Ricordare l’immensa opera di Vallet de Goytisolo - di cui il filosofo italiano Michele Federico Sciacca (1908-1975), che gli era amico, ha scritto che «era fra gli autori che non sono celebri come dovrebbero essere avendo riguardo alla saggezza e ai meriti» - nei limiti di un breve articolo è impossibile. Mi limito però - oltre a raccomandare il volume, appena tradotto in italiano, del discepolo Estanislao Cantero Nuñez, Il realismo giuridico di J. Bms. Vallet de Goytisolo (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2011) - a segnalare tre spunti, di particolare attualità e molto vicini anche al Magistero di Benedetto XVI.
Il primo è esposto in un articolo pubblicato nel 1973 sulla rivista Verbo, che personalmente considero tra le pagine più significative di Vallet de Goytisolo, Del legislar como "legere" al legislar como "facere". Il passaggio descritto in questo articolo è decisivo per la nozione di diritto e per la storia dell’Europa. Che cos’è il diritto? La risposta a questo interrogativo dipende da altre due domande: esiste la verità? E la ragione la può conoscere? Se la risposta è sì, allora esiste una realtà oggettiva, "naturale", che il legislatore non crea ma della quale deve mettere al servizio la legge, riconoscendo che prima del diritto positivo esiste un diritto iscritto nella stessa natura - per il credente iscritto da Dio, creatore della natura -: il diritto naturale. Per chi crede nel diritto naturale l’autorità dunque non "crea" la norma ma la "legge" nella natura stessa delle cose: il legislare è un legere.
Con la svalutazione luterana della ragione - e nonostante il fatto che alcuni giuristi protestanti cerchino ancora di difendere il diritto naturale - si arriva rapidamente a negare o che esista una legge naturale ovvero che la ragione, se pure questa legge esiste, sia capace di conoscerla. L’autorità dunque non crea più la legge "leggendola" nel reale ma è autorizzata a inventarsela con un puro atto d’imperio e di volontà: si passa dal legislare come legere al legislare come facere. La nozione è molto comoda per il principe, che si trova così in grado di esercitare il suo potere secondo la regola dell’assolutismo: un potere absolutus, cioè solutus ab, "sciolto da" ogni vincolo a una legge naturale preesistente. Se non ci sono princìpi che la ragione può conoscere e che valgono per tutti, la volontà del sovrano non ha limiti.
Il secondo tema del pensiero di Vallet de Goytisolo che mi sembra particolarmente attuale è la denuncia della tecnocrazia. Il tema è in sintonia con l’enciclica del 2009 di Benedetto XVI Caritas in veritate ma, a ben vedere, è pure già contenuto in potenza nell’articolo del 1973 sul legislare come facere. La legge separata dal diritto naturale diventa infatti licenza e arbitrio per lo Stato - o per il giudice, quando travalicando la sua funzione decide di farsi a sua volta produttore di legge - di reinventare la realtà e di fare tutto quello che vuole. Per Vallet de Goytisolo - qui ispirato anche dal Magistero del venerabile Pio XII (1876-1958) - la premessa della tecnocrazia è la trasformazione del popolo in massa, un processo che rende gli individui sradicati dalla propria eredità regionale e nazionale, culturale e religiosa, plastici e malleabili, isolati dalle loro comunità naturali e soli di fronte allo Stato moderno che si appresta a manipolarli. E la conseguenza della tecnocrazia - lo schema, ancora, anticipa precisamente la Caritas in veritate - è il totalitarismo, che per Vallet de Goytisolo non è un tipo di Stato ma l’assorbimento totale e finale della società da parte di uno Stato che non risponde a scopi predefiniti da una nozione naturale di bene comune ma si dichiara libero d’inventarsi di volta in volta gli scopi che più gli aggradano.
Il terzo tema che ritorna nell’opera di Vallet de Goytisolo è quello del rapporto fra diritto naturale e libertà. I nemici moderni del diritto naturale hanno sostenuto che si tratta di una nozione che nuoce alla libertà, perché in quanto vaga e imprecisa si presta a essere interpretata in modi diversi e piegata alle esigenze di chi ha gli strumenti concettuali e l’autorevolezza per proclamarla. Questa affermazione ha di mira un nemico preciso, la Chiesa Cattolica, accusata di contrabbandare per "diritto naturale" quelle che in realtà sono sue posizioni derivate non dalla ragione, ma dalla fede, su temi come la vita o la famiglia. Questo tema carissimo a Vallet de Goytisolo è stato affrontato da Benedetto XVI, tra l’altro, nel discorso preparato per la visita all’Università La Sapienza di Roma del 17 gennaio 2008, come noto poi cancellata per l’opposizione di una piccola quanto faziosa minoranza di docenti e studenti. In quel discorso il Papa affrontava l’obiezione secondo cui la Chiesa, quando afferma di difendere il diritto naturale, «di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede».
La risposta che Benedetto XVI riassume in poche frasi è che usare bene la ragione significa guardare il reale: si tratta di una «theoría, come la chiama la tradizione greca», letteralmente un «vedere e comprendere». E se si guarda la realtà senza farsi condizionare dalle proprie passioni ci si accorge che ci sono davvero nel reale delle leggi intrinseche che valgono per tutti, che si sia credenti o non credenti, cattolici, musulmani o atei. Queste regole del gioco, questa grammatica della vita sociale sono l’unica alternativa a un caos in cui prevale chi grida più forte o chi è meglio in grado di esercitare la violenza, dunque prevale la tecnocrazia, che è maestra nella manipolazione delle masse.