segunda-feira, 28 de novembro de 2011

La bimba che non volevo nascerà

In La Bussola Quotidiana

di Isabella, 19 anni, Perugia

Pubblichiamo la testimonianza di Isabella, 19 anni, studentessa di Infermieristica, rimasta incinta dopo una relazione con un coetaneo che l'ha lasciata, dicendole che non vuole essere padre. Isabella coraggiosamente ha deciso di raccontare la sua storia, non una favoletta dal lieto fine scontato, ma la toccante esperienza di una ragazza come tante che d'improvviso viene scaraventata fuori dalla sua comoda normalità, una vicenda non priva di dubbi, incertezze, paure e proprio per questo straordinariamente autentica.


Mi sembra ieri. Il giorno in cui ho scoperto di essere incinta. Il primo test, l’ansia crescente, il secondo test, positivo. Lo fissavo: positivo positivo. La sensazione di smarrimento totale mi pervade in un istante, il terrore si impadronisce di me e io impietrita, incapace di reagire. Descrivere una sensazione del genere è difficile, quasi impossibile, è come una vibrazione che nasce dalle viscere e si propaga in tutto il corpo, un veleno letale dall’interno che ti mangia le energie e spegne ogni luce. L’unica cosa che ero in grado di vedere era la mia vita letteralmente distrutta, smembrata, i miei progetti frantumati, il futuro che stavo costruendo diventare un’utopia irraggiungibile. La persona che volevo essere non c’era più, era un ricordo lontano. I miei sogni erano svaniti, insieme ai miei 19 anni, me li ero giocati per sempre.

Solo il pensiero di dover comunicare la gravidanza ai miei genitori mi provocava un male indescrivibile, l’idea di vedere la delusione stampata sui loro volti e perdere la loro stima mi faceva impazzire, come uscire da questo disastro?

Eppure l’idea di abortire mi spaventava molto molto di più, il pensare dei gelidi strumenti infilarsi dentro di me e fare a pezzi un corpicino, no, non avrei potuto reggerlo. Avevo visto su internet alcune foto terrificanti di feti abortiti nelle primissime settimane… piccole miniature di una persona fatta a pezzi, non potevo. Dentro di me c’era una vita concepita per sbaglio, certamente non voluta, ma non avrei risolto il problema in quel modo, non avrei rimediato all’errore con un altro più grande e irreparabile. Eppure quel bambino proprio non lo volevo.

Contrariamente alle mie aspettative più tragiche, quando piangendo e piena di vergogna confessai ai miei genitori di aspettare un bambino, non ci furono né urla né porte sbattute. Solo silenzio, tanta preoccupazione sui loro volti, lacrime trattenute a stento dagli occhi di mia madre e poi tanto, tanto conforto e amore. Non che il percorso sia stato facile, anzi, ma non ho mai sentito venir meno questo amore, quello dei miei genitori, che nello smarrimento mi hanno capita e quello di mia sorella maggiore che non mi ha lasciato sola neanche un momento.

I primi tre mesi sono stati i più difficili. Molto prima del concepimento, il papà del bambino, giovanissimo come me, si era dimostrato instabile e, quel che è più grave, bugiardo e violento. Io ero debole e innamorata, e non riuscivo a staccarmi del tutto da lui perché di volta in volta credevo alle sue promesse alle sue parole, nonostante verso di me spesso mostrasse disprezzo: “Senza di me resterai sola per tutta la vita”, diceva. Quando gli ho detto che aspettavo un bambino le reazioni sono stati altalenanti. Prima gli scatti d’ira, poi pressioni le psicologiche: “l’aborto alla tua età è l’unica cosa intelligente da fare”, poi pesanti insinuazioni:“sicuro che il padre sia io?”, poi spariva, per tornare dolce come l’uomo più docile del mondo, e io lo accoglievo, ogni volta nel dolore. Al terzo mese è sparito del tutto, si era trovato un’altra ragazza. Senza fardello.

Sono stati momenti di profonda tristezza, provavo disprezzo per la persona con cui ero stata, mi appariva con tutta evidenza quanto fosse irrimediabilmente vuoto, superficiale, gelido. Mi odiavo, mi sono odiata per mesi interi, forse ancora adesso mi odio per non essermi allontanata prima, perché senza di lui adesso avrei ancora la mia vita da ventenne: gli amici, l’università, lo svago.

Nello sconforto più totale ho accettato, non senza difficoltà, di parlare con un sacerdote, la mia anima era dilaniata. Io non volevo quel figlio ma sapevo che non avrei mai vissuto serenamente compiendo la scelta più “facile” e più “ovvia”. Pur nelle paure e stretta dai dubbi avevo una cosa chiara: non volevo dannarmi l’anima compiendo un atto così terrificante. Don Fabio mi ha rassicurata, mi sentivo una madre degenere – perché non volevo uccidere io quella vita, eppure desideravo, speravo e addirittura a volte pregavo che mi capitasse un aborto spontaneo - mentre lui mi ha fatto sentire assolutamente normale: “Questa nascita sarà una grazia”, diceva. Io non ci credevo, a dire il vero, ma mi sentivo sollevata.

Avevo deciso di affidarmi al progetto di Dio, un progetto che non accettavo prima e faccio fatica a comprendere oggi. Era surreale, ma qualche tempo prima di scoprire di essere incinta, mi trovavo a riflettere proprio sul progetto di Dio sulle nostre vite. Ero in ospedale a fare il normale tirocinio previsto dalla mia facoltà e ogni giorno avevo a che fare con persone che combattevano malattie devastanti con una forza straordinaria. Mi sentivo in colpa, io, perché stavo bene, perché la mia vita era normalissima, non avevo particolari difficoltà, perché dentro quell’ospedale ci stavo solo per apprendere e studiare e non come quei malati, stesa su un letto per combattere il dolore e strappare un giorno alla morte. Mi ricordo bene che una sera, mi rivolsi a Dio, con una gratitudine immensa nel cuore, ringraziandolo per questa vita così perfetta in confronto a quelle vite di sofferenza. E quella stessa sera, mentre ero a letto, gli domandai quale fosse il Suo progetto per me, per la mia vita.

Non potevo immaginare che neanche un mese dopo, la mia normalissima vita sarebbe stata stravolta. A pensarci mi vien da ridere.

La mia bambina nascerà tra poco meno di un mese e lo ammetto, non provo amore e neanche affetto, mi dicono che è normale, che appena nascerà sarà diverso, ma lo stesso io non so che fare, non so ancora se tenerla, oppure darla in adozione. Non so cosa sia meglio per me, non so cosa sia peggio per lei.

Non mi resta che affidare a Dio questa decisione, l’ennesima, sperando che mi illumini. Tanto lo so che entrambe le scelte saranno difficili e dolorose, entrambe saranno un’enorme rinuncia. Di certo non mi pento di non avere abortito, sarebbe stato innaturale, perché ho capito da subito che c’era una vita dentro di me. Non “una vita” in astratto, la vita di un’altra persona dentro di me! Ricordo come fosse ieri la prima ecografia, quando ero ancora in tempo per abortire, per la prima volta ho sentito il cuoricino battere, ho pianto disperata. Oggi invece ironicamente rido pensando a chi dice: “è solo un grumo di cellule”. Se è così, prova a lasciarlo dove è, e vedi che succede. Che vuoi che sia un ammasso di cellule? Dici che non è un bambino, allora a cosa serve farlo a pezzi? Lascialo nel tuo corpo tranquillamente, tanto non è vivo, no? Coraggio, è ridicolo… Eppure ogni giorno si perdono nel nulla i pianti silenziosi di bambini che non avranno mai una vita, perché l’egoismo della loro mamma ha avuto la meglio.

Sono al nono mese, ho ancora molti dubbi, molte incertezze ma di una cosa sono certa: c’è sempre un’alternativa all’aborto. E chi sostiene che lasciare il proprio figlio in adozione sia un atto peggiore dell’abortire stesso, dovrebbe mettersi una mano sulla coscienza. Perché è un atto d’amore, dolore e sacrificio. Potrai convivere con te stessa, sapendo che quel figlio vive perché tu hai scelto di non ucciderlo. Sapendo che una famiglia si prenderà cura di lui con amore, e anche lui avrà la sua possibilità su questa terra. Perché una possibilità di vivere tu l’hai avuta, ed è giusto che ce l’abbia anche lui. Perché una possibilità ce la meritiamo tutti.