». L’azione del cardinale produce così inevitabilmente l’illusione dell’approvazione dei rapporti omosessuali da parte della Chiesa e costituisce un cattivo esempio morale.

Inoltre, c’è una differenza importante tra un peccato commesso privatamente e nascosto al pubblico, e uno commesso apertamente. Un sacerdote che pecca nel segreto, per quanto ciò sia molto triste, almeno esprime un elemento di vergogna per le proprie azioni e può indicare una volontà di evitare un cattivo esempio pubblico – senza alcuna intenzione ipocrita di mentire e di ingannare i fedeli.

Al contrario, un membro del consiglio pastorale che apertamente professa la sua relazione omosessuale (della cui peccaminosità egli non crede), può essere una dimostrazione di impudenza più che di onestà. Precisamente perché un prete deve essere consapevole del fatto che è chiamato ad essere un esempio degli altri – e dunque dovrebbe essere virtuoso più degli altri – dovrebbe evitare di scandalizzare altri, trasformando la propria cattiva vita privata in un cattivo esempio pubblico.

Se il prete non solo peccasse, ma anche annunciasse i propri peccati a tutta l’assemblea della Chiesa, indicherebbe non onestà, bensì una mancanza delle dovute vergogna, discrezione e prudenza. Tali peccati appartengono al confessionale, non al pubblico o alla stampa, anche se ci sono circostanze nelle quali una confessione pubblica e una espressione di dolore, quando sono legati ad una intima conversione, potrebbero di fatto essere la cosa giusta ed edificante da fare, come nel caso dello straordinario libro di sant’Agostino, le Confessioni.

Condannare don Sweierzek (sempre ammesso che la donna che sta diffondendo la sua storia non stia mentendo) per aver taciuto i propri peccati prima di diventare parroco di Stützenhofen, è proprio farisaico. Chi, degli uomini e delle donne sposati che definiscono il proprio pastore un ipocrita, si alzerebbe in piedi alla Messa domenicale e confesserebbe i propri adulteri o gli altri peccati, o li diffonderebbe in un’intervista sui giornali? Perché un prete dovrebbe fare questo per poter essere considerato onesto? Certamente, rimproverare altri per i loro peccati, e anche esporli pubblicamente, quando chi parla ne ha commessi di simili (come i farisei che volevano lapidare la donna adultera), può essere farisaico, ma non lo è necessariamente.

Un padre non è un fariseo perché riprende suo figlio per aver picchiato sua sorella, perché denunciare che è un atto cattivo corrisponde alla verità, anche se egli stesso ha fatto la stessa cosa a sua moglie il giorno precedente. Diventerebbe farisaico solo se fosse motivato, non dalla verità, bensì da un atteggiamento pregiudiziale che fluisce dalla crudeltà, dall’orgoglio e dalla falsità, nelle quali egli, il peggiore peccatore tra i due, si erigesse a persona di più specchiata virtù.

Esiste una ulteriore enorme differenza tra uno stile di vita omosessuale apertamente dichiarato, e l’entrare in una unione omosessuale ufficiale o para-matrimoniale, riconosciuta dallo stato, ma considerata dalla Chiesa non solo come un peccato grave (come lo è risposarsi senza aver avuto la dichiarazione ecclesiastica di nullità del matrimonio precedente), ma un peccato alla seconda potenza, dato dalla pseudo-sanzione della convivenza omosessuale attraverso quella sorta di caricatura che è il «matrimonio omosessuale benedetto dallo stato», e aggrava il male del peccato.
 
Un atto omosessuale (diversamente dalle tendenze all’omofilia, che non sono sottoposte al nostro controllo), poi, non è solo un serio peccato, secondo la Chiesa, ma un peccato «contro natura» (contra naturam) – contro l’intero ordine della natura, del significato e del valore della sessualità umana, e così è una violazione molto più grande della legge morale divina rispetto a peccati (come il sesso pre-matrimoniale o l’adulterio) che costituiscono una caduta umana, ma non vanno contro la natura.

Inoltre, avendo costituito una relazione omosessuale ufficiale, il signor Stangl potrebbe reclamare diritti, come quello di adottare bambini, etc., che agli occhi della Chiesa sarebbero una ulteriore grave violazione delle istituzioni tanto sacre quanto umane del matrimonio e della famiglia.

L’elezione al consiglio pastorale parrocchiale da parte di un uomo che vive in una unione omosessuale, per quanto egli sia amabile e affascinante nella sua conversazione, e per quanto la sua fede sia sincera (anche se, ovviamente, non accetta l’etica insegnata nella Sacra Scrittura, la cui condanna dei peccati di omosessualità nell’Antico Testamento e da parte di San Paolo non potrebbe essere più severa e inflessibile) ha anche un profondo aspetto ed effetto esterno.

Consentire questa elezione (probabilmente la prima approvazione ufficiale di questo tipo fatta da un Cardinale) sarà percepita da molti come un acconsentire alle relazioni omosessuali in se stesse e dunque come uno schiaffo pubblico sulla sacra faccia del matrimonio. Ciò causa così, da una parte, uno scandalo pubblico tra molti fedeli e pone, dall’altra parte, un esempio che potrebbe essere seguito in molte parti del mondo. Anche solo per evitare queste conseguenze sinistre, credo che la decisione dovrebbe essere rivista e questa elezione dichiarata invalida, così come il parroco Swierzek ha fatto come pastore – un atto che come tale non viola in nessun modo la carità, ma al contrario esprime un vero amore per Stangl e le altre anime della sua parrocchia.

Infine, dobbiamo considerare la violazione del Codice di Diritto Canonico, implicata dal fatto di sanzionare l’elezione di un omosessuale praticante come membro di un consiglio pastorale, specialmente quando questa approvazione è compiuta esplicitamente in contrasto con la decisione del parroco, che ha la responsabilità della sua parrocchia e il cui giudizio non dovrebbe dunque essere sovrastato da una autorità superiore, finché egli agisce in piena armonia con la legge della Chiesa, cosa che don Swierzek ha fatto. Consideriamo il testo dei cann. 511 e 512, specialmente il paragrafo 3 del 512, che concerne l’elezione dei membri del consiglio pastorale diocesano – qualcosa che indubbiamente si applica all’elezione dei consigli parrocchiali.

Can. 511 – In ogni diocesi, se lo suggerisce la situazione pastorale, si costituisca il consiglio pastorale, al quale spetta, sotto l’autorità del Vescovo, studiare, valutare e proporre conclusioni operative su quanto riguarda le attività pastorali della diocesi.

Can. 512 – §1. Il consiglio pastorale è composto da fedeli che siano in piena comunione con la Chiesa cattolica, sia chierici, sia membri di istituti di vita consacrata, sia soprattutto laici; essi vengono designati nel modo determinato dal Vescovo diocesano.
§2. I fedeli designati al consiglio pastorale siano scelti in modo che attraverso di loro sia veramente rappresentata tutta la porzione di popolo di Dio che costituisce la diocesi, tenendo presenti le diverse zone della diocesi stessa, le condizioni sociali, le professioni e inoltre il ruolo che essi hanno nell’apostolato, sia come singoli, sia in quanto associati.
§3. Al consiglio pastorale non vengano designati se non fedeli che si distinguono per fede sicura, buoni costumi e prudenza.

Ed Peters nel suo blog aggiunge alcune importanti spiegazioni e riferimenti al Codice. Cito:
“Essere membri di un consiglio pastorale (c. 536) sembra debba essere definito come un occupare “una carica ecclesiastica” (C. 145). Occupare una carica ecclesiastica (diversamente, ad esempio dal partecipare ai sacramenti) non è un diritto fondamentale del fedele e l’autorità ecclesiastica ha un margine con¬side¬revole nello stabilire i requisiti per assumere un incarico nella Chiesa (cc 145, 148, 223). Per poter essere scelti per una carica ecclesiastica, si deve essere “in comunione con la Chiesa” (c. 149 § 1). La piena comunione con la Chiesa è definita, a fini giuridici, come essere “uniti con Cristo nella struttura visibile [della Chiesa] con i legami della professione di fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico”. L’assun¬zio¬ne o la conservazione di una carica ecclesiastica può essere dichiarata invalida per ragioni “espressamente richieste” dalla legge perché l’assunzione o la conservazione siano valide (c. 149 § 2)”

Per quanto le sue intenzioni soggettive possano essere oneste, il signor Stangl non può ragionevolmente essere considerato «un fedele cristiano che si distingua per la fede ferma, i buoni costumi e la prudenza». Perciò, se don Swierzek, applicando queste linee guida chiare, a fatto ciò che riteneva giusto per la propria parrocchia, secondo la sua coscienza, ed è stato scavalcato da un’autorità superiore, è stato obbligato a dare le sue dimissioni. Se queste dimissioni fossero state rifiutate, avrebbe avuto il diritto di appellarsi alle massime autorità giuridiche della Chiesa.

Se il Cardinal Schönborn riconsidererà la sua decisione, spero sinceramente e prego che la ritratterà, in obbedienza alla verità e alla Chiesa, e nonostante l’imbarazzo che un tale cambiamento potrà causare. Mi auguro, infine, che né Sua Eminenza, né l’amico Buttiglione si risentiranno per ciò che l’impegno che condividiamo per la verità mi ha imposto di scrivere.

Josef Seifert
Fondatore dell’Accademia Internazionale di Filosofia del Principato del Liechtenstein
Membro della Pontificia Accademia per la Vita




terça-feira, 8 de maio de 2012

Lecture de Dignitatis humanae - par Mgr R. Minnerath, Archevêque de Dijon


Avec le statut de simple « Déclaration », Dignitatis humanae est l’un des textes majeurs du concile Vatican II. De la part de l’Eglise catholique une prise de position sur la question de la liberté religieuse était attendue. Les Eglises membres du Conseil Œcuménique, réunies à Amsterdam, avaient adopté dès septembre 1948, une Déclaration sur la liberté religieuse, trois mois avant la Déclaration des droits de l'homme de l’ONU le 10 décembre 1948. L'Eglise catholique était accusée d'exiger toute liberté pour elle-même, mais de la refuser aux autres dans les pays où ses fidèles étaient majoritaires. Le problème était surtout de savoir dans quelle mesure l'Eglise allait justifier en doctrine le droit à la liberté religieuse reconnu par un grand nombre de pays du monde.

Ce texte a eu une incidence directe sur les relations de l’Eglise avec les Etats, sur les relations œcuméniques et interreligieuses. Il est aussi une pierre d’achoppement pour la Fraternité Saint Pie X qui le rejette comme contraire à la Tradition. Qu’en est-il de Dignitatis humanae cinquante ans après sa publication ?

I. La Liberté religieuse, un droit humain fondamental

Lorsque fut publiée, en 1965, la Déclaration conciliaire Dignitatis humanae, la liberté religieuse était garantie, avec des nuances diverses, depuis presque deux siècles dans certaines démocraties occidentales.

La typologie juridique de la liberté religieuse moderne présente donc les caractères suivants: c'est un droit individuel fondé, comme le dit la Déclaration de 1948, sur "la dignité inhérente" à tout homme. Cette liberté est découplée de toute idée de vérité religieuse objective. Elle suppose la neutralité religieuse de l’Etat. Les pouvoirs publics ont le devoir de veiller à ce que la liberté religieuse ne serve de prétexte pour troubler l'ordre et la sécurité publiques, la moralité publique et les droits des tiers. La religion n’est plus le lien social sacralisé. La liberté religieuse met fin à l’osmose entretenue depuis Théodose (380) entre religion officielle et citoyenneté, entre religion et Etat.

La sécularisation, c’est l’absence de toute référence à Dieu et à une vérité transcendante, c’est la non-intervention de la religion dans les actes de la vie publique, une sorte d’agnosticisme social.

Au XIXe siècle, la liberté de conscience est avant tout comprise comme liberté de ne pas croire, une libération par rapport au dogme et à la morale catholiques ! La liberté de culte est perçue comme un nivellement de tous les cultes de la part de l’Etat, conduisant à une séparation radicale Eglise-Etat.

II. L’enseignement traditionnel

On sait que l'Eglise, dans un premier temps, a rejeté avec véhémence les conceptions modernes de la liberté, particulièrement la liberté de conscience érigée en souveraine du bien et du mal, du vrai et du faux, sur un horizon sans Dieu.

Résumons les thèses nouvelles que le Magistère du XIXe siècle a condamnées. Ces condamnations ne concernent pas les libertés substantielles, mais leur absolutisation qui délie l’homme de toute sujétion à la loi divine.

-Dans la pensée moderne, la liberté de conscience est liée au principe selon lequel aucune religion n’est vraie et que toutes se valent, que la religion était affaire d’opinion subjective, ce que la pensée catholique appellera l’indifférentisme.

-L’individu se proclame autonome par rapport à Dieu et à l’Eglise. Est condamnée « la liberté qui porte l’homme à s’affranchir des lois de Dieu ». C’est la liberté immodérée. Une liberté indifférente au bien ne peut pas être un droit.

-Le libéralisme, c’est la souveraineté absolue de la société, dans une entière indépendance par rapport à un ordre éthique objectif.

Jusqu'au concile, la doctrine catholique concernant les rapports entre la liberté personnelle, la liberté de l'Eglise et celle de l'Etat en matière religieuse s'articulait en plusieurs propositions inséparables. La doctrine inchangée de Pie IX à Pie XII reflète aussi les conditions dans lesquelles l’Eglise a vécu à la suite du mouvement les Lumières, de la Révolution française et des Etats libéraux du XIXe siècle.

a) L'acte de foi doit toujours être posé libre de toute contrainte externe. Sur ce plan, la doctrine n'a jamais changé, depuis l'ère patristique et à travers le Moyen-âge: "L'homme ne peut croire que de plein gré" (S. Augustin, Tractatus in Evangelium Johannis 26,2)1.

La démarche de foi s'inscrit dans un double mouvement, l'un horizontal, qui exige l'absence de contrainte externe; l'autre vertical qui consiste en une tension vers la vérité qui est Dieu. Au croisement de l'un et de l'autre se situe la conscience. Celle-ci ne décide pas dans le vide; elle est formée et informée.

b) Dans toute son histoire, souvent en réaction contre les empiétements du pouvoir temporel, l'Eglise a défendu sa liberté comme communauté autonome, confiée par le Christ aux Apôtres et à leurs successeurs. Multiples sont les péripéties du combat pour la "libertas Ecclesiae". L'enjeu était la distinction introduite par le Christ entre les sphères des compétences respectives de Dieu et de César (cf. Mt 22,21). Face à l'Etat absolutiste qui tentait de la priver de son autonomie interne, puis face à l'Etat libéral qui la rejetait dans le domaine des associations privées, l'Eglise avait pendant un siècle développé la doctrine des "deux sociétés parfaites"2. C'est comme société visible et souveraine dans le domaine des fins ultimes de l'homme, enveloppant tous les domaines de l'existence et pas seulement le culte, que l'Eglise revendiquait face à la société civile et à l'Etat l'autonomie dans son domaine.

c) Prenant à rebours la modernité, l'Eglise rappelait que la société et l'Etat ont leur origine dans le Créateur et sont par conséquent soumis à sa loi, loi naturelle inscrite dans chaque être et reconnaissable par une raison non amputée de son ouverture constitutive sur le mystère de Dieu. On ne comprenait pas que l'Etat pût être indifférent en matière de religion. Léon XIII en particulier avait souligné dans ses encycliques que l'Etat devait rendre un culte à Dieu selon la vraie religion et n'admettre dans sa législation rien qui fût contraire à la loi de Dieu. Il lui appartenait de créer les conditions temporelles propres à favoriser le progrès des hommes vers leur fin ultime. C'était la thèse de l'Etat catholique. Il était demandé à ce dernier de soutenir explicitement la vraie religion et de tolérer les cultes minoritaires.. Les deux pouvoirs devaient être distingués, mais on jugeait impensable lors totale séparation. Enfin et surtout, les manifestations extérieures des cultes dissidents devaient être limitées. L'idée était que l'erreur n'a pas de droits. Elle pouvait seulement être tolérée pour éviter un plus grand mal. Quant à l'Etat non catholique, on lui demandait de respecter le droit naturel, c'est-à-dire d'accorder la liberté civile à tous les cultes qui ne sont pas contraires à la loi naturelle.

L’enseignement traditionnel reposait donc sur la défense de la liberté de l’acte de foi et la tolérance de l’erreur.

a) Sur le premier point, concernant la liberté personnelle de croire, Léon XIII avait dessiné les contours d’un droit permission de ne pas être empêché d’agir dans la cité. Il exclut la liberté de conscience comme liberté de rendre ou non un culte à Dieu, indifféremment, son gré. Il entend liberté de conscience « en ce sens que l’homme a dans l’Etat le droit de suivre, d’après la conscience de son devoir, la volonté de Dieu, et d’accomplir ses préceptes sans que rien puisse l’en empêcher » (Libertas, 23).

Pie XI condamne aussi l’autonomie de la conscience face à Dieu. Mais « l’homme croyant a un droit inaliénable à professer sa croyance et à la pratiquer dans les formes correspondantes ». C’est « un droit naturel » (Mit brennender Sorge AAS 1937, p. 160). Pie XI revendique face à l'Etat totalitaire la "liberté des consciences" sans parler de la liberté de conscience"3.

Pie XII enseigne, pour sa part, la dignité de la personne humaine et ses droits inaliénables. Mais une liberté n’est jamais inconditionnée. Elle s’insère dans « un ordre absolu de valeurs ». Parmi ces « droits fondamentaux de la personne », il cite « le droit au culte de Dieu, privé et public, y compris l’action charitable religieuse » (RM Noël 1942, AAS 1943, p. 19).

Jusqu’à Pie XII inclus, on ne développait pas une doctrine des droits subjectifs de la personne. On insistait sur l'obligation de la société et des pouvoirs publics de satisfaire les besoins de la personne humaine au nom du bien commun. Des amorces de reconnaissance des droits fondamentaux de la personne avaient été opérées par Pie XI et Pie XII devant le drame de la violation de ces mêmes droits par les régimes totalitaires. Mais ces droits étaient toujours envisagés dans le cadre de l'ordre moral qui a Dieu pour auteur.

Entre les deux premières sessions du concile, l'encyclique Pacem in terris de Jean XXIII (PT, 1963) était venue donner une synthèse magistrale de cette doctrine. L'Encyclique, après avoir rappelé l'ordre inscrit par le Créateur au plus intime des cœurs (PT 5), parle des droits et des devoirs de la personne, qui découlent ensemble et immédiatement de sa nature (PT 9). Or la doctrine de la nature renvoie à celle de la création. Si l'homme a des droits inhérents à son être même, c'est que le Créateur les y a inscrits. Pour pouvoir les réaliser, la société entière doit procurer à la personne ce qui est nécessaire à son perfectionnement. La pensée catholique raisonne en termes d'ordre objectif, de nature et de bien commun.

Allant encore plus loin, Pacem in terris introduit la formule selon laquelle « chacun a le droit d’honorer Dieu suivant la juste règle de sa conscience et de professer la religion dans la vie privée et publique » (ad rectam conscientiae suae normam) ». Et ce droit est "un droit de l'homme"4. « Tout être humain est une personne, c’est-à-dire une nature douée d’intelligence et de volonté libre. Par là-même il est sujet de droits et de devoirs, découlant les uns et les autres, ensemble et immédiatement de sa nature : aussi sont-ils universels, inviolables, inaliénables » (n. 9). La nature est la source des droits et des devoirs. Chaque personne est la réalisation individuelle de la nature humaine. A ce titre, chaque personne peut revendiquer des droits. Cette doctrine rejette les conceptions idéalistes pour qui la nature humaine n’est réalisée que dans la collectivité ou l’Humanité et n’est que participée à des degrés divers par les individus qui reçoivent d’elle leurs droits. Elle rejette également les conceptions subjectivistes et relativistes des droits de l’homme, car les droits et les devoirs de l’homme sont inscrits dans sa nature et ne sont pas des options arbitraires.

b) Avant le concile, le dernier exposé de la doctrine traditionnelle de la tolérance civile en matière religieuse est fourni par Pie XII dans son allocution « Ci riesce » du 6 décembre 1953 (DC 1953, 1601-1608). Pie XII développe la pensée de Léon XIII qui affirmait le devoir de l’Etat de tolérer les cultes non catholiques dans la mesure où l’exigerait le bien commun « en vue d’un plus grand mal à éviter ou d’un bien plus grand à obtenir ou à conserver » (Libertas, 23, 1888). Pie XII ajoute que « dans certaines circonstances... le meilleur parti est celui de ne pas empêcher l’erreur, pour promouvoir un plus grand bien ». « Ce qui ne correspond pas à la vérité et à la norme morale, n’a objectivement aucun droit ni à l’existence, ni à la propagande, ni à l’action... Le fait de ne pas l’empêcher par le moyen des lois et de dispositions coercitives peut néanmoins se justifier dans l’intérêt d’un bien supérieur plus vaste ».

Cette doctrine était reprise dans les traités de droit public ecclésiastique, le dernier étant celui d’Alfredo Ottaviani5. Les Etats catholiques devaient pratiquer la tolérance dans les limites de la moralité publique, de la paix publique, du droit des autres. Dans les pays non catholiques, l’Etat doit autoriser tous les cultes conformes à la moralité et à la paix publiques et aux droits des autres.

Le Magistère a rappelé que croire c'est adhérer à un Dieu qui se révèle, obéir librement à sa Parole, et non professer une opinion subjective. C'est aussi entrer dans une communauté de salut, qui ne peut disposer d'elle-même à sa guise, et qui transcende les fins temporelles des sociétés politiques. La foi chrétienne relativise radicalement ce que la modernité rousseauiste absolutise: l'individu atomisé et la volonté générale ou le pouvoir humain comme seul horizon de la liberté.

III. La déclaration conciliaire Dignitatis humanae

En 1965, l'Eglise voulait signifier qu'elle était favorable à la liberté religieuse de la personne humaine, mais sans adhérer à la philosophie de la liberté implicitement contenue dans les instruments modernes.

Au concile, deux écoles se sont opposées: d'une part, celle qui voyait le côté pratique de la liberté moderne et le bien que l'Eglise pouvait en tirer, et d’autre part celle qui rappelait l'incompatibilité entre la foi et les conceptions de la liberté moderne. On peut dire que le courant américain, sous l’impulsion du jésuite John Courtney Murray, expert au Concile, a joué un rôle décisif, pour qui les vieilles problématiques européennes étaient largement incompréhensibles.

Le schéma préparé en 1962 était encore conçu sur le modèle classique des traités de droit public ecclésiastique, tandis que la Déclaration votée en 1965 comporte quelques nouveautés. Le document est divisé en deux parties. La première parle de la liberté religieuse selon la raison et le droit, la deuxième de la liberté religieuse dans la perspective de la révélation divine.

Le concile entendait seulement développer l'enseignement des derniers pontifes, qui, de Pie XI à Jean XXIII, avaient été amenés à insister sur le caractère subjectif des droits de l'homme et leur fondement dans la dignité de la personne humaine. Les débats conciliaires ont successivement glissé des thèmes traditionnels vers les thèmes liés aux droits subjectifs, de la conscience erronée vers la liberté religieuse dans l'ordre civil, de la confessionnalité vers la neutralité religieuse de l'Etat, de l'obligation de procurer le bien commun vers la tutelle de l'ordre public. Le concile a pris acte que l'Etat moderne n'était plus celui du temps de Léon XIII, et que tous les Etats devaient envisager leurs obligations envers les religions à partir du droit naturel.

Les problèmes étaient de deux ordres : quelle est le fondement de ce droit ? Quelle est la nature de ce droit ? Qu’en est-il des devoirs de la collectivité vis-à-vis de Dieu et de la vraie religion ?

a) La personne et le fondement

La première partie de la déclaration expose les exigences de l'ordre moral naturel tel qu'il s'offre à la droite raison. Celle-ci entend saisir la structure qui se dégage de toute démarche de type religieux et énonce que la liberté nécessaire en ce domaine se fonde sur une requête inhérente à la nature humaine. La religion est une démarche qui requiert liberté intérieure et liberté de manifestation externe.
La doctrine centrale de la Déclaration s'inscrit dans la tradition développée depuis Léon XIII: la démarche religieuse de l'homme doit se faire à l'abri de toute contrainte externe. "Cette liberté consiste en ce que tous les hommes doivent être soustraits à toute contrainte de la part soit des individus, soit des groupes sociaux et de quelque pouvoir humain que ce soit, de telle sorte qu'en matière religieuse nul ne soit forcé d'agir contre sa conscience, ni empêché d'agir, dans de justes limites, selon sa conscience, en privé comme en public, seul ou associé à d'autres" (DH 2, 1)

Tout en mettant en lumière les concordances pratiques entre la perspective catholique de la liberté religieuse et celle des Etats modernes, le concile s'est efforcé de dégager le fondement de ce droit. En effet, pour que ce droit des personnes et des communautés soit inaliénable, il faut qu'il soit mis hors de la portée de l'arbitraire des pouvoirs humains. Le concile "déclare que le droit à la liberté religieuse a son fondement dans la dignité même de la personne humaine telle que l'ont fait connaître la parole de Dieu et la raison elle-même" (n.2). Cette dignité est ancrée dans la nature de l'homme, créé libre et capable de tendre vers la vérité.

Le concept de nature permet à la Déclaration de faire le pont entre révélation et raison, foi et modernité, tout en dépassant la perspective réductrice et subjectiviste de cette dernière. Il est dans la nature de l'homme de chercher la vérité, surtout en ce qui concerne Dieu, et d'y adhérer librement. Ici le texte devient explicite. "Ce n'est pas une disposition subjective de la personne, mais sur sa nature même, qu'est fondé le droit à la liberté religieuse" (DH 2). Le droit à la liberté religieuse est donc inséparable de la personne, de la personne considérée dans sa substance inaliénable, et non dans ses dispositions psychologiques changeantes. Il persiste même si la personne n'en fait pas usage ou se complaît dans l'erreur.

Le concile passait de la problématique de la conscience devant Dieu à celle de droit de la personne devant être reconnu dans l'ordre juridique de la société. C'est aussi pour cette raison que, à partir de novembre 1963, le concile se place sur le terrain juridique, et ne parle plus des droits de la conscience, mais de la "liberté religieuse", comme exigence d'autonomie de la sphère religieuse non ab intra (par rapport à Dieu), mais ab extra par rapport à la société et à l'Etat. Aussi dès sa troisième rédaction, le texte précisera-t-il, dans un sous-titre, qu'il s'agit de définir la "liberté sociale et civile en matière religieuse".

b) Quelle religion?

En filigrane on observe que la Déclaration décrit, en réalité, la structure et la phénoménologie du christianisme. Nous comprenons que c’est sur le terreau du christianisme que l’idée même de « liberté de religion » –l’expression est de Tertullien au début du IIIe siècle- a pu naître et porter des fruits. Le christianisme a fait de la religio un choix personnel, en distinguant l’appartenance religieuse et l’appartenance citoyenne, culturelle, ou ethnique. La religion chrétienne n’est devenue le lien sacral des peuples christianisés qu’après le IVe siècle. Cette osmose a maintenant pris fin et le concile en prend acte. Mais les autres religions ne comportent pas les distinctions propres au christianisme.

c) Un droit

Au terme d'élagages successifs, le concile était parvenu préciser la cible visée. Il voulait se limiter à définir la liberté religieuse comme un droit négatif, droit civil, fondé sur la dignité de l'homme, qui consiste en une immunité par rapport à toute contrainte extérieure. C'était faire un pas en direction de la modernité, mais sans renoncer à l'héritage traditionnel. En effet, la seconde partie de Dignitatis humanae allait montrer qu'il ne s'agissait ni d'un reniement ni d'un ralliement, mais de la rencontre de deux perspectives qui, en réalité, ne se confondent pas.

Le droit dont parle DH 2,1 est un droit naturel subjectif qui est le revers d’une exigence négative de la part des tiers (ne pas être empêcher, ne pas contraindre). Ce n’est pas un droit qui me permet de décider de n’importe quoi en matière de religion. Ce droit considéré sous son angle objectif n’est pas un droit à professer l’erreur, ni un droit d’exiger positivement une reconnaissance de choix erronés. La reconnaissance à laquelle la personne a droit est celle de disposer d’un espace immunisé dans lequel elle fait ses choix6.

L’abus d’un droit ne supprime pas le droit. La diffusion de l’erreur n’est pas un droit, mais un abus de l’exercice du droit. Cet abus ne doit être civilement réprimé que s’il enfreint l’ordre public juste. L’abus ne peut être réprimé que s’il va contre la justice.

d) En communauté

Les implications communautaires du droit des personnes à la liberté religieuse sont clairement soulignées. Le concile énumère quelques domaines de la vie sociale sur lesquels s'étend ce droit. On peut les regrouper sous trois chapitres: l'autonomie de la juridiction ecclésiale par rapport à la juridiction civile (les communautés religieuses se régissent selon leur droit interne); le droit des communautés de désigner librement leurs ministres; leur droit d'enseigner leurs membres, de se réunir librement. Les parents doivent pouvoir choisir de donner une éducation religieuse à leurs enfants (n.4).

La nature sociale de l'homme et la religion elle-même requièrent la vie en communauté avec d'autres. Les communautés religieuses doivent pouvoir se régir selon leurs propres normes: notamment liberté de choisir leurs ministres, de communiquer, d'enseigner, de propager la foi par la persuasion, de s'associer (DH 4). Les parents ont le droit d'éduquer leurs enfants selon leurs convictions (DH 5).

e) L’Etat

La société moderne pluraliste et l'Etat de droit religieusement neutre sont les nouvelles données à partir desquelles la doctrine précise maintenant ce qui est naturellement juste. L'Etat est tenu de se conformer à l'ordre moral naturel, qui l'oblige à observer une attitude d'égale justice envers tous les hommes qui s'engagent dans une démarche religieuse authentique (cf. DH 1).

Le législateur civil est renvoyé à l'ordre naturel qui est la mesure de la loi positive. Le concile refait alors le parcours théorique des Etats qui ont ratifié le droit à la liberté religieuse, mais à partir des prémices de la doctrine sociale de l'Eglise. Tout Etat devrait proclamer la liberté de conscience et de religion parce que ces libertés sont des requêtes universelles de la personne humaine.

Ainsi, les pouvoirs publics ne doivent ni imposer ni empêcher une adhésion religieuse, ni s'acharner à détruire le phénomène religieux (DH 3; 6; 15). Ils doivent proclamer la liberté religieuse comme un droit civil et en garantir l'exercice effectif. Cependant l'Etat est lié à la vérité morale qui est de l'ordre de la raison, et donc ultimement à un principe suprême de vérité et de justice qu'il peut appeler Dieu sans pour autant faire un choix religieux exclusif. L'Etat est au service du bien commun de tous les citoyens, qui comporte la promotion de tous les biens nécessaires à leur perfectionnement, y compris la liberté de suivre leur conscience en matière religieuse (DH 6). Au nom du bien commun, ancré dans l'ordre moral objectif, l'Etat a la charge propre de faire respecter les droits de tous, de veiller à la paix et à la moralité publique (DH 7).

C’est dans sa nature que l'Etat puise ses droits et ses devoirs à l'égard des citoyens. Selon la doctrine de l'Eglise, le pouvoir politique ne résulte pas d'un contrat social arbitraire et changeant au gré des fluctuations des intérêts des uns et des autres. Il s'inscrit sur un horizon de droit naturel. Il tire sa légitimité du bien au service duquel il est placé. Il appartient à un ordre voulu par le Créateur. Cet ordre est éthique, universel, parce que fondé sur la nature sociale de l'homme. Il est au service de l'homme et non l'inverse. L’Etat est donc dans l'obligation de garantir la liberté des citoyens dans leur démarche en matière religieuse, en veillant au respect des droits égaux de tous. C'est là sa manière d'honorer Dieu, non en imposant une confession de foi religieuse ni en pratiquant une idéologie laïciste7.

L'Etat ne doit pas agir arbitrairement; il est lié "par des règles juridiques conformes à l'ordre moral objectif" (7). Le bien commun est la raison d’être de tout pouvoir constitué. La notion de bien commun renvoie à celle de vérité objective, et comprend le soutien à la vraie religion. Le concile a cependant eu recours à la notion d’ « ordre public » pour définir le rôle de l’Etat dans le déploiement de la liberté religieuse des personnes et des communautés. On est ainsi passé de l'ordre éthique à l'ordre juridique.

L’ordre public est la partie du bien commun confié à la force coercitive de la loi. Le service de l'ordre public peut éventuellement exiger une limitation de l’exercice de la liberté religieuse, dans des cas strictement fixés par la loi: la sauvegarde de la paix et de la moralité publiques et la protection des droits des tiers. Sur ce point, le concile se rapproche des définitions en vigueur dans les instruments internationaux et les constitutions de nombreux Etats.

Le concile déclare maintenir « la doctrine traditionnelle sur le devoir moral de l’homme et des sociétés (societatum) à l’égard de la vraie religion et de l’Eglise du Christ » (DH 1). Les sociétés et les pouvoirs publics honorent Dieu en créant les conditions pour l’exercice effectif de la liberté religieuse et en se conformant à l’ordre moral naturel8.

Ce principe n'exclut d'ailleurs pas que, pour des raisons historiques, l’Etat puisse continuer d'accorder une protection juridique spéciale à une communauté religieuse donnée, dans la mesure où les droits des autres sont loyalement assurés (cf. DH 6). Il convient de rappeler que le droit est une mesure et une proportion et que l'égalité n'est pas la réduction au plus petit dénominateur commun. Un Etat ne commet pas de discrimination lorsqu'il reconnaît l'importance sociologique et culturelle de la religion de son peuple.

De même que l’Etat ne peut pas décider des droits de l’homme, mais seulement les reconnaître, il n’a pas à décider de la vérité religieuse, mais il doit prendre objectivement acte du fait qu’une société est imprégnée des principes d’une religion.

Nul n’ignore que la sécularisation a conduit les Etats à imposer des substituts de la vraie religion comme croyance obligatoire, souvent sous la forme d’idéologies matérialistes et antireligieuses. Nous devons maintenir que le lien social dans la cité n’est pas, au premier degré la vraie religion, mais la liberté de religion, que la vraie religion porte en elle comme une exigence interne à sa nature.

f) L’Eglise

Dans la deuxième partie seulement, l'Eglise tient un discours sur l'origine divine de sa liberté propre, dont le Christ l'a dotée pour accomplir sa mission (DH 9) et sur la nécessaire liberté de l'acte de foi (DH 10). La liberté de foi chrétienne y apparaît comme une spécification de la liberté de religion en général.

Le concile réaffirme le principe séculaire de la « libertas Ecclesiae » comme fondement des relations de l'Eglise et de l'Etat, et synonyme de l'indépendance de l'Eglise par rapport à l'ordre temporel (Gaudium et spes 76 § 3). Cette libertas est revendiquée pour l'Eglise au titre du mandat divin qu'elle a reçu et parce qu'elle constitue au sein de la société civile, une société structurée (societas hominum). Depuis le XIe siècle, l'Eglise réclame sa libertas, à savoir son autonomie interne par rapport aux pouvoirs publics, en termes relatifs aux situations concrètes dans lesquelles elle est insérée. Maintenant elle réclame cette même autonomie à partir du régime (de la ratio) de la liberté religieuse (DH 13). Le concile estime que l'autonomie de l'Eglise en tant que société est assurée lorsque la liberté religieuse est correctement observée.

IV. Perspectives d’avenir

La liberté de croire sans contrainte externe et la liberté d’annoncer publiquement l’Evangile sont deux libertés d'origine divine, et ne se déduisent d'aucun droit humain (cf. DH 13).

La Déclaration constate que, sur ces deux points, il y a coïncidence ou "accord" avec les définitions des constitutions modernes.

-D'une part, la liberté de l'acte de foi (aspect personnel) est considérée comme assurée lorsqu'est appliquée la liberté civile en matière religieuse, telle qu'elle a été définie dans la première partie. "La liberté religieuse dans la société est en plein accord avec la liberté de foi chrétienne" (DH 9: plene est congrua).

-D'autre part, le concile estime que la "liberté de l'Eglise", pour laquelle cette même Eglise avait lutté pendant des siècles face aux prétentions des pouvoirs temporels, est garantie là où est convenablement assuré aux personnes et aux communautés le droit commun à la liberté religieuse. "Il y a donc accord (concordia) entre la liberté de l'Eglise et cette liberté religieuse qui, pour tous les hommes et toutes les communautés, doit être reconnue comme un droit et sanctionnée juridiquement" (DH 13).

A distance de cinquante ans, force est de constater que le panorama de la liberté religieuse n’est pas celui qu’espérait le concile. Il y a eu progrès de la liberté religieuse dans les pays anciennement sous domination communiste ; mais la situation est pire dans le monde islamique et hindouiste et dans les sociétés sécularisées. Dans l’espace public, la liberté religieuse est appréhendée de façon de plus en plus restrictive, comme une option individuelle intime, insignifiante pour la vie de la cité.

-La liberté religieuse n’est pas considérée comme dimension ontologique de la personne, mais comme un droit dérivé de l’idéal du pluralisme démocratique.

-Dans l’opinion et dans les médias, liberté religieuse est comprise comme synonyme de relativisme religieux.

-Certains courants comprennent la liberté religieuse comme liberté individuelle de croire et d’agir à sa guise à l’intérieur même de l’Eglise.

-La liberté religieuse promue par la Déclaration correspond à la structure de la religion chrétienne et des Etats de droit qui ont des racines chrétiennes. Le rapport individu – communauté religieuse – société civile – Etat fonctionne différemment dans les contextes musulmans, hindouiste, ou dans les systèmes d’athéisme d’Etat. La grande désillusion est de voir les Etats placer sous la même étiquette et appréhender de la même manière tout ce qui s’apparente à la religion, comme si toutes portaient en elles le souci de l’autonomie réciproque du temporel et du spirituel.

-Une conception réductrice de la liberté religieuse conduit à l’effacement de l’expression publique de la religion. Il a fallu deux arrêts de la Grande Chambre de la Cour européenne des droits de l’homme en 2009, pour casser les sentences de la première Chambre de cette même cour interdisant la présence du crucifix dans les lieux publics en Italie. Les citoyens sont égaux devant la loi, mais les réalités collectives qui existent dans la société ne sont pas égales par leur signification, leur influence, leur rôle historique et culturel. L’égalité n’est pas de nivellement mais de proportion.

-L’espace de liberté revendiqué par le concile pour y faire éclore la recherche de la vérité tend à se restreindre sous la pression des courants qui excluent du débat social les groupes constitués en référence à un Dieu de vérité et à un ordre naturel.

Est-il encore possible de considérer qu’il y a « convergence » (concordia, congrua) entre la conception catholique de la liberté religieuse et la liberté religieuse des législations séculières ? Dans certains cas oui, dans d’autres non. L’Eglise peut-elle s’en remettre à la société moderne et postmoderne pour que soit préservé l’espace de liberté de croire en Dieu ? Nous voyons partout les législations étatiques empiéter sur le domaine de la liberté de conscience et de religion, en imposant, par exemple, des normes contraires au respect de la vie et du mariage et en déconstruisant systématiquement l’anthropologie d’inspiration judéo- chrétienne. Les croyants et les Eglises assistent impuissantes à l’avancée du sécularisme et des religions qui ne connaissent pas la distinction fondatrice entre ce qui « est à César et ce qui est à Dieu ». C’est pourtant cette distinction qui rend possible l’épanouissement des libertés fondamentales dont jouissent les sociétés occidentales. La liberté de religion, comme invention du christianisme, rend justice à la vérité divine et à la liberté des consciences, à l’Etat de droit et au pluralisme de la société, à la liberté individuelle des personnes et à la liberté corporative de l’Eglise. Elle est au cœur de la doctrine sociale de l’Eglise.

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NOTES

1 Pour l'histoire, rappelons que l'Eglise médiévale estimait pouvoir user de la contrainte non envers les infidèles, mais envers les hérétiques et les schismatiques, pour les ramener à la foi qu'ils avaient un jour professée (cf. S. Thomas d'Aquin, Somme Théologique IIa IIae, q. 10, a. 8).
2 R. Minnerath, Le droit de l’Eglise à la liberté . Du Syllabus à Vatican II, Beauchesne, Paris 1982.
3 Encyclique « Non abbiamo bisogno »  49, in: AAS 23 (1939) 301-302. 4
4 AAS 55 (1963) 260.
5 Alfredo Ottaviani, Institutiones iuris publici ecclesiastici, 2 vol., Vatican, 1958-19604.
6 Cf. CEC 2108 : « Le droit à la liberté religieuse n’est ni la permission morale d’adhérer à l’erreur, ni un droit supposé à l’erreur, mais un droit naturel de la personne humaine à la liberté civile, c’est-à-dire à l’immunité de contrainte extérieure, dans de justes limites, en matière religieuse, de la part du pouvoir politique ».
7 Cf. Dignitatis humanae 6: "Il n'est pas permis au pouvoir public, par force, intimidation ou autres moyens, d'imposer aux citoyens la profession ou le rejet de quelque religion que ce soit, ou d'empêcher quelqu'un d'entrer dans une communauté religieuse ou de la quitter".
8 CEC 1214 dit : « Le devoir de rendre un culte authentique à Dieu concerne l’homme individuellement et socialement ».