di Alessandro Martinetti
In www.chiesa.espressonline.it
Per il pastore d’anime, il caso dei coniugi dei quali uno sia affetto da HIV non presenta soverchia difficoltà, quanto alle raccomandazioni da impartirsi a tali coniugi.
Non si tratta di fare dell’allarmismo gratuito sulla fallacia del condom (non si tratta cioè di sostenere che il condom protegge poco dal contagio). Una considerazione obiettiva sull’uso del condom ritengo debba condurre alla conclusione che il condom protegge (è profilattico, nel senso che previene il contagio), ma non del tutto, e questo basta a configurare un rischio altissimo, perché è sufficiente che l’uso del condom fallisca una sola volta per contrarre un virus potenzialmente esiziale.
Poiché il pericolo del contagio non è azzerato dall’uso del condom (anzi), il pastore dirà con chiarezza ai coniugi in questione che l’atto sessuale consumato adoperando il condom è moralmente disordinato e quindi biasimevole, perché non può qualificarsi altrimenti un atto compiendo il quale si corre il rischio di trasmettere o contrarre un virus così insidioso. E questo, prescindendo dall’indole contraccettiva o non contraccettiva dell’atto suddetto. Infatti, ammesso (e non concesso: la questione – come giustamente afferma Rhonheimer – è legittimamente dibattibile) che l’atto sessuale in questione non sia contraccettivo (ossia, che non comporti un rifiuto della strutturale, intrinseca apertura alla procreazione dell’atto coniugale), cioè che non contrasti con quanto proclamato dall’enciclica “Humanae vitae” (e in genere con l’insegnamento del magistero a riguardo della contraccezione), con ciò si ammetterebbe che l’atto sessuale in questione non è moralmente illecito in quanto contraccettivo, ma questo da solo non basterebbe a escludere che tale atto sia moralmente illecito, non in quanto contraccettivo ma per altre ragioni.
Anche Rhonheimer che altro fa se non qualificare come moralmente illecito l’atto in questione, nonostante tale atto non sia contraccettivo (come egli sostiene nell’articolo comparso su “The Tablet” nel 2004, e, in maniera meno recisa, nell’articolo scritto per www.chiesa)?
Certo, l’atto in questione non sarebbe – secondo Rhonheimer – “contro natura” (scrive per www.chiesa: “Se essi [i coniugi] non sono d’accordo [con chi li esorta all’astinenza, e compiono l’atto sessuale usando il condom], io non penserei che il loro rapporto sessuale sia ciò che i teologi morali chiamano un peccato ‘contro natura’ al pari della masturbazione o della sodomia, come alcuni teologi morali sostengono”). E tuttavia tale atto sarebbe moralmente illecito, anche secondo Rhonheime. Se così non fosse, Rhonheimer non avrebbe motivi per non incoraggiare “mai una coppia a usare un preservativo” e per sostenere che “la completa astinenza sarebbe la scelta moralmente migliore, non solo per ragioni prudenziali (i condom non sono completamente sicuri nemmeno quando sono usati con attenzione e correttamente), ma perché corrisponde meglio alla perfezione morale – a una vita virtuosa – astenersi del tutto da atti pericolosi, piuttosto che prevenire i loro pericoli usando uno strumento che aiuta ad aggirare l’esigenza di sacrificio”.
Se una scelta non è la “moralmente migliore”, significa che essa contiene almeno un aspetto di illiceità/malvagità (come potrebbe altrimenti essere la scelta “non migliore”?), e che quindi va deplorata (giacché il male non può che essere deplorato). Concretamente, quindi, il teologo moralista, quand’anche non ritenga che l’atto in parola configuri un caso di contraccezione (e quindi ritenga che non sia la – inesistente – indole contraccettiva dell’atto a macchiare lo stesso di illiceità), deve dire con nettezza ai coniugi che il loro atto, seppure per ragioni che non attengono all’indole contraccettiva (supposta inesistente) dell’atto stesso, sarebbe moralmente disordinato, cioè che sarebbe moralmente illecito compierlo. Come asserisce Rhonheimer, “ciò che deve essere vinto, ed è normativo sconfiggere, è l’intrinseco disordine morale in quanto tale”.
Molto più impegnativo, per un teologo morale, è stabilire se il suddetto atto tra coniugi cada sotto la condanna della “Humanae vitae” (e in genere del magistero al riguardo), cioè se sia contraccettivo.
Su questo legittimamente si confrontano posizioni diverse. Il magistero non si pronuncia al riguardo, e che non lo faccia è anche testimoniato dal fatto che la congregazione per la dottrina della fede non abbia “censurato” né le affermazioni di chi ritiene contraccettivo tale atto, né di chi lo ritiene non contraccettivo (Rhonheimer stesso riferisce che la congregazione per la dottrina della fede, allora guidata dal cardinale Ratzinger, “non aveva trovato nessun problema” nel suo articolo “The truth about condoms”, difendente la non contraccettività dell’atto in questione).
Ma, quale che sia l’esito della disputa, la condotta del pastore non può mutare, per almeno due motivi:
1) se l’atto in questione è contraccettivo, esso va riprovato (cioè indicato come moralmente disordinato) sia perché contraccettivo, sia perché esponente a un grave contagio;
2) se invece l’atto in questione non è contraccettivo, esso va comunque riprovato, non perché contraccettivo, ma perché esponente a un grave contagio.
Il pastore si troverebbe invece in difficoltà nell’emettere un giudizio al riguardo se il condom procurasse una prevenzione infallibile dal contagio: in questo caso s’invaliderebbe infatti la considerazione 2. Ma si tratta di un’ipotesi che non eccede il livello teorico, giacché è ragionevole prevedere che mai l’uso del condom potrà garantire una protezione totale dal contagio.
Quanto a ciò che ha detto Benedetto XVI in “Luce del mondo”, ritengo si debba concordare con Rhonheimer laddove afferma:
“Le sue [del papa] affermazioni non dichiarano che l’uso del condom sia privo di problemi morali o sia in genere permesso, anche per finalità profilattiche [cioè, per evitare un contagio]. Papa Benedetto parla di ‘begründete Einzelfälle’, che tradotto letteralmente significa ‘giustificati singoli casi’ – come il caso di una prostituta – nei quali l’uso del condom ‘può essere un primo passo nella direzione di una moralizzazione, una prima assunzione di responsabilità’. Ciò che è ‘giustificato’ non è l’uso del condom come tale: non, almeno, nel senso di una ‘giustificazione morale’ da cui consegua una norma permissiva tipo ‘è moralmente permesso e buono usare in condom in questo e quel caso’. Ciò che è giustificato, piuttosto, è il giudizio che ciò può essere considerato un ‘primo passo’ e ‘una prima assunzione di responsabilità’. Papa Benedetto certamente non ha voluto stabilire una norma morale che giustifichi eccezioni”.
In altri termini, non solo il papa non coonesta la prostituzione, ma neppure svolge una considerazione come la seguente: “Visto che hai deciso di prostituirti e che sei affetto da HIV, è moralmente permesso e buono che tu usi il condom. Se ti prostituisci ti comporti male, quindi non prostituirti, ma, poiché hai deciso di prostituirti, almeno usa il condom per prevenire il contagio, perché è moralmente migliore (ossia, è moralmente meno malvagio) per chi si prostituisce ed è affetto da HIV usare il condom che non usarlo”.
Il papa non fa un discorso del genere, perché, come scrive Rhonheimer, “la sola cosa che la Chiesa può eventualmente insegnare circa, ad esempio, a uno stupro, è l’obbligo morale di astenersi da esso del tutto, non di portarlo a termine in una modalità meno immorale. Ci sono contesti nei quali le indicazioni morali perdono completamente il loro significato normativo poiché esse possono al massimo diminuire un male, non essere dirette al bene”. E ancora: “La Chiesa deve sempre proporre alla gente di fare il bene, non il male minore; e la cosa buona da fare – e quindi da consigliare – non è di agire immoralmente e nello stesso tempo di diminuire l’immoralità minimizzando i possibili danni causati da essa, ma di astenersi dal comportamento immorale in tutto”.
Applicato al nostro caso: il papa, come ogni buon pastore, insegna al prostituto/a affetto/a da HIV l’obbligo morale di astenersi dalla prostituzione, che è intrinsecamente malvagia, di contrirsi e cambiare vita, e non esorta il/la prostituto/a a prostituirsi usando il condom. Se lo facesse, (A) esorterebbe a intraprendere una sorta di via morale (o meno immorale) per praticare l’immoralità: ma un pastore (e un semplice credente) deve incoraggiare alla perfezione morale tutta intera, e non a rimanere nell’immoralità in un modo per ipotesi meno immorale. Dico “per ipotesi meno immorale”, giacché l’uso del condom per evitare il contagio non renderebbe comunque meno immorale quell’atto immorale che è il prostituirsi.
Ciò che il papa fa è diverso (B). Egli osserva che se il/la prostituto/a utilizza il condom mostra un qualche senso di responsabilità almeno nei confronti di quel valore che è l’incolumità fisica altrui, e questo gesto di responsabilità “può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole”, “un primo passo sulla strada che porta ad una sessualità diversamente vissuta, più umana”.
La differenza tra A e B può sembrare cavillosa e labile, ma è essenziale. Per dirla ancora con Rhonheimer: “Il papa non sostiene che usare il preservativo per prevenire le infezioni di HIV significa agire responsabilmente [cioè il papa non sostiene la posizione A]. Una reale responsabilità, per delle prostitute, significherebbe astenersi completamente da contatti sessuali rischiosi e immorali e cambiare completamente il loro stile di vita. Se non lo fanno (perché non possono, o non vogliono), esse agiscono almeno soggettivamente [ecco la considerazione B, accettata dal papa] in un modo responsabile quando cercano di prevenire l’infezione, o almeno agiscono meno irresponsabilmente di quelle che non lo fanno, che è un’affermazione alquanto diversa [dalla posizione A]“.
Se il papa avesse assunto la posizione A, sarebbe incorso nello stessa svista del cardinale Danneels, il quale (affermando – come fece nel 2004 – che “se una persona infetta da HIV ha deciso di non rispettare l’astinenza, allora deve proteggere il suo partner e può farlo in questo caso usando un preservativo”, altrimenti infrangerebbe “il quinto comandamento”) giunge proprio ad abbracciare la posizione A, cioè di fatto si rivolge alla persona affetta da HIV nel modo seguente: “Visto che non osservi l’astinenza, è moralmente giustificato e financo doveroso – giacché agendo altrimenti violeresti nientemeno che un comandamento – che tu usi il condom”. Per dirla ancora con Rhonheimer: “Noi non possiamo dire che essi ‘dovrebbero fare così’ oppure sono ‘moralmente obbligati’ a farlo, come il cardinale Danneels sembrava suggerire”.
Per sintetizzare schematicamente la distinzione tra la posizione A e la B, è forse utile richiamare quanto mi sembra di avere acquisito nell’argomentazione dispiegata fin qui, e cioè:
1) occorre sempre amare, ricercare e raccomandare di praticare una condotta perfettamente morale;
2) una condotta intrinsecamente immorale (quale il prostituirsi) non è resa morale né meno immorale da un atto compiuto nell’esplicarla (nel caso, dall’usare il condom);
3) non è lecito incoraggiare il/la prostituto/a affetto/a da HIV a usare il condom (se lo si facesse, si contravverrebbe a 1 e si trascurerebbe 3);
4) la valutazione sulla qualità morale di una scelta deve sempre tener conto del contesto in cui la scelta è operata: poiché nel caso in esame la scelta di usare il condom è operata da chi ha scelto pure di prostituirsi (se la prostituzione è coatta, ossia non è scelta ma è imposta, cambierà la valutazione morale dell’atto), occorrerà riconoscere che la scelta di usare il condom non diminuisce né estingue l’immoralità del prostituirsi, e quindi non può essere raccomandata dal pastore (cfr. 3);
5) tuttavia, poiché la scelta di usare il condom, per quanto strettamente ad essa intrecciata, non s’identifica con la scelta di prostituirsi, è lecito al pastore, pur non trascurando il profondo intreccio tra le due scelte, valutare in sé stessa la scelta di usare il condom, e giudicare che essa, sebbene non raccomandabile (per le ragioni illustrate), è meno immorale (è improntata a un certo “senso di responsabilità”) dell’opposta, cioè della scelta di non usare il condom, perché esercita una premura per la salute dell’altro maggiore di quella che si eserciterebbe se si scegliesse di non usare il condom.
Mi pare che le affermazioni di Benedetto XVI in “Luce del mondo” siano congruenti con le considerazioni sviluppate in questi cinque punti. Ci vedo anche la tenera sollecitudine del padre, pronto in ogni circostanza ad avvistare e “sorprendere”, per avvalorarlo e incoraggiarlo e rinfocolarlo, ogni barlume di bene, ogni soprassalto di resipiscenza che affiori dal fango in cui si è cacciato il figliol prodigo.
Quanto al caso di coniugi dei quali uno sia affetto da HIV, il papa non ne parla, “simpliciter”. Quindi chi vuole estendere le considerazioni del papa a siffatto caso compie un’operazione un po’ azzardata. Tuttavia, se si esegue questa operazione, occorre a mio sommesso avviso:
1) tenere presente che – come scrive Zagloba – “lo si fa, naturalmente, a proprio rischio e pericolo e senza in alcun modo impegnare l’autorità del papa”;
2) tenere in considerazione i cinque punti enucleati in precedenza.
Pertanto, anche nel caso in oggetto il pastore (o il fedele laico) a mio avviso non deve (cfr. sopra, n. 3) – come invece sostiene Zagloba – “dire al coniuge del malato che il Signore lo chiama a una difficile croce, a una particolare unione alla croce di Cristo, e anche dirgli che avere rapporti non protetti è peggio che avere rapporti protetti e se non riesce a compiere interamente il dovere morale cerchi almeno di non mettere in pericolo la vita propria e quella della persona amata”. Questa somiglia tanto alla posizione del cardinale Daneels, opportunamente – a mio avviso – criticata da Rhonheimer perché – come illustrato – finisce per risolversi nell’esortazione: “non peccare, ma se pecchi almeno fallo in modo morale, fa’ ciò che è moralmente buono pur nel peccato, cioè usa il condom”. Esortazione che però – come lamentato da Rhonhemeir – trascura che “sarebbe semplicemente privo di senso stabilire delle norme morali per dei comportamenti intrinsecamente immorali”; “la Chiesa deve sempre proporre alla gente di fare il bene; […] la cosa buona da fare – e quindi da consigliare – non è di agire immoralmente e nello stesso tempo di diminuire l’immoralità minimizzando i possibili danni causati da essa, ma di astenersi dal comportamento immorale in tutto”. Talché “non dirò loro [a persone promiscue, o ad omosessuali, infetti da AIDS i quali usino il preservativo] di non usare il preservativo. Semplicemente, non parlerò loro di ciò e presumerò che, qualora scelgano di avere rapporti sessuali, manterranno almeno un certo senso di responsabilità.”
Quest’ultima citazione, tratta dall’articolo di Rhonheimer “The truth about condoms”, mi pare chiarisca bene quale debba essere il contegno di un pastore nel caso in oggetto.
Oso dirmi convinto che papa Joseph Ratzinger non terrebbe, nel caso, contegno altro da quello presentato e raccomandato da Rhonheimer. Del quale, in conclusione, mi piace segnalare la genuina umiltà (che è propria di chi auspica il trionfo della verità e non delle proprie opinioni) e la filiale devozione nei confronti della Chiesa, testimoniate limpidamente da queste dichiarazioni contenute nella chiusa dell’intervista resa a “Our Sunday Visitor”:
“Spero che le cose diventino più chiare in un prossimo futuro tramite qualche ulteriore pronunciamento delle autorità della Chiesa o qualche precisazione ufficiale: il che non significa, per inciso, che mi attendo di essere convalidato in tutte le mie vedute. Se ciò che ho scritto contribuisce a rendere le cose più chiare, mi sentirò completamente ripagato dei miei sforzi, anche se dovesse emergere che mi sbagliavo sotto qualche rispetto. Frattanto dovremmo discutere queste questioni in spirito di comunione e di mutuo rispetto”.
Per quel che vale, anche il sottoscritto argomenta cercando di non sbagliare, ma senza la pretesa di aver indubitabilmente ragione, e comunque rimettendosi all’autorità magisteriale.
12 dicembre 2010