Eccellenza Reverendissima mons. Paolo Urso, vescovo della bella città siciliana di Ragusa,
Le indirizzo questa lettera aperta dopo avere letto non solo la Sua discussa e ormai famosa intervista al Quotidiano.net – uscita con il titolo «Il vescovo Urso: “Lo Stato riconosca l’unione gay”» –, ma anche le precisazioni che ha ritenuto opportuno fornire al sito locale Ragusa News.
La ringrazio, anzitutto, per le precisazioni. Mi fa piacere leggere che come pastore condivide la posizione del «Catechismo della Chiesa Cattolica» e del Magistero in genere, e ribadisce che «quella dell’omosessualità è oggettivamente una cosa disordinata». Lei ha ragione: non si deve confondere l’accoglienza e l’accompagnamento delle persone omosessuali, che fanno parte della grande misericordia e capacità di ascolto della Chiesa, con gli atti omosessuali, che rimangono «oggettivamente disordinati». Considerata la grande confusione che regna sul punto, affermare che quello degli omosessuali è semplicemente «un percorso differente» può forse prestarsi a interpretazioni ambigue. Ma aiuta a fare chiarezza la Sua precisazione che «Gesù avvicinava le prostitute, i peccatori, ma non per questo li condivideva».
D’accordo, dunque. E non mi verrebbe mai in mente di mettermi a dare lezioni di morale a un vescovo. Come ho scritto ad altro proposito su questo giornale, nutro viva antipatia per chi tira i vescovi per la veste episcopale cercando d’insegnare ai presuli a fare il loro mestiere.
Tuttavia, nella Sua intervista, Lei fa una distinzione che mi permette, sempre – ci mancherebbe altro – con il dovuto rispetto dovuto a un successore degli Apostoli, d’intervenire come laico. Afferma infatti che altro è il giudizio morale, altra è la valutazione politica, su cui Ella si esprime come cittadino italiano. In quanto cittadino, «educato alla laicità dello Stato», Lei afferma che lo Stato deve riconoscere le unioni di fatto: «Uno Stato laico come il nostro non può ignorare il fenomeno delle convivenze, deve muoversi e definire diritti e doveri per i partner. Poi la valutazione morale spetterà ad altri».
E questo riconoscimento dovrebbe estendersi anche alle unioni omosessuali. «Quando due persone decidono, anche se sono dello stesso sesso, di vivere insieme, è importante che lo Stato riconosca questo stato di fatto. Che va chiamato con un nome diverso dal matrimonio, altrimenti non ci intendiamo».
Qui, naturalmente, non stiamo più parlando di teologia morale – di cui i vescovi sono per definizione maestri – ma di politica, un ambito dove l’instaurazione cristiana dell’ordine temporale, come insegna il Concilio Ecumenico Vaticano II, è compito primario dei laici. Non mi sembra dunque di commettere un’invasione di campo segnalandoLe alcuni elementi di fatto e di principio che sembrano militare oggettivamente contro la Sua posizione.
Parto da un tema di fatto. È apprezzabile che Lei ribadisca che, comunque, una unione omosessuale non è un matrimonio, e che se si arrivasse a chiamare «matrimonio» un’unione fra persone dello stesso sesso questo causerebbe seri problemi sociali. Di fatto, tuttavia, la maggioranza dei Paesi che hanno concesso forme di riconoscimento alle unioni fra persone dello stesso sesso hanno poi introdotto leggi che hanno effettivamente creato un «matrimonio» omosessuale, chiamato proprio con questo nome. Il Magistero cattolico ha parlato più volte di una «legge del piano inclinato»: se si apre la porta al riconoscimento di queste unioni con il nome di PACS, DICO o simili, il matrimonio è dietro l’angolo come tappa successiva.
Mi permetto di consigliarLe la lettura del libro sul matrimonio omosessuale del filosofo francese Thibaud Collin. Collin si definisce un sostenitore pentito dei PACS (Patti Civili di Solidarietà), nati in Francia e da qui esportati in tanti altri Paesi. Aveva accettato i PACS, scrive, perché lo avevano convinto che questi erano l’alternativa al matrimonio omosessuale, che Collin considera un rischio mortale per la famiglia. Date agli attivisti omosessuali i PACS, gli dicevano i suoi amici: avranno risolto i loro problemi, e non chiederanno più il matrimonio. Senonché non si era ancora asciugato l’inchiostro della firma dell’allora presidente Jacques Chirac sulla legge sui PACS che già quegli stessi che avevano usato questo argomento si affrettavano a presentare proposte di legge per il matrimonio omosessuale, che hanno fatto il loro cammino e ora ritornano nella campagna elettorale francese. Dunque mentivano: i PACS (o DICO, o come altro li si chiami) non sono l’alternativa ma l’apripista al matrimonio omosessuale. Dopo il quale verranno – la Gran Bretagna insegna – il diritto delle coppie gay ad adottare bambini, e l’obbligo per gli enti anche privati (compresi quelli cattolici, a pena di chiusura) che si occupano di adozioni a non discriminare fra coppie etero e omosessuali quando si tratta di scegliere a chi dare in adozione un bambino. «Legge del piano inclinato», appunto.
In realtà, lo scivolamento sul piano inclinato comincia prima del riconoscimento delle coppie omosessuali. Comincia quando si riconoscono le coppie di fatto, anche se composte da persone di sesso diverso. Contrariamente a quanto Lei afferma, questo riconoscimento è una vera minaccia per il matrimonio. Il 12 gennaio 2006 il Papa ha ricordato agli amministratori di Roma e del Lazio che è «un grave errore oscurare il valore e le funzioni della famiglia legittima fondata sul matrimonio, attribuendo ad altre forme di unione impropri riconoscimenti giuridici, dei quali non vi è, in realtà, alcuna effettiva esigenza sociale». L’11 gennaio 2007, parlando di nuovo agli stessi amministratori romani e laziali, Benedetto XVI è tornato sul punto, definendo «pericolosi e controproducenti quei progetti che puntano ad attribuire ad altre forme di unione impropri riconoscimenti giuridici, finendo inevitabilmente per indebolire e destabilizzare la famiglia legittima fondata sul matrimonio».
Temerei di annoiarla, eccellenza, elencando le molte altre volte in cui il Pontefice ha ripetuto lo stesso concetto. Questi riconoscimenti sono «impropri», «pericolosi», «controproducenti»; destabilizzano i matrimoni; sostenerli è un «grave errore». Ma forse il Papa continua a ripetere le stesse cose perché molti non le ascoltano.
Quanto poi al riconoscimento delle unioni omosessuali, nel discorso di auguri natalizi alla Curia romana – come sa, un genere letterario che offre sempre l’occasione al Pontefice per interventi particolarmente importanti – del 22 dicembre 2006, Benedetto XVI ha osservato che il problema è ancora più grave, perché tocca la natura stessa della persona umana. In effetti, tali riconoscimenti non propongono nulla di meno che «la relativizzazione della differenza dei sessi. Diventa così uguale il mettersi insieme di un uomo e una donna o di due persone dello stesso sesso. Con ciò vengono tacitamente confermate quelle teorie funeste che tolgono ogni rilevanza alla mascolinità e alla femminilità della persona umana, come se si trattasse di un fatto puramente biologico; teorie secondo cui l’uomo – cioè il suo intelletto e la sua volontà – deciderebbe autonomamente che cosa egli sia o non sia. C’è in questo un deprezzamento della corporeità, da cui consegue che l’uomo, volendo emanciparsi dal suo corpo – dalla “sfera biologica” – finisce per distruggere se stesso».
Anche in questo caso, il Papa ha risposto all’obiezione consueta, che ormai suona come un disco rotto, secondo cui la laicità dello Stato imporrebbe tali riconoscimenti, e la Chiesa dovrebbe tacere. «Se ci si dice che la Chiesa non dovrebbe ingerirsi in questi affari, allora noi possiamo solo rispondere: forse che l’uomo non ci interessa? I credenti, in virtù della grande cultura della loro fede, non hanno forse il diritto di pronunciarsi in tutto questo? Non è piuttosto il loro – il nostro – dovere alzare la voce per difendere l’uomo, quella creatura che, proprio nell’unità inseparabile di corpo e anima, è immagine di Dio?».
Ecco, Eccellenza, Lei è noto ai Suoi diocesani per alzare la voce per molte cause, fra cui nella recente intervista ricorda come a Lei particolarmente care la lotta contro la base NATO di Comiso e quella per un «raccordo stradale migliore tra Ragusa e Catania». Quest’ultima causa è certamente popolare a Ragusa. Ma, vedendo le cose da più lontano, mi piacerebbe – con il dovuto rispetto – che ci fosse un raccordo migliore pure fra le Sue prese di posizione sul riconoscimento delle unioni di fatto, anche – o in particolare – fra persone dello stesso sesso, e quelle del Magistero pontificio: a chiarezza ed edificazione dei cattolici, a illuminazione della politica che ne ha tanto bisogno, e a maggior gloria di Dio, anche sociale.
Le indirizzo questa lettera aperta dopo avere letto non solo la Sua discussa e ormai famosa intervista al Quotidiano.net – uscita con il titolo «Il vescovo Urso: “Lo Stato riconosca l’unione gay”» –, ma anche le precisazioni che ha ritenuto opportuno fornire al sito locale Ragusa News.
La ringrazio, anzitutto, per le precisazioni. Mi fa piacere leggere che come pastore condivide la posizione del «Catechismo della Chiesa Cattolica» e del Magistero in genere, e ribadisce che «quella dell’omosessualità è oggettivamente una cosa disordinata». Lei ha ragione: non si deve confondere l’accoglienza e l’accompagnamento delle persone omosessuali, che fanno parte della grande misericordia e capacità di ascolto della Chiesa, con gli atti omosessuali, che rimangono «oggettivamente disordinati». Considerata la grande confusione che regna sul punto, affermare che quello degli omosessuali è semplicemente «un percorso differente» può forse prestarsi a interpretazioni ambigue. Ma aiuta a fare chiarezza la Sua precisazione che «Gesù avvicinava le prostitute, i peccatori, ma non per questo li condivideva».
D’accordo, dunque. E non mi verrebbe mai in mente di mettermi a dare lezioni di morale a un vescovo. Come ho scritto ad altro proposito su questo giornale, nutro viva antipatia per chi tira i vescovi per la veste episcopale cercando d’insegnare ai presuli a fare il loro mestiere.
Tuttavia, nella Sua intervista, Lei fa una distinzione che mi permette, sempre – ci mancherebbe altro – con il dovuto rispetto dovuto a un successore degli Apostoli, d’intervenire come laico. Afferma infatti che altro è il giudizio morale, altra è la valutazione politica, su cui Ella si esprime come cittadino italiano. In quanto cittadino, «educato alla laicità dello Stato», Lei afferma che lo Stato deve riconoscere le unioni di fatto: «Uno Stato laico come il nostro non può ignorare il fenomeno delle convivenze, deve muoversi e definire diritti e doveri per i partner. Poi la valutazione morale spetterà ad altri».
E questo riconoscimento dovrebbe estendersi anche alle unioni omosessuali. «Quando due persone decidono, anche se sono dello stesso sesso, di vivere insieme, è importante che lo Stato riconosca questo stato di fatto. Che va chiamato con un nome diverso dal matrimonio, altrimenti non ci intendiamo».
Qui, naturalmente, non stiamo più parlando di teologia morale – di cui i vescovi sono per definizione maestri – ma di politica, un ambito dove l’instaurazione cristiana dell’ordine temporale, come insegna il Concilio Ecumenico Vaticano II, è compito primario dei laici. Non mi sembra dunque di commettere un’invasione di campo segnalandoLe alcuni elementi di fatto e di principio che sembrano militare oggettivamente contro la Sua posizione.
Parto da un tema di fatto. È apprezzabile che Lei ribadisca che, comunque, una unione omosessuale non è un matrimonio, e che se si arrivasse a chiamare «matrimonio» un’unione fra persone dello stesso sesso questo causerebbe seri problemi sociali. Di fatto, tuttavia, la maggioranza dei Paesi che hanno concesso forme di riconoscimento alle unioni fra persone dello stesso sesso hanno poi introdotto leggi che hanno effettivamente creato un «matrimonio» omosessuale, chiamato proprio con questo nome. Il Magistero cattolico ha parlato più volte di una «legge del piano inclinato»: se si apre la porta al riconoscimento di queste unioni con il nome di PACS, DICO o simili, il matrimonio è dietro l’angolo come tappa successiva.
Mi permetto di consigliarLe la lettura del libro sul matrimonio omosessuale del filosofo francese Thibaud Collin. Collin si definisce un sostenitore pentito dei PACS (Patti Civili di Solidarietà), nati in Francia e da qui esportati in tanti altri Paesi. Aveva accettato i PACS, scrive, perché lo avevano convinto che questi erano l’alternativa al matrimonio omosessuale, che Collin considera un rischio mortale per la famiglia. Date agli attivisti omosessuali i PACS, gli dicevano i suoi amici: avranno risolto i loro problemi, e non chiederanno più il matrimonio. Senonché non si era ancora asciugato l’inchiostro della firma dell’allora presidente Jacques Chirac sulla legge sui PACS che già quegli stessi che avevano usato questo argomento si affrettavano a presentare proposte di legge per il matrimonio omosessuale, che hanno fatto il loro cammino e ora ritornano nella campagna elettorale francese. Dunque mentivano: i PACS (o DICO, o come altro li si chiami) non sono l’alternativa ma l’apripista al matrimonio omosessuale. Dopo il quale verranno – la Gran Bretagna insegna – il diritto delle coppie gay ad adottare bambini, e l’obbligo per gli enti anche privati (compresi quelli cattolici, a pena di chiusura) che si occupano di adozioni a non discriminare fra coppie etero e omosessuali quando si tratta di scegliere a chi dare in adozione un bambino. «Legge del piano inclinato», appunto.
In realtà, lo scivolamento sul piano inclinato comincia prima del riconoscimento delle coppie omosessuali. Comincia quando si riconoscono le coppie di fatto, anche se composte da persone di sesso diverso. Contrariamente a quanto Lei afferma, questo riconoscimento è una vera minaccia per il matrimonio. Il 12 gennaio 2006 il Papa ha ricordato agli amministratori di Roma e del Lazio che è «un grave errore oscurare il valore e le funzioni della famiglia legittima fondata sul matrimonio, attribuendo ad altre forme di unione impropri riconoscimenti giuridici, dei quali non vi è, in realtà, alcuna effettiva esigenza sociale». L’11 gennaio 2007, parlando di nuovo agli stessi amministratori romani e laziali, Benedetto XVI è tornato sul punto, definendo «pericolosi e controproducenti quei progetti che puntano ad attribuire ad altre forme di unione impropri riconoscimenti giuridici, finendo inevitabilmente per indebolire e destabilizzare la famiglia legittima fondata sul matrimonio».
Temerei di annoiarla, eccellenza, elencando le molte altre volte in cui il Pontefice ha ripetuto lo stesso concetto. Questi riconoscimenti sono «impropri», «pericolosi», «controproducenti»; destabilizzano i matrimoni; sostenerli è un «grave errore». Ma forse il Papa continua a ripetere le stesse cose perché molti non le ascoltano.
Quanto poi al riconoscimento delle unioni omosessuali, nel discorso di auguri natalizi alla Curia romana – come sa, un genere letterario che offre sempre l’occasione al Pontefice per interventi particolarmente importanti – del 22 dicembre 2006, Benedetto XVI ha osservato che il problema è ancora più grave, perché tocca la natura stessa della persona umana. In effetti, tali riconoscimenti non propongono nulla di meno che «la relativizzazione della differenza dei sessi. Diventa così uguale il mettersi insieme di un uomo e una donna o di due persone dello stesso sesso. Con ciò vengono tacitamente confermate quelle teorie funeste che tolgono ogni rilevanza alla mascolinità e alla femminilità della persona umana, come se si trattasse di un fatto puramente biologico; teorie secondo cui l’uomo – cioè il suo intelletto e la sua volontà – deciderebbe autonomamente che cosa egli sia o non sia. C’è in questo un deprezzamento della corporeità, da cui consegue che l’uomo, volendo emanciparsi dal suo corpo – dalla “sfera biologica” – finisce per distruggere se stesso».
Anche in questo caso, il Papa ha risposto all’obiezione consueta, che ormai suona come un disco rotto, secondo cui la laicità dello Stato imporrebbe tali riconoscimenti, e la Chiesa dovrebbe tacere. «Se ci si dice che la Chiesa non dovrebbe ingerirsi in questi affari, allora noi possiamo solo rispondere: forse che l’uomo non ci interessa? I credenti, in virtù della grande cultura della loro fede, non hanno forse il diritto di pronunciarsi in tutto questo? Non è piuttosto il loro – il nostro – dovere alzare la voce per difendere l’uomo, quella creatura che, proprio nell’unità inseparabile di corpo e anima, è immagine di Dio?».
Ecco, Eccellenza, Lei è noto ai Suoi diocesani per alzare la voce per molte cause, fra cui nella recente intervista ricorda come a Lei particolarmente care la lotta contro la base NATO di Comiso e quella per un «raccordo stradale migliore tra Ragusa e Catania». Quest’ultima causa è certamente popolare a Ragusa. Ma, vedendo le cose da più lontano, mi piacerebbe – con il dovuto rispetto – che ci fosse un raccordo migliore pure fra le Sue prese di posizione sul riconoscimento delle unioni di fatto, anche – o in particolare – fra persone dello stesso sesso, e quelle del Magistero pontificio: a chiarezza ed edificazione dei cattolici, a illuminazione della politica che ne ha tanto bisogno, e a maggior gloria di Dio, anche sociale.