L’amore trova un limite nel numero di figli. È quanto deve
aver pensato il giudice del Tribunale per i minorenni di Firenze che ha respinto
la richiesta di adozione di un minore straniero da parte di una coppia che ha
già 5 figli, di cui due adottati e non in perfetta salute. La famiglia, secondo
il magistrato, è “troppo numerosa” e questo “metterebbe a rischio l’equilibrio e
l’armonia che i due coniugi hanno saputo garantire ai propri figli fino ad ora”.
Insomma oltre il quinto figlio l’amore può diventare squilibrato e caotico. In
ossequio ad un curioso criterio merceologico applicato alla famiglia, la
quantità può intaccare la qualità.
La decisione sorprende perché proprio il fatto di avere una famiglia
numerosa avrebbe dovuto essere la prova provata che la coppia è
assolutamente idonea ad educare un sesto figlio. Sorprende anche perché nelle
valutazioni psico-sociali i coniugi richiedenti – coppia ormai solida perché
sposati da quasi trent’anni - erano risultati idonei all’adozione, tanto è vero
che erano stati già riconosciuti adatti a prendersi cura di figli non loro
avendo adottato due bambini in precedenza. Sorprende perché il giudice ha tirato
fuori dal cilindro un criterio per l’adottabilità – quello del numero di figli
della coppia richiedente – che non è presente nelle norme sull’adozione. E i
giudici, fino a prova costituzionalmente contraria, dovrebbero applicare le
leggi, non inventarsele. Tale criterio doveva essere lasciato semmai alla
prudente valutazione della coppia e non imposta a forza da un organo giudicante.
Sorprende perché la nostra Costituzione tutela le famiglie – in specie quelle
numerose - e il loro sviluppo, anche numerico. Sorprende infine perché la tutela
della vita privata sancito dall’art. 10 della Convenzione di Oviedo è chiamata
in causa molto spesso a sproposito da un’infinità di giudici soprattutto in
ambito europeo per consentire di tutto: dall’aborto alla fecondazione eterologa,
dall’adozione omosessuale all’eutanasia. Ma questa volta, guarda caso, tale
articolo non vale e lo Stato per tramite dei suoi giudici si arroga il diritto
di ficcare il naso nelle faccende private dei suoi cittadini.
Ben inteso: lo Stato lo può fare quando di mezzo c’è il bene
comune. E il benessere di un bambino è faccenda che riguarda tutti.
Quindi ben vengano regole e controlli per verificare se ci sono le condizioni e
le garanzie necessarie affinché il minore possa crescere in un ambiente sano. Ma
quello che sconcerta è il fatto che essere inseriti in una famiglia numerosa non
è un fattore positivo per i giudici, un titolo in più per avanzare in
graduatoria, una seria ipoteca alla felicità del bambino. Bensì è tutto
l’opposto: è un handicap al pari di una fedina penale non immacolata da parte
dei genitori adottanti. A rigor di logica tra breve dovremo aspettarci
provvedimenti dei tribunali che mirino a sottrarre bambini a coppie che hanno
“troppi” figli o perlomeno sanzioni pecuniarie per eccesso di numero di figli,
come accade in Cina. La prole dunque secondo il giudice fiorentino da bene che
arricchisce il rapporto matrimoniale è diventato inciampo, fardello che provoca
danni agli altri fratellini.
A fronte di tutto ciò l’Associazione Amici dei Bambini aveva
depositato un reclamo presso la Corte d’Appello di Firenze, reclamo cestinato
dal PM con le seguenti parole: “Perché questa coppia non riesce ad accontentarsi
di quello che ha avuto e a godere di quello che ha?”. La frase del Pubblico
Ministero è illuminante perché getta luce sul reale significato attribuito da
una certa cultura contemporanea sul valore dei figli e sugli istituti
dell’adozione e dell’affido. Tali istituti rispondono non all’esigenza degli
adulti di diventare padre e madre o di prendersi cura di un bambino per un certo
tempo, bensì l’opposto: rispondono al diritto del minore di crescere in una
famiglia o temporaneamente in un ambiente protetto. Il figlio, anche quello
naturale, ha valore in sé e non deve ridursi ad oggetto che soddisfa il nostro
bisogno di essere genitori. Il PM dunque sbaglia laddove crede che i due signori
siano alla ricerca di un sesto figlio per appagare una presunta loro fame di
genitorialità. Non si tratta di bulimia paterna o materna. L’adozione non è
stata pensata per il benessere degli adottanti – come invece pare credere il
Pubblico Ministero - ma degli adottati. Il punto di osservazione privilegiato
deve essere dunque quello del bambino: non esiste un diritto al figlio, bensì
esiste il diritto del bambino ad avere una famiglia.
E così ci troviamo in un Paese dove si danno in affido i bambini a
coppie gay, ma non si lasciano alle cure di una famiglia naturale. Le
due decisioni non sono in antitesi o schizofreniche, ma rispondono ad un unico
criterio: lotta alla famiglia a tutto campo. Dobbiamo assetare e affamare la
famiglia naturale per farla morire di inedia ed incentivare in ogni modo tutte
le altre relazioni interpersonali. Morte al matrimonio dunque, perché viva il
suo esatto opposto che si incarna nelle convivenze, nei “matrimoni” omosessuali,
negli affido “omosex”, nei poliamori e nei divorzi.