Não há dúvida nenhuma que Marcelo Rebelo de Sousa com a insistência que coloca no seu catolicismo, principalmente quando toma posições contrárias às da Igreja, é, por muitos, considerado o “pregador” Dominical de maior audiência e de entre todos o que faz “sermões” mais longos.
No Domingo passado, ao que me garantem, deu a entender que o artigo do L’ Ossevartore Romano sobre Saramago era da autoria do director desse jornal e afirmou com todas as letras que o mesmo era violentíssimo. Concluiu, justificando a sua discordância, enquanto católico, em relação ao mesmo, asseverando que Deus era muito mais misericordioso que o director do referido órgão de comunicação.
Ora convirá esclarecer algumas coisas não vão os fiéis do professor ser induzidos em erro. Em primeiro lugar o artigo[1] não é do director, Giovanni Maria Vian, mas sim de Claudio Toscani; em segundo lugar trata-se de uma crítica literária, equilibrada e fundamentada, e não de um texto violento e muito menos violentíssimo – quando, por exemplo, o crítico chama irreverências (ainda para mais com as conotações positivas que esta expressão adquiriu nos dias de hoje) às blasfémias sacrílegas de Saramago só podemos concluir que a sua “moderação” de tão excessiva peca por defeito. Violentíssimos são muitos dos textos do escritor falecido. Enfim, o “pregador” que adora lisonjear as audiências violenta o texto do crítico para ficar de bem com a esquerda ateia e marxista; Em terceiro lugar, pode não se concordar com a análise crítica de C. Toscani, mas então argumente-se e não se invoque a Misericórdia de Deus. É claro que Deus é muito mais Misericordioso do que o director do jornal da Santa Sé, infinitamente mais Misericordioso do que qualquer um de nós e, sobretudo, mais Misericordioso do que José Saramago. Acontece, porém, que também é infinitamente Justo e, sobretudo, infinitamente mais justo que o irmão Marcelo.
Como católicos sempre rezámos pela conversão de Saramago agora que ele partiu continuemos a rezar por sua alma e deixemos que os mortos sepultem os seus mortos (cf. Mateus 8, 21).
Nuno Serras Pereira
01. 07. 2010
[1] L'onnipotenza (presunta) del narratore
di Claudio Toscani
"Quello di cui la morte non potrà mai essere accusata è di aver dimenticato a tempo indeterminato nel mondo qualche vecchio, solo per invecchiare sempre di più, senza alcun merito o altro motivo visibile".
Sia pure scomparso alla rispettabile età di 87 anni, di José Saramago non si potrà dire che il destino l'abbia tenuto in vita a tutti i costi, vedi la frase succitata, tolta dal romanzo Tutti i nomi, uscito in quel 1998 che lo vide provocatorio Nobel della letteratura.
"Saramago", cognome aggiunto all'anagrafico José Sousa, era nato nel 1922 ad Azinhaga in Portogallo, da una famiglia di contadini e braccianti. Trasferitosi a Lisbona nel 1924, qui aveva compiuto i suoi studi fino al diploma di tecnico meccanico. Non particolarmente complessa né movimentata, la sua vita veniva registrando vari lavori, tra cui l'editoria; un matrimonio nel 1944; un primo romanzo nel 1947 (Terra di peccato, che disconoscerà in sede di bibliografia ufficiale); l'iscrizione al Partito comunista nel 1969 e una militanza politica clandestina sino al 1974, quando la cosiddetta "rivoluzione dei garofani" (contro la dittatura di Caetano), ristabilisce le libertà democratiche.
Cinquantacinque anni compiva Saramago al suo vero primo romanzo, Manuale di pittura e di calligrafia (1977), ma nel resto della sua vita recupererà il tempo andato imponendosi in decine e decine di opere che coerentemente convergono attorno a pochi cespiti conduttori: la Storia maiuscola in filigrana a quella del popolo; una struttura autoritaria totalmente sottomessa all'autore, più che alla voce narrante, non solo onnisciente ma anche onnipresente; una tecnica dialogica in tutto debitrice all'oralità; un intento inventivo che non si cura di celare con la fantasia l'impronta ideologica d'eterno marxista; un tono da inevitabile apocalisse il cui perturbante presagio intende celebrare il fallimento di un Creatore e della sua creazione. E, infine, una strategica modalità, tematica ed espressiva a un tempo, impegnata a rendere quel che lui stesso ha definito la "profondità della superficie": qualcosa che allude sia a quel poco che conosciamo del tanto che rivendichiamo alla ragione, ma anche quel tanto che strappiamo alla realtà di quel poco che la ragione ci permette.
Chiamando a raccolta non molti ma primari maestri (da Kafka a Borges, da Eça de Queiros a Pessoa, da Antonio Vieira a Machado), Saramago diede da subito l'elenco degli artefici della sua formazione, collocandoli senza soluzione di continuità lungo un'onda di piena al cui estuario poneva la novecentesca inquietudine della letteratura, della storia, dell'arte, della politica e della religione, oltre che di se stesso.
E per quel che riguardava la religione, uncinata com'è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago non si fece mai mancare il sostegno di uno sconfortante semplicismo teologico: se Dio è all'origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l'effetto di ogni causa.
Un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perché del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche, invece di saltare al per altro aborrito piano metafisico e incolpare, fin troppo comodamente e a parte ogni altra considerazione, un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza. Prerogative, per così dire, che ben avrebbero potuto nascondere un mistero, oltre che la divina infinità delle risposte per l'umana totalità delle domande. Ma non per lui.
Giunto tardi al romanzo, si era rifatto, come s'è detto, con una serie di narrazioni. Dal 1980 in poi, nella bibliografia dell'opera di Saramago, si transita da Memoriale del Convento a L'anno della morte di Ricardo Reis (1984), che torna alla storia del Portogallo nel 1936; da La zattera di pietra (1986), avventura ecologica e demoniaca che immagina la deriva della Spagna dell'oceano tra magico quotidiano, metafora politica e nuove soluzioni atlantiche, a Storia dell'assedio di Lisbona (1989), libro in cui un revisore editoriale, inserendo una particella negativa (un "non") in un saggio storico, dà a Saramago il destro per giocare a falsificare l'evento, più per gioco che per convinta ideologia.
È il 1991 quando, inaugurando ciò che la critica ha chiamato il suo secondo tempo, lo scrittore pubblica Vangelo secondo Gesù, sfida alla memorie del cristianesimo di cui non si sa cosa salvare se, tra l'altro, Cristo è figlio di un Padre che imperturbato lo manda al sacrificio; che sembra intendersela con Satana più che con gli uomini; che sovrintende l'universo con potestà senza misericordia. E Cristo non sa nulla di Sé se non a un passo dalla croce; e Maria Gli è stata madre occasionale; e Lazzaro è lasciato nella tomba per non destinarlo a morte suppletiva.
Irriverenza a parte, la sterilità logica, prima che teologica, di tali assunti narrativi, non produce la perseguita decostruzione ontologica, ma si ritorce in una faziosità dialettica di tale evidenza da vietargli ogni credibile scopo.
Il secondo tempo di Saramago si diversifica poi con Cecità (1995), affresco apocalittico che denuncia la notte dell'etica in cui siamo sprofondati. Poi in campo esistenziale, sia con Tutti i nomi (1997), altra apocalisse dal pessimismo assoluto sospesa su una indifferenziata comunità di morti e di vivi, sia con Il racconto dell'isola sconosciuta (1998), parabola sull'uguaglianza dell'uomo tra gli uomini. In campo intellettuale, prima con La caverna (2000), che tra Kafka, Huxley e Orwell, dispiega un allarme meno disperato del solito e addirittura aperto alla speranza; poi, con L'uomo duplicato (2003), dove colui che si scopre identico a una comparsa televisiva finisce per smarrirsi in un garbuglio fattuale, psichico e spirituale.
Avvicinandosi alla fine, Saramago ci ha lasciato un "testamentario" Saggio sulla lucidità (del 2004), critica al funzionamento, se non alla funzionalità, delle odierne democrazie, contro le quali l'autore auspica una schiacciante maggioranza di "schede bianche", la più invisa espressione di volontà politica per un potere che solo così dovrebbe deflagrare. Poi, un "giocoso" Don Giovanni o il dissoluto assolto (del 2005), ossia il ritratto di un onore sociale offeso, giacché al grande amatore non riesce, nel testo, ciò per cui è da sempre famoso.
Fertile, comunque, la discesa creativa degli anni appena precedenti la scomparsa: dall'itinerante carovana di Il viaggio dell'elefante (2009), pittoresco, umoristico e "peripatetico", all'inaccettabile Caino (2010), romanzo-saggio sull'ingiustizia di Dio, parodiante antilettura biblica, per non dire di altri titoli che andrebbero segnalati, a onor del vero, ma quasi sempre per polemica o pretesto.
Saramago è stato dunque un uomo e un intellettuale di nessuna ammissione metafisica, fino all'ultimo inchiodato in una sua pervicace fiducia nel materialismo storico, alias marxismo. Lucidamente autocollocatosi dalla parte della zizzania nell'evangelico campo di grano, si dichiarava insonne al solo pensiero delle crociate, o dell'inquisizione, dimenticando il ricordo dei gulag, delle "purghe", dei genocidi, dei samizdat culturali e religiosi. L'Osservatore Romano - 20 giugno 2010