Libertino, affabulatore, animale da palcoscenico – fu lui ad inventare il concerto pianista-centrico tutt’ora in voga – viveur, presenzialista nei principali salotti bene dell’epoca e pure in quelli equivoci. Il soggetto in questione è il pianista-compositore ungherese Franz Liszt, nato esattamente due secoli fa (22 Ottobre 1811).
Nell’immaginario collettivo dei musicologi però non c’è posto per la qualifica di credente cattolico, anzi di cattolico teo-con tanto che chiuse gli occhi per sempre nella condizione di abate fiero difensore dell’ortodossia cattolica. E sì, perché la parabola di questo eccezionale artista iniziò tra amorazzi ed eccessi ma si concluse nel silenzio del Convento della Madonna del Rosario a Monte Mario. Lassù lo andò a trovare anche Pio IX che lo chiamava “il mio Palestrina”. Dopo otto giorni di esercizi spirituali il 25 aprile 1865 ricevette la tonsura in Vaticano, il 30 agosto gli ordini minori dall’elemosiniere del Pontefice e divenne così abate pur non vestendone mai l’abito. In genere l’afflato religioso del Nostro viene liquidato anche dalla più occhiuta esegesi storiografica come approdo ultimo di un bizzarro viaggiatore delle esperienze che la vita può offrire. Un’eccentricità tra le molte.
Ma le cose non stanno così come ben testimoniano le sue opere e i suoi scritti. In merito alle prime la produzione di carattere sacro è sterminata ed inizia anche in tenera età: difficile quindi sostenere che l’argomento “Dio” fosse estemporaneo e dettato da romantici umori. Spigoliamo qua e là tra i titoli dei suoi pezzi sacri o addirittura liturgici: la Messa per l’Incoronazione di Francesco Giuseppe, la Missa Choralis, la Missa Solemnis, il Requiem, le Campane del Duomo di Strasburgo, gli oratori Christus e La leggenda di Santa Elisabetta, la Via Crucis, le Armonie poetiche e religiose, le Consolations, l’Hymne de l’enfant à son réveil, l’Ave Maria, il Pater noster, il Pio IX – Inno al Papa, e poi un’infinità di variazioni e trascrizioni per uso liturgico, e mottetti, salmi, inni biblici.
Ma a parlar chiaro sulla fede religiosa di impronta cattolica di Liszt ci pensano anche e soprattutto le sue lettere. Queste ci testimoniano che la sua appartenenza a Santa Romana Chiesa non era frutto di un’insana senescenza ma scelta assunta con consapevolezza sin dagli anni più verdi. In una lettera del 1837 il 26enne di allora mette sotto la lente di ingrandimento il Liszt dell’altro ieri quando ne aveva appena 18 di anni, e scrive: «Verso quel tempo ebbi una malattia che si prolungò per due anni, in seguito alla quale la mia imperiosa necessità di fede e di dedizione, non trovando altra via d’uscita mi condusse alle austere pratiche del cattolicesimo. La mia fronte si chinò sugli umidi marmi di San Vincenzo de' Paoli; feci sanguinare il mio cuore, e il mio pensiero si umiliò. Una immagine di donna, pura e casta come l’alabastro dei scari vasi, fu l’ostia che offersi colle lacrime al Dio dei Cristiani; la rinuncia alle cose terrene fu l’unico movente, la sola parola della mia vita. Mi lasciavo vedere qual’ero, ragazzo entusiasta, artista simpatico, austero credente: in una parola tutto quello che si è a diciotto anni, quando si ama Dio e si amano gli uomini con animo appassionato e ardente». Tanto austero che critica il falso e svenevole pietismo: «Le lacrime amare, che talvolta scendono dalle nostre palpebre, sono come quelle di chi adora il vero Dio, vedi il suo tempio profanato dagli idoli e la folla stupida che si inginocchia davanti a divinità di fango e pietra, abbandonando l’altare della Madonna e il culto del Dio vivente».
Una fede quindi incardinata in Cristo eucarestia e nel culto mariano. Per Liszt la musica doveva possedere una missione di carattere principalmente religioso. Nel 1834 sulla Gazette Musicale esordisce con lo scritto “Sulla musica religiosa dell’avvenire”: «Oggi, quando l’altare trema e vacilla, oggi, quando il pulpito e le cerimonie religiose sono diventati motivo di dubbio e di ironia, bisogna necessariamente che l’arte esca dal tempio, che s’estenda e compia al di fuori le sue vaste evoluzioni». E in alcune lettere di qualche anno dopo: «L’arte deve ricordar al popolo le nobili dedizioni, le risoluzioni eroiche, la fortezza e l’umanità; essa deve farsi annunciatrice della provvidenza di Dio… Iddio ha forse racchiuso più gioia nell’obolo dell’artista che in tutto l’oro del milionario». In questi scritti giovanili riverbera la simpatia di Liszt per le correnti saint-simoniste e lamennesiane aperte ad un cristianesimo sociale (“Dio e il Popolo” era il suo motto in quegli anni). Egli infatti nel ’34 parla di «Musica umanitaria che unisca in colossale relazione teatro e chiesa», ed aggiunge, con tono quasi giacobino, che «diciotto secoli sono trascorsi da quando il Cristo ha predicato la fraternità umana e la sua parola non è ancora meglio compresa!».
Ma Liszt non si è mai piegato al credo statalista: «L’elemento poetico, e cioè religioso, dell’umanità è scomparso dai governi», così appunta in una lettera del ’37 lamentandosi delle derive laiciste degli stati europei. Già nel ’34 vagheggiava di farsi monaco ma l’idea di monachesimo che egli aveva in mente era molto simile a quella dei nostri preti post-contestazione del ’68. L’eremo deve essere riformato: una specie di luogo di lavoro dove ci sono operai, artisti, intellettuali, una sorta di opificio in cui si suda e prega tutti insieme, laici e religiosi. Nonostante ciò non cede alle lusinghe delle dottrine protosocialiste di matrice illuminista: «L’ombra di Voltaire, la statua di Rousseau – questi grandi distruttori di monasteri – ci attendevano sulle rive del Lemano», annota nella descrizione di un suo pellegrinaggio ad un santuario. E mai pensò alla musica come strumento di impegno sociale, di lotta culturale. Nel ’49 così scrive infatti: «Oggi l’arte non deve mescolarsi ai gridi rochi delle barricate: la sua religione è più alta e più pura, la sua azione è insieme più benefica e più durevole».
Né fu mai un idealista, un’utopista alla Rousseau: «Non sono artista al punto di essere assolutamente privo di buon senso nelle cose della vita reale e positiva». Poi con la maturità queste infezioni progressiste svanirono e la musica divenne strumento unicamente ascetico, scevro da ogni rivendicazione sociale. Alle soglie dei 55 anni così scrive: «Si può dire che la musica è essenzialmente religiosa e, come l’anima umana, naturalmente cristiana. E poiché s’unisce alla parola, quale più legittimo impiego delle sue energie che cantare l’uomo a Dio e di servire così da punto d’incontro tra i due mondi, il finito e l’infinito?». E nel ’77: «La musica è la sola arte che continua nel Paradiso». Queste righe non sono espressione di un vago sentimento religioso panteista e romantico bensì comprovano la vera fede cattolica del compositore ungherese: «L’arte non è affatto una religione a parte, ma è l’incarnazione formale della vera religione cattolica, apostolica e romana». E’ la bellezza stessa a portare a Dio. Ma se è vera bellezza, nata anche dal genio di artisti protestanti e illuministi, l’incontro non potrà che essere con l’unico vero Dio, cioè quello cattolico: «Palestrina e Lasso fino a Bach e Beethoven, che sono le cime dell’arte cattolica».
Ecco perché negli ultimi anni della sua vita si dedicherà alla musica liturgica, perché la più connaturata al fine di avvicinare l’uomo a Dio. Una musica che però deve avere un’aderenza strettissima con il rituale liturgico previsto da Santa Romana Chiesa altrimenti è “pseudo musica sacra” (ce l’aveva con Haydn e Mozart). In una lettera a Saint-Saëns, in cui gli consigliava di accorciare la sua Messa Solenne, così si esprime: «Si tratta di mantenere la pace, soprattutto in chiesa dove bisogna saper ubbidire in ispirito e nei fatti. L’arte qui deve essere soltanto un correlativo e tendere alla concomitanza più perfetta possibile con il rito».
La sua tensione esistenziale all’essenziale, cifra caratteristica dell’ultimo periodo della sua vita, lo conduce anche in campo musicale a cesellare composizioni le quali si fanno spesso – ma non sempre – semplici dal punto di vista stilistico, secondo l’estetica dei puristi ceciliani allora in voga. Le critiche non mancano ma con profonda umiltà così ribatte: «Che la mia antifona Cantantibus organis abbia prodotto un magro effetto non mi sorprende. Il pubblico cerca il divertimento. Volentieri mi rassegno a restarmene per le mie spese di modestia nelle mie composizioni religiose. Esse sono deboli, senza dubbio, e forse anche mancate – ma non di gusto volgare! Mi ripugna far brillare, trillare, tubare e sbraitare Santa Cecilia!». Sentisse il buon Franz le musiche che accompagnano oggi le celebrazioni liturgiche...
Nell’immaginario collettivo dei musicologi però non c’è posto per la qualifica di credente cattolico, anzi di cattolico teo-con tanto che chiuse gli occhi per sempre nella condizione di abate fiero difensore dell’ortodossia cattolica. E sì, perché la parabola di questo eccezionale artista iniziò tra amorazzi ed eccessi ma si concluse nel silenzio del Convento della Madonna del Rosario a Monte Mario. Lassù lo andò a trovare anche Pio IX che lo chiamava “il mio Palestrina”. Dopo otto giorni di esercizi spirituali il 25 aprile 1865 ricevette la tonsura in Vaticano, il 30 agosto gli ordini minori dall’elemosiniere del Pontefice e divenne così abate pur non vestendone mai l’abito. In genere l’afflato religioso del Nostro viene liquidato anche dalla più occhiuta esegesi storiografica come approdo ultimo di un bizzarro viaggiatore delle esperienze che la vita può offrire. Un’eccentricità tra le molte.
Ma le cose non stanno così come ben testimoniano le sue opere e i suoi scritti. In merito alle prime la produzione di carattere sacro è sterminata ed inizia anche in tenera età: difficile quindi sostenere che l’argomento “Dio” fosse estemporaneo e dettato da romantici umori. Spigoliamo qua e là tra i titoli dei suoi pezzi sacri o addirittura liturgici: la Messa per l’Incoronazione di Francesco Giuseppe, la Missa Choralis, la Missa Solemnis, il Requiem, le Campane del Duomo di Strasburgo, gli oratori Christus e La leggenda di Santa Elisabetta, la Via Crucis, le Armonie poetiche e religiose, le Consolations, l’Hymne de l’enfant à son réveil, l’Ave Maria, il Pater noster, il Pio IX – Inno al Papa, e poi un’infinità di variazioni e trascrizioni per uso liturgico, e mottetti, salmi, inni biblici.
Ma a parlar chiaro sulla fede religiosa di impronta cattolica di Liszt ci pensano anche e soprattutto le sue lettere. Queste ci testimoniano che la sua appartenenza a Santa Romana Chiesa non era frutto di un’insana senescenza ma scelta assunta con consapevolezza sin dagli anni più verdi. In una lettera del 1837 il 26enne di allora mette sotto la lente di ingrandimento il Liszt dell’altro ieri quando ne aveva appena 18 di anni, e scrive: «Verso quel tempo ebbi una malattia che si prolungò per due anni, in seguito alla quale la mia imperiosa necessità di fede e di dedizione, non trovando altra via d’uscita mi condusse alle austere pratiche del cattolicesimo. La mia fronte si chinò sugli umidi marmi di San Vincenzo de' Paoli; feci sanguinare il mio cuore, e il mio pensiero si umiliò. Una immagine di donna, pura e casta come l’alabastro dei scari vasi, fu l’ostia che offersi colle lacrime al Dio dei Cristiani; la rinuncia alle cose terrene fu l’unico movente, la sola parola della mia vita. Mi lasciavo vedere qual’ero, ragazzo entusiasta, artista simpatico, austero credente: in una parola tutto quello che si è a diciotto anni, quando si ama Dio e si amano gli uomini con animo appassionato e ardente». Tanto austero che critica il falso e svenevole pietismo: «Le lacrime amare, che talvolta scendono dalle nostre palpebre, sono come quelle di chi adora il vero Dio, vedi il suo tempio profanato dagli idoli e la folla stupida che si inginocchia davanti a divinità di fango e pietra, abbandonando l’altare della Madonna e il culto del Dio vivente».
Una fede quindi incardinata in Cristo eucarestia e nel culto mariano. Per Liszt la musica doveva possedere una missione di carattere principalmente religioso. Nel 1834 sulla Gazette Musicale esordisce con lo scritto “Sulla musica religiosa dell’avvenire”: «Oggi, quando l’altare trema e vacilla, oggi, quando il pulpito e le cerimonie religiose sono diventati motivo di dubbio e di ironia, bisogna necessariamente che l’arte esca dal tempio, che s’estenda e compia al di fuori le sue vaste evoluzioni». E in alcune lettere di qualche anno dopo: «L’arte deve ricordar al popolo le nobili dedizioni, le risoluzioni eroiche, la fortezza e l’umanità; essa deve farsi annunciatrice della provvidenza di Dio… Iddio ha forse racchiuso più gioia nell’obolo dell’artista che in tutto l’oro del milionario». In questi scritti giovanili riverbera la simpatia di Liszt per le correnti saint-simoniste e lamennesiane aperte ad un cristianesimo sociale (“Dio e il Popolo” era il suo motto in quegli anni). Egli infatti nel ’34 parla di «Musica umanitaria che unisca in colossale relazione teatro e chiesa», ed aggiunge, con tono quasi giacobino, che «diciotto secoli sono trascorsi da quando il Cristo ha predicato la fraternità umana e la sua parola non è ancora meglio compresa!».
Ma Liszt non si è mai piegato al credo statalista: «L’elemento poetico, e cioè religioso, dell’umanità è scomparso dai governi», così appunta in una lettera del ’37 lamentandosi delle derive laiciste degli stati europei. Già nel ’34 vagheggiava di farsi monaco ma l’idea di monachesimo che egli aveva in mente era molto simile a quella dei nostri preti post-contestazione del ’68. L’eremo deve essere riformato: una specie di luogo di lavoro dove ci sono operai, artisti, intellettuali, una sorta di opificio in cui si suda e prega tutti insieme, laici e religiosi. Nonostante ciò non cede alle lusinghe delle dottrine protosocialiste di matrice illuminista: «L’ombra di Voltaire, la statua di Rousseau – questi grandi distruttori di monasteri – ci attendevano sulle rive del Lemano», annota nella descrizione di un suo pellegrinaggio ad un santuario. E mai pensò alla musica come strumento di impegno sociale, di lotta culturale. Nel ’49 così scrive infatti: «Oggi l’arte non deve mescolarsi ai gridi rochi delle barricate: la sua religione è più alta e più pura, la sua azione è insieme più benefica e più durevole».
Né fu mai un idealista, un’utopista alla Rousseau: «Non sono artista al punto di essere assolutamente privo di buon senso nelle cose della vita reale e positiva». Poi con la maturità queste infezioni progressiste svanirono e la musica divenne strumento unicamente ascetico, scevro da ogni rivendicazione sociale. Alle soglie dei 55 anni così scrive: «Si può dire che la musica è essenzialmente religiosa e, come l’anima umana, naturalmente cristiana. E poiché s’unisce alla parola, quale più legittimo impiego delle sue energie che cantare l’uomo a Dio e di servire così da punto d’incontro tra i due mondi, il finito e l’infinito?». E nel ’77: «La musica è la sola arte che continua nel Paradiso». Queste righe non sono espressione di un vago sentimento religioso panteista e romantico bensì comprovano la vera fede cattolica del compositore ungherese: «L’arte non è affatto una religione a parte, ma è l’incarnazione formale della vera religione cattolica, apostolica e romana». E’ la bellezza stessa a portare a Dio. Ma se è vera bellezza, nata anche dal genio di artisti protestanti e illuministi, l’incontro non potrà che essere con l’unico vero Dio, cioè quello cattolico: «Palestrina e Lasso fino a Bach e Beethoven, che sono le cime dell’arte cattolica».
Ecco perché negli ultimi anni della sua vita si dedicherà alla musica liturgica, perché la più connaturata al fine di avvicinare l’uomo a Dio. Una musica che però deve avere un’aderenza strettissima con il rituale liturgico previsto da Santa Romana Chiesa altrimenti è “pseudo musica sacra” (ce l’aveva con Haydn e Mozart). In una lettera a Saint-Saëns, in cui gli consigliava di accorciare la sua Messa Solenne, così si esprime: «Si tratta di mantenere la pace, soprattutto in chiesa dove bisogna saper ubbidire in ispirito e nei fatti. L’arte qui deve essere soltanto un correlativo e tendere alla concomitanza più perfetta possibile con il rito».
La sua tensione esistenziale all’essenziale, cifra caratteristica dell’ultimo periodo della sua vita, lo conduce anche in campo musicale a cesellare composizioni le quali si fanno spesso – ma non sempre – semplici dal punto di vista stilistico, secondo l’estetica dei puristi ceciliani allora in voga. Le critiche non mancano ma con profonda umiltà così ribatte: «Che la mia antifona Cantantibus organis abbia prodotto un magro effetto non mi sorprende. Il pubblico cerca il divertimento. Volentieri mi rassegno a restarmene per le mie spese di modestia nelle mie composizioni religiose. Esse sono deboli, senza dubbio, e forse anche mancate – ma non di gusto volgare! Mi ripugna far brillare, trillare, tubare e sbraitare Santa Cecilia!». Sentisse il buon Franz le musiche che accompagnano oggi le celebrazioni liturgiche...