In NBQ
«Il Vaticano mi odia», afferma a un certo punto di «Inferno», il nuovo
romanzo di Dan Brown, la dottoressa Elizabeth Sinskey, direttrice
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e santa laica del racconto.
«Anche lei? Pensavo di essere l’unico», risponde Robert Langdon, il
professore di simbologia di Harvard già protagonista dei precedenti
romanzi «Angeli e demoni», «Il Codice da Vinci» e «Il simbolo perduto»,
che svolge sempre la funzione di portavoce delle idee di Dan Brown.
L’avversione per «il Vaticano», cioè per la Chiesa Cattolica, è
il filo rosso che tiene uniti i romanzi di Dan Brown. In «Angeli e
demoni» – scritto prima de «Il Codice da Vinci», anche se tradotto dopo
in italiano – scopriamo che la Chiesa è da secoli nemica della scienza.
Ne «Il Codice da Vinci» Brown cerca di distruggere le fondamenta
stessa del cristianesimo, rivelandoci che Gesù era sposato con Maria
Maddalena, non pensava di essere Dio e non intendeva fondare la Chiesa.
Ne «Il simbolo perduto» il romanziere americano aggiunge che la
tradizionale rivale della Chiesa, la massoneria, è un’organizzazione
molto più simpatica, illuminata e amica del progresso. Stavolta… e qui
devo chiedere al lettore interessato a farsi sorprendere dai colpi di
scena di Brown di smettere la lettura di questo articolo, perché – pur
senza scendere in troppi particolari – per illustrare l’ideologia che
presiede a «Inferno» è necessario dire qualcosa della trama.
Stavolta Langdon – che all’inizio del romanzo ha perso la memoria
e si trova in un letto d’ospedale a Firenze – è impegnato in una corsa
contro il tempo per evitare una pandemia, un’epidemia planetaria
scatenata – prima di suicidarsi – dallo scienziato svizzero Bertrand
Zobrist. Lo scienziato, un famoso biochimico, fa parte di un’ala estrema
del Transumanesimo, un movimento realmente esistente, alle cui origini
c’è il biologo Julian Huxley (1887-1975), che propugna la
trasformazione della natura umana in una realtà di livello fisicamente e
intellettualmente superiore attraverso l’uso senza limitazioni
dell’ingegneria genetica. Nel romanzo, Zobrist si convince che gli scopi
del Transumanesimo non potranno essere raggiunti, perché richiedono
tempi lunghi e nel frattempo l’umanità sarà annientata dalla crescita
demografica. Come spiega un’altra scienziata a Langdon, «la fine della
nostra specie è alle porte, Non sarà causata dal fuoco né dallo zolfo,
dall’apocalisse o da una guerra nucleare… Il collasso globale sarà
provocato dal numero di abitanti del pianeta. La matematica non è
un’opinione».
Zobrist ha dunque pensato a una soluzione drastica. Ha nascosto
nell’acqua in un luogo molto frequentato una sacca idrosolubile, che
entro pochi giorni da quando Langdon entra in scena si aprirà e
libererà un virus in grado di diffondersi rapidamente nel mondo intero,
risolvendo drasticamente il problema della sovrappopolazione. Aiutato
dall’inevitabile bella signora, – ce n’è una diversa in ogni romanzo –
di cui finirà per innamorarsi, Langdon si mette dunque alla ricerca
della sacca letale. Decifra indizi lasciati dallo stesso Zobrist,
fanatico cultore dell’«Inferno» di Dante Alighieri (1265-1321), che
alludono alla «Divina Commedia», al pittore e storico dell’arte
rinascimentale Giorgio Vasari (1511-1574) e all’astuto e controverso
doge veneziano Enrico Dandolo (1107-1205), che lo portano da Firenze a
Venezia e da Venezia a Istanbul. Perché Zobrist – se veramente voleva
che la sacca non fosse scoperta – abbia lasciato degli indizi che un
esperto di simboli può decifrare abbastanza facilmente non è veramente
spiegato.
Ma l’appassionato di Dan Brown trova comunque quello che cerca:
inseguimenti mozzafiato quasi in ogni capitolo, perché con Langdon
corrono per trovare la sacca – senza che si capisca subito chi lavora
per chi, chi finge, chi fa il doppio gioco – gli agenti
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità guidati dalla dottoressa
Sinskey, quelli del «Consortium», una società privata di «contractor» –
Brown afferma che esiste davvero, gli ha solo cambiato nome – disposta a
fare qualunque cosa per il migliore offerente, e i Transumanisti
discepoli di Zobrist i quali intendono assicurarsi, dopo il suicidio del
loro maestro, che il suo piano giunga comunque a compimento.
Non senza un ulteriore ammonimento a saltare almeno questo paragrafo
rivolto a chi vuole leggere il romanzo e lasciarsi sorprendere dal
finale – che però è essenziale per capire gli aspetti ideologici –
menzionerò soltanto che Langdon, per una volta, fallisce. Quando arriva
al luogo dov’è nascosta la sacca, questa si è già aperta, e il virus ha
ormai rapidamente contagiato quasi tutti gli abitanti della Terra. Ma
non si tratta di un virus che uccide. Rende sterili, ma in alcuni casi
l’organismo riesce a difendersi così che questa sterilizzazione
forzata, inconsapevole e trasmissibile alle generazioni future colpisce
solo un terzo degli abitanti della Terra. E alla fine Langdon, la sua
bella e la stessa dottoressa Sinskey si rendono conto che Zobrist usava
sì metodi discutibili e perfino criminali ma i suoi scopi erano
giusti: conviene non cercare nessun antidoto e lasciare le cose come
stanno. Forse lo avrebbe voluto lo stesso Dante, il cui messaggio «non
riguardava tanto i tormenti dell’inferno quanto la forza dello spirito
umano nell’affrontare qualsiasi sfida, anche la più terribile». Questa
«laicizzazione» di Dante, che ignora il profondo cattolicesimo del
poeta, ha una lunga tradizione nel mondo esoterico, ma è del tutto
infondata.
Nell’epilogo del romanzo Langdon medita sul fatto che il «peccato» esiste,
ma non è quello di cui parla la Chiesa Cattolica. È la «negazione»
(denial), una «pandemia globale» che fa sì che cerchiamo di non pensare
alla bomba a orologeria della sovrappopolazione mondiale che ticchetta e
che distruggerà certamente l’umanità, distraendoci e rivolgendo la
nostra attenzione ad altri problemi, tutti in realtà meno urgenti.
La Chiesa Cattolica è la principale responsabile di questo «peccato»
universale. Si oppone alla sterilizzazione di massa – di cui il virus
del romanzo è un’ovvia metafora – e alla «diffusione capillare degli
anticoncezionali», specie in Africa. La dottoressa Sinskey spiega che il
Papa e i vescovi «hanno speso un’enorme quantità di soldi e di energie
per indottrinare i paesi del Terzo mondo e indurli a credere che la
contraccezione sia un male». «Chi meglio di un gruppetto di ottuagenari
celibi può spiegare al mondo come si fa sesso?» risponde con il
consueto livore anti-cattolico Langdon. E, in uno scambio con Zobrist,
la Sinskey si vanta del fatto che l’Organizzazione Mondiale della
Sanità ha «speso milioni di dollari per inviare medici in Africa a
distribuire profilattici gratis». Non serve, risponde Zobrist: «dopo di
voi un esercito ancora più numeroso di cattolici si è precipitato ad
ammonire gli africani che se avessero usato i profilattici sarebbero
finiti all’inferno». Per fortuna, ci hanno pensato Bill Gates, il
padrone della Microsoft, e sua moglie Melinda – che per avere
«coraggiosamente sfidato l’ira della Chiesa» meriterebbero di «essere
santificati» – a donare «cinquecentosessanta milioni di dollari per
favorire l’accesso al controllo delle nascite in tutto il mondo». Ma
anche questo sforzo è arrivato troppo tardi.
Chiudendo il romanzo, si rimane perplessi. Brown non può non
sapere che quello dell’esplosione demografica è un mito, un «cavallo
morto» – per usare un’espressione americana – distrutto da innumerevoli
studi statistici che mostrano come gran parte del mondo soffra
precisamente del contrario della sovrappopolazione. L’Europa e la
Russia hanno troppe poche nascite, non troppe, e i giovani sono già
diventati troppo pochi per mantenere livelli adeguati di produzione, di
consumo e di contribuzione pensionistica a favore di chi ha cessato di
lavorare.
La Banca Mondiale prevede che la Cina avrà a breve lo stesso problema.
L’Africa stessa potrebbe mantenere una popolazione ben superiore a
quella attuale, con una migliore e più razionale distribuzione delle
risorse. In un momento in cui da tanti grandi economisti a Putin tutti
paventano semmai il «suicidio demografico» evocato dal beato Giovanni
Paolo II (1920-2005) sembra paradossale che Brown si presenti a frustare
il cavallo morto della sovrappopolazione, riprendendo un vecchio mito
che sembrava perfino sprofondato nel ridicolo. Chi prende sul serio
oggi il Club di Roma che nel 1970 prevedeva intorno al 2000 guerre
mondiali per il controllo di risorse agricole che sarebbero dovute
venire a mancare a causa dell’aumento della popolazione?
Ma Brown non è solo. Per rimanere a casa nostra Marco Pannella,
Dario Fo, Eugenio Scalfari – per non parlare di Gianroberto Casaleggio,
il vero capo del movimento di Beppe Grillo, che considera anche lui
necessario ridurre da sette miliardi a un miliardo gli attuali abitanti
della Terra per assicurare loro un luminoso futuro a cinque stelle –
hanno cercato di rilanciare negli ultimi anni, in un coro unanime e
sospetto, i vecchi miti della sovrappopolazione. Nostalgie della loro
giovinezza? No, c’è una ragione precisa per questo ritorno a miti
screditati. Si tratta di fare propaganda per la sterilizzazione forzata,
l’aborto, l’eutanasia e anche per l’ultimo abominio, l’infanticidio
dei bambini già nati – e sfuggiti all’aborto – di cui si paventano
malattie gravi, mascherato sotto il nome ipocrita di «aborto
post-natale» e per cui si è già cominciato a battere la grancassa.
Il virus del dottor Zobrist – purtroppo, direbbe Brown – non esiste,
è solo un’invenzione da romanzo e non è possibile immetterlo nell’aria
per sottoporre a sterilizzazione forzata, senza che possa in alcun
modo opporsi, un terzo della popolazione mondiale e i suoi discendenti.
Ma siccome la «negazione» e il non voler pensare all’inevitabile e
relativamente imminente – cento anni al massimo – fine dell’umanità
dovuta alla sovrappopolazione è l’unico vero «peccato», è chiaro che si
deve fare qualcosa. Subito: e non manca, come in tutti i romanzi di Dan
Brown, la solita avvertenza in prima pagina secondo cui tutti i
riferimenti scientifici «si basano su dati reali». Così, il libro si
risolve in un manifesto per quella che il beato Giovanni Paolo,
Benedetto XVI hanno chiamato la cultura della morte: la cultura dei
«disegni di morte» evocata da Papa Francesco nella Messa d’inaugurazione
del suo pontificato. Se un virus che rende molti sterili non è
disponibile, non resta che lottare contro le nascite con altri mezzi. E
favorire le morti: Langdon ricorda che «negli Stati Uniti circa il
sessanta per cento delle spese sanitarie serve a curare i pazienti
durante gli ultimi sei mesi di vita». «Il nostro cervello capisce che è
una pazzia», gli risponde la sua compagna.