terça-feira, 19 de março de 2013

Messori: «Francesco è in linea con Ratzinger» - di Riccardo Cascioli

In NBQ 

«La luna di miele con papa Francesco di una certa cultura clericale agnostica, atea che tracima da tutti i media e di cui Eugenio Scalfari è papa, sarà bruscamente interrotta quando il Papa comincerà a parlare sul serio e toccherà i temi etici». Vittorio Messori, lo scrittore cattolico italiano più tradotto nel mondo, amico personale dei due papi precedenti, è assolutamente certo della continuità di papa Bergoglio con papa Ratzinger, anche se gli stili personali sono diversi. Ed esprime questa sua convinzione con un agile libro (La Chiesa di Francesco) che arriva da oggi in edicola con il Corriere della Sera ma che potrà essere acquistato anche indipendentemente (soltanto in edicola).

Messori, Benedetto XVI nel rinunciare al Pontificato si è riferito a sfide che la Chiesa ha davanti e che necessitano di grande forza per affrontarle. Quali sono queste le principali sfide che ora papa Francesco si troverà davanti?
 
Anzitutto devo premettere che, contrariamente a Eugenio Scalfari, non è certo mia intenzione suggerire al Papa quel che deve fare. Semplicemente da umile cronista posso dire  che sono sempre stato d’accordo con Ratzinger il quale da sempre, come cardinale e come papa, ha detto che il vero problema è che la fede, soprattutto in Occidente, si sta spegnendo come una candela che non trova più alimento. Il vero problema da cui tutto nasce è questo: l’eclisse della fede, il fatto che non ci crediamo più. Non siamo più pronti a scommettere sulla divinità di Cristo, sull’aldilà che ci aspetta. E in questo l’intellighenzia clericale non ci aiuta. Pensate ad esempio ai biblisti: hanno accettato acriticamente il metodo inventato dal protestantesimo, diciamo agnostico, il metodo cosiddetto storico-critico per cui del Vangelo quello che resta vero sono solo le note del biblista. Se tu prendi sul serio il Vangelo ti considerano un reazionario, però guai a te se non prendi sul serio le note del biblista.
 
Non a caso ho sempre pensato da tanti anni che in fondo la cosa davvero da riscoprire sia una seria apologetica, fatta come dice Pietro nella sua Lettera: con mansuetudine e rispetto, un’apologetica al contempo pacata e rigorosa.

In effetti Benedetto XVI ha rispolverato anche la parola “apologetica”.
 
Le ragioni per credere, le ragioni della fede sono il primo compito che oggi la Chiesa e, quindi, un papa devono porsi. E ripeto: non è un mio consiglio alla Scalfari per il Papa, questo è quanto ha ripetuto per una vita Ratzinger, prima cardinale poi papa, ed è anche quello che lui pover’uomo ha cercato di fare. Ad esempio i 3 volumetti su Gesù sono pura apologetica, nel senso migliore: cercare di confermare le radici dell’albero, perché il cristianesimo ormai sembra una quercia senza radici.

Mentre il mondo, e anche i cattolici, ascoltano più volentieri le parole sull’impegno sociale, sui poveri.
 
E’ il cosiddetto cristianesimo secondario: l’impegno, l’aiuto sociale sono tutte cose buone ma se non discendono dalla fede non hanno significato. Il dono maggiore che Ratzinger ci abbia fatto – a parte questi tre libretti, preziosi perché da un lato accetta i metodi esegetici moderni, e dall’altro dimostra come non distruggono le basi del cristianesimo - è l’Anno della Fede, che è cominciato a ottobre e che questo papa dovrà concludere.
 
Per il clericalmente corretto il termine “apologetica” suona male perché sembra di regressione. Nei seminari addirittura la parola è sparita e viene chiamata pudicamente teologia fondamentale. Ma in questa teologia fondamentale che si insegna – ho cercato di guardare i testi - non c’è nulla che rafforzi la fede. Si dà come al solito la fede per scontata e si fanno belle considerazioni attorno. Ma come diceva papa Ratzinger nel documento di indizione dell’Anno della Fede, avviene che oggi si prospettino i doveri del cattolico sul piano sociale, caritativo e così via dando però per scontato una fede sulla quale nessuno si interroga e che molto spesso non esiste più.
 
Insomma bisogna rimettere ordine: prima la fede, poi la morale; prima il cristianesimo primario, che è l’annuncio del kerigma, poi il cristianesimo secondario, che sono le opere – anche sociali – che derivano dall’accettazione del kerigma.

Lei crede che papa Francesco sarà in continuità con Benedetto XVI?
 
Sì. In questi giorni sono stati molto sottolineati gli elementi di discontinuità, addirittura in modo grottesco: tutti a scrivere che è andato da Santa Marta con lo stesso pulmino degli altri cardinali, che ha voluto pagare la pensione dove alloggiava prima dell’elezione (dimenticando peraltro che la pensione è di proprietà del Vaticano). Ma appunto queste sono cose grottesche, e sono certo che  questa luna di miele tra una certa cultura di cui Scalfari è il papa, questa cultura e questo clericalismo agnostico, ateo che tracima da tutti i media, questa luna di miele sarà presto bruscamente interrotta quando comincerà a parlare sul serio, per esempio di etica, di morale e così via. L’uomo ha 76 anni, non è una novità, di cose ne ha dette tante, sul piano della morale e sul piano catechetico. Sul piano della fede era in perfetta sintonia con Ratzinger. E quindi questa luna di miele è destinata clamorosamente a finire.

C’è però questa grande sottolineatura del suo impegno per i poveri.
 
Su questo c’è un clamoroso equivoco, perché si dimentica che tutti i santi sociali dell’800 – solo per stare a Torino don Bosco, il Cottolengo, Faà di Bruno –, tutti quelli che si rimboccarono le mani per aiutare i poveri, tutti quelli che cercarono di dare anche il pane del corpo ai disgraziati che si trovavano intorno, questi erano classificati sul piano teologico come dei reazionari. Erano tutti figli devotissimi di Pio IX e poi di Leone XIII. L’impegno sociale non vuol dire essere preti alla don Gallo, o andare d’accordo con teologi alla Hans Kung: tutta la santità sociale è una santità che si sporca le mani per l’assistenza anche materiale ma allo stesso tempo ama il catechismo della Chiesa e lo rispetta. Quindi c’è un grosso equivoco in cui cadono questi signori che disquisiscono senza sapere niente della dinamica cattolica. Bergoglio andava nelle periferie (villas miserias), ma ci sarebbe andato anche don Bosco. E forse che don Bosco era un innovatore? Che Bergoglio andasse nelle villas miserias non vuol dire affatto che sia un contestatore teologico. Anzi sul piano della morale e della catechesi è del tutto allineato con Benedetto XVI.
 
Don Bosco aveva un motto: pane e paradiso, che è molto bello. Pane nel senso che agli affamati bisognava dare anche il pane, però bisognava dargli anche il pane dello spirito. Dava ai ragazzi di strada accoglienza, gli insegnava un lavoro però questi ragazzi erano formati con estrema attenzione anche al catechismo, alla catechesi in linea perfetta con quella di Pio IX.
 
Questi signori che non sanno nulla e che discettano, dicono che questo è un prete sociale: benissimo, ma vedrete quando comincia a parlare di morale cosa dirà. Dirà esattamente quello che diceva Ratzinger.

Si sottolinea molto anche uno stile che rompe con tante formalità, come se fosse una rivoluzione, dimenticando che a suo tempo anche Giovanni Paolo II diede un bel po’ da fare a cerimonieri e uomini della sicurezza.
 
C’è davvero qualcosa di grottesco. E’ vero che ci sono troppi giornali, troppi telegiornali, troppe radio per cui c’è una iperinformazione ossessiva, quindi si deve andare a cercare anche il lato pittoresco. Ma si dimentica una grande verità: il Padreterno ci ha voluto tutti uguali e al contempo tutti diversi. Ognuno ha il suo carattere, il suo stile, ma non è questo quello che conta. Il Papa c’è soprattutto per una funzione: il magister e il custos fidei, custode e maestro della fede, il resto è tutto accessorio. A papa Bergoglio guardo come maestro e custode della fede, ma se lui ha certi gusti, un certo stile, un certo modo di muoversi e di parlare, non me ne può fregare di meno. Sono cose che fanno parte della straordinaria, meravigliosa varietà che il Padreterno ha voluto darci. Un papa non va giudicato dallo stile e dal carattere, ma dal suo insegnamento, perché questo è il suo compito. Faccio spesso l’esempio del papa Borgia: lui razzolava male, anzi malissimo, ma predicava bene. Seguo il papa Borgia non nel suo esempio ma nella sua predicazione. Fu un papa estremamente ortodosso, quindi a me non disturba affatto che poi andasse a letto con la figlia. Me ne dispiace, lo vorrei anche coerente, però se non lo è pazienza. E’ papa lo stesso se mi insegna la buona dottrina.

In molti hanno notato che papa Francesco insiste sul fatto di essere vescovo di Roma, non si riferisce mai a se stesso come al Papa.
 
Io non vedo male questo aspetto. Addirittura una volta mi è scappato detto in un articolo sul Corriere, che secondo me non sarebbe male se il papato si trasferisse al Laterano, dove c’è la cattedrale del vescovo di Roma. In fondo i papi sono in Vaticano solo da pochi secoli. Fino all’esilio ad Avignone e anche dopo stavano al Laterano e lì è la cattedra di Pietro. Secondo me, un trasferimento al Laterano sarebbe anche ipotizzabile, non mi disturberebbe. Per la logica dell’et et, il papa è al contempo il capo della Chiesa ma è anche un vescovo tra i vescovi. Ed è anche il vescovo di quella che era la capitale imperiale, per cui ha una maggiore autorità. La sottolineatura che il Papa è anche lui un vescovo – che poi per la sede in cui presiede gode di un autorità su tutta la Chiesa – non mi dispiace, in fondo è un aspetto che avevamo dimenticato. Il Vaticano è solo un’appendice al luogo dove Pietro fu martirizzato ma a parte la reliquia di Pietro non ci sono ragioni particolari. Il Papa non è legato a quel luogo, anzi il Papa sarebbe legato alla sua cattedra, che è quella del Laterano.
 
Quindi io non la vedo come Scalfari, secondo cui in questo modo comincia finalmente la Chiesa federale, una forma di Chiesa tipo Lega lombarda. Ma figurarsi se Bergoglio ha in mente il papato federale; non mette lontanamente in discussione la primazia del papa, però sottolineare che il papa è vescovo di Roma e quindi è chiamato in prima istanza a privilegiare le pecorelle che gli sono affidate  direttamente nella Chiesa di Roma, non mi dispiace perché non mette assolutamente in discussione quella che è l’unità ecclesiale.

Però, oltre a Scalfari, ci sono diversi episcopati o singoli vescovi che parlano di regionalizzazione della Chiesa, di una collegialità che intende dare maggiore potere alle conferenze episcopali.
 
Devo dire che più vado avanti più apprezzo i documenti del Vaticano II. Purtroppo siamo stati in qualche modo travolti dalle interpretazioni errate sia da sinistra sia da destra.  In realtà la collegialità intesa nel senso cattolico sta nella Lumen Gentium che è la Costituzione dogmatica sulla Chiesa, fa parte del Dna della Chiesa. Quindi la collegialità è qui, nella linea che la Lumen Gentium indica, non certo nel fare una Chiesa federale, che è impensabile. Perché in fondo c’è già una Chiesa federale e sono le Chiese ortodosse. Il Patriarca di Costantinopoli ha soltanto un primato d’onore. Non voglio affatto quello lì, neanche il Concilio lo dice, voglio un Papa che non presiede soltanto come un onore. Se però attorno a lui non ci sono dei servi ma dei confratelli nell’episcopato, penso che questo sia molto bello anche in una prospettiva teologica. Ma anche qui non c’è nessuna rottura con il passato: Ratzinger è uno dei padri teologici del Vaticano II, l’ha sempre detto: voi vi sbagliate, cadete nello stesso equivoco speculare, voi a destra e la cosiddetta sinistra perché parlate di un Concilio che non c’è mai stato. Se noi stiamo a Ratzinger, egli si è sempre riconosciuto in questi documenti, c’è anche lui dietro la stesura di questi testi, non poteva non pensarla come la Lumen Gentium. Autonomi e uniti.