Il week-end ci ha portato un buon numero di polemiche sterili, specie in Germania (ma non solo), a proposito di Martin Lutero (1483-1546) e dei due discorsi che il Papa gli ha dedicato visitando il 23 settembre l’ex-convento agostiniano di Erfurt, dove Lutero fu ordinato sacerdote nel 1507. A Erfurt Benedetto XVI ha proposto ai cattolici un nuovo «incontro con Martin Lutero», affermando che la domanda sul ruolo della fede e sul peccato, «questa scottante domanda di Martin Lutero deve diventare di nuovo, e certamente in forma nuova, anche la nostra domanda».
I commenti correnti vanno dall’idea che il Pontefice abbia riabilitato Lutero, con conseguente applauso scrosciante dei cattolici progressisti e vesti stracciate da parte di alcuni «tradizionalisti», a quella – prospettata da alcuni dirigenti protestanti tedeschi, e forse più vicina alla realtà – che Benedetto XVI abbia voluto ricordare ai luterani germanici di oggi, piuttosto liberali in materia sia di teologia sia di morale, che su questioni come i matrimoni omosessuali o la certezza della resurrezione di Cristo come evento realmente verificatosi nella storia Lutero era molto più rigoroso – e, se si vuole, più «cattolico» – di loro, suggerendo che – di fronte a certe loro posizioni – oggi si rivolterebbe nella tomba.
A queste discussioni manca il contesto. Quelli di Erfurt non sono certamente i primi discorsi dove il Papa parla di Lutero. Da anni, e come ci ha ricordato da ultimo in un in un incontro del 15 gennaio 2011 con una delegazione luterana giunta a Roma dalla Finlandia, di cui La Bussola Quotidiana ha dato conto, Benedetto XVI afferma di dare molta importanza a un testo che, quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha contribuito a redigere: la Dichiarazione congiunta della Chiesa Cattolica e della Federazione Luterana Mondiale sulla dottrina della giustificazione, firmata ad Augusta il 31 ottobre 1999. In questa Dichiarazione si riconosce che non era senza fondamento la domanda posta da Martin Lutero a un mondo orgoglioso, caratterizzato dal clima del Rinascimento in cui l’uomo si affermava, secondo un’espressione di Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), tui ipsius quasi arbitrarius honorariusque plastes in quam malueris tute formam effigas, «plasmatore e scultore di se stesso [così che] tu ti possa foggiare da te stesso nella forma che avrai preferito». È Dio che salva l’uomo o l’uomo sui ipsius plastes et fictor si salva da solo? La ragione può salvare senza la fede?
Nella Dichiarazione di Augusta – che ricorda certe formulazioni proposte nel dialogo fra i rappresentanti cattolici e il più diretto collaboratore di Lutero, Filippo Melantone (1497-1560), un dialogo che non si concluse soprattutto per l’intervento politico dei principi tedeschi che ormai avevano deciso di rompere definitivamente con Roma – luterani e cattolici concordano sul fatto che «l’uomo dipende interamente per la sua salvezza dalla grazia salvifica di Dio». Pertanto, «quando i cattolici affermano che l’uomo, predisponendosi alla giustificazione e alla sua accettazione, “coopera” con il suo assenso all’azione giustificante di Dio, essi considerano tale personale assenso non come un’azione derivante dalle forze proprie dell’uomo, ma come un effetto della grazia». Per quanto fondamentale sia l’armonia tra fede e ragione, se si deve rispondere alla domanda se ultimamente sia la fede o la ragione a salvarci la risposta non è oggetto di dubbi: è la fede che salva.
La Dichiarazione congiunta di Augusta è criticata sia «da destra» da chi la ritiene troppo conciliante con i luterani – ancora nel 2010 il superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da mons. Marcel Lefebvre (1905-1991), mons. Bernard Fellay, ha ripubblicato suoi scritti su questo testo in un libro al vetriolo, L’hérésie justifiée («L’eresia giustificata», Le Sel de la Terre, Avrillé 2010), accusando di riabilitare l’eresia direttamente Benedetto XVI – sia «da sinistra», da chi come Hans Küng pensa e scrive che il Papa si sarebbe incontrato con un mondo luterano conservatore sulla base di un’interpretazione tradizionale e letteralista del peccato originale, che sarebbe «superata».
Certamente la Dichiarazione congiunta ha bisogno di essere ben compresa e interpretata. Non deve dare l’impressione che tutti i problemi tra cattolici e luterani sono risolti. Il Papa lo ha detto il 24 gennaio 2011 ricevendo a Roma una delegazione luterana tedesca e pronunciando un altro importante discorso di cui pure La Bussola Quotidiana ha riferito. Se si ignora questo contesto, in cui il Pontefice parte dalla Dichiarazione congiunta e la valorizza, ma elenca anche con franchezza i problemi irrisolti, si rischia di non capire neanche i discorsi di Erfurt. In questa prospettiva, vanno ricordati anche altri due elementi.
Ricevendo i luterani finlandesi il 15 gennaio, il Papa ha richiamato pure un altro documento più recente, che definisce un «risultato degno di attenzione». Si tratta del testo del 2010 La giustificazione nella vita della Chiesa prodotto dal Gruppo di dialogo cattolico-luterano nordico in Finlandia e in Svezia. Più lungo della Dichiarazione congiunta (134 pagine), questo documento approfondisce sia il consenso sia il dissenso, e mostra come le divergenze sul rapporto tra fede e ragione tra la tradizione cattolica e Lutero abbiano generato gravi problemi nella storia della Chiesa. Queste stesse divergenze sono state evocate da Benedetto XVI nell’enciclica del 2007 Spe salvi, in particolare nel settimo paragrafo, dove sono mostrate le responsabilità di Lutero nel separare la fede dalla ragione, rischiando di ridurre la fede stessa a un qualche cosa di volontaristico e di sentimentale, con conseguenze rovinose per tutto il pensiero europeo successivo.
A Erfurt il Papa ha detto che le domande poste da Lutero a un mondo dominato dall’umanesimo e dal Rinascimento, che erano penetrati anche nella Chiesa, e che esaltavano la ragione a scapito della fede e inneggiavano alla grandezza dell’uomo dimenticando il peccato originale, erano sensate. La domanda di Lutero all’umanesimo, la quale implica che il peccato ha un ruolo centrale che non può essere eluso e che «il male non è un’inezia», merita ancora – ha detto il Papa a Erfurt – tutta la nostra attenzione. Rivendicare il primato della fede contro l’orgoglioso razionalismo rinascimentale: è questo il senso in cui il Papa parla dell’«interesse» di un incontro con Lutero oggi. Ed è – i dirigenti luterani tedeschi hanno capito bene – anche un argomento ad hominem perché oggi proprio tante comunità protestanti del Nord Europa che accettano l’aborto, l’eutanasia, il matrimonio omosessuale e teologie che, come ha detto il Papa, «annacquano» la fede con il «pericolo di perderla» sono vittima di quello stesso razionalismo che ha le sue radici remote nell’umanesimo contro cui era insorto Lutero.
Se però leggiamo i discorsi di Erfurt, com’è giusto fare, nel contesto di tutto il Magistero di Benedetto XVI su Lutero ci convinciamo che il Papa ci invita a prendere sul serio le domande del monaco di Erfurt – domande , per di più, formulate in gran parte quando era ancora cattolico – ma non certo ad accettare le sue risposte. Infatti, come emerge proprio dalla critica della Spe salvi, l’affermazione della fede come primaria rispetto alla ragione diventa nel pensiero maturo di Martin Lutero la tesi di una fede separata dalla ragione, cioè il fideismo. Anche se volessimo prescindere dalle frasi più dure e polemiche di Lutero, più frequenti negli ultimi anni della sua vita – come quelle in cui invitava a considerare la ragione «la più grande prostituta del diavolo» – non è periferica, ma centrale nel suo pensiero la svolta denunciata da Benedetto XVI nel celebre discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006, per cui in Lutero a un certo punto «la metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte [rispetto a quella biblica, alla sola Scriptura], da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa».
Nelle parole stesse di Lutero, «la ragione è direttamente opposta alla fede; perciò si deve abbandonarla; nei credenti essa dev’essere uccisa e sepolta»; «deve essere affogata nel battesimo». Per essere davvero se stessa, la fede divorzia – nel senso etimologico del termine, che fa riferimento a due strade che divertunt, divergono – dalla ragione e dalla filosofia greca, così che Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona vede in Lutero la prima ondata di quella «deellenizzazione», cioè di un’infausta separazione della fede cattolica dall’eredità greca, quindi dalla ragione, che è responsabile di tutti i guai ideologici che l’Europa ha conosciuto nei secoli successivi. Lutero butta via il bambino con l’acqua sporca. Per reagire al razionalismo umanista, butta via anche la ragione, l’eredità della filosofia greca e del diritto romano. Mentre «la cultura dell’Europa – lo ha ribadito il Papa in Germania al Parlamento Federale, con una sorta di sintesi del discorso di Ratisbona – è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa». Lutero aveva torto: alla Grecia e a Roma non si può rinunciare.
Quali sono le conseguenze della rinuncia di Lutero all’eredità greca e romana, cioè alla ragione e al diritto fondato sulla ragione? Si potrebbe parlare di «eterogenesi dei fini», un’espressione che risale a Giambattista Vico (1668-1744) e che è passata a indicare un’azione o un pensiero che, immesso nella storia, finisce per causare effetti opposti a quelli che si proponeva. Così, sganciando la ragione dalla fede e lasciandola, per così dire, libera di operare senza il freno del confronto con la teologia, è nell’ambito del protestantesimo che prospera quello stesso razionalismo che Lutero, spaventato dall’umanesimo, affermava di voler combattere. La svalutazione della ragione porta molti eredi di Lutero – anche se non tutti – a negare l’esistenza di un diritto naturale, di principi e di leggi che proprio in forza della ragione s’impongono a tutti gli uomini – e anche ai governanti. Il governante si trova così in grado di esercitare il suo potere secondo la regola dell’assolutismo: un potere absolutus, cioè solutus ab, «sciolto da» ogni vincolo a una legge superiore.
Se non ci sono princìpi che la ragione può conoscere e che valgono per tutti, la volontà del sovrano non ha limiti. Secondo l’espressione del filosofo del diritto Juan Vallet de Goytisolo (1917-2011), che abbiamo recentemente commemorato su La Bussola Quotidiana in occasione della sua scomparsa, si passa «dal legislare come legere al legislare come facere». Per chi crede nel diritto naturale l’autorità non «crea» la norma ma la «legge» nella natura stessa delle cose: il legislare è un legere. Ma per chi non ci crede l’autorità crea la legge con un puro atto d’imperio e di volontà: il legislare è un facere. Per Lutero la sola fides sembra ergersi sovrana, dopo avere divorziato dalla ragione. Ma è una sovranità limitata al campo della teologia, che lascia tutto il resto del pensare e dell’agire umano – una volta rimossa la ragione – alla volontà di potenza e all’arbitrio del principe. Così, la svalutazione della ragione e la prima ondata della deellenizzazione non creano libertà, ma assolutismo: e si spiega perché tanti principi vogliosi di assolutismo abbiano appoggiato Lutero.
Tutto questo processo – per cui la svalutazione della ragione non produce libertà, ma assolutismo e oppressione che, come il Papa ha ripetuto al Parlamento Federale di Berlino, sono i frutti tipici della negazione del diritto naturale – è stato ricostruito molte volte e con rigore da Benedetto XVI, in particolare nel discorso di Ratisbona e nell’enciclica Spe salvi, senza timore di fare il nome di Lutero come di colui che è alle origini di questa deriva negativa e pericolosa.
Nella storia della scristianizzazione dell’Occidente – un tema centrale del Magistero di Benedetto XVI – non bisogna mai confondere domande e risposte, esigenze comprensibili e modi sbagliati di rispondere a queste esigenze. Il 12 maggio 2010 a Lisbona – in un altro discorso fondamentale per comprendere quelli di Erfurt – il Papa, come fa spesso, ha assunto come punto di partenza il Concilio Ecumenico Vaticano II, «nel quale la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo.
Così da sé stessa la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita». Benedetto XVI invita dunque a distinguere nella modernità – compresa la Riforma, cioè anzitutto Lutero – le domande in parte giuste e le risposte sbagliate, i veri problemi e le false soluzioni, le «istanze», di cui la Chiesa si è fatta carico nella loro parte migliore – ma «superandole» –, e gli «errori e vicoli senza uscita» in cui la linea prevalente della modernità ha fatto precipitare queste istanze, ultimamente travolgendo e negando quanto nel loro originario momento esigenziale potevano avere di comprensibile.
Per il Papa la modernità come insieme di esigenze, Lutero compreso, può e deve essere presa sul serio e diventare oggetto di discernimento. La modernità, ancora: Lutero compreso, come insieme di risposte, è invece finita in «errori e vicoli senza uscita» e in orrori storici. La verità è che alle domande della modernità le risposte giuste le ha date, e poteva darle, soltanto la Chiesa.