domingo, 2 de setembro de 2012

Il Papa che combatté il comunismo, soprattutto quello infiltrato tra i suoi - di Roberto de Mattei

In CR 

George Weigel è un noto teologo e storico americano, autore del bestseller “Testimone dalla speranza. La vita di Giovanni
Paolo II”. Sorprende che Mondadori, che lo ha pubblicato in Italia (Milano 1999, 2001 e 2005), si sia lasciato sfuggire il secondo volume della biografia, stampato dall’editore Davide Cantagalli, con un’ottima traduzione di Giovanna Ossola (“La fine e l’inizio. Giovanni Paolo II, la vittoria della libertà, gli ultimi anni, l’eredità”, Siena 2012, 621 pp., 29 euro). 

Eppure questo libro è per molti aspetti più importante del precedente, di cui rappresenta il seguito e il compimento. Weigel ha avuto il privilegio di trascorrere decine di ore accanto a Giovanni Paolo II, raccogliendo molte testimonianze dalla sua viva voce. Ma l’autore ha anche consultato fonti di straordinario interesse, come gli archivi del Kgb, dello Sluzba Bezpieczenstwa (Sb) polacco e della Stasi della Germania dell’est, traendone documenti che confermano come i governi comunisti e i servizi segreti dei paesi orientali siano penetrati in Vaticano per favorire i loro interessi e infiltrarsi nei ranghi più alti della gerarchia cattolica.

E’ questo un punto in cui il lo storico americano è realmente innovativo. Weigel spiega come dal 1962, in Polonia, il controllo della chiesa si concentrava nel IV dipartimento del ministero dell’Interno, meglio conosciuto come la quarta divisione dell’Sb, con il fine di rafforzare il controllo sulla chiesa e intensificare l’infiltrazione dei servizi segreti nelle istituzioni cattoliche. La nascita di questo dipartimento e l’inasprimento degli sforzi per infiltrare il cattolicesimo polacco coincidevano con la feroce campagna antireligiosa promossa in Unione sovietica da Nikita Kruscev che in occidente veniva presentato, in contrapposizione a Stalin, come un comunista dal “volto umano”.

Erano gli anni della distensione, e Kruscev, con il presidente americano Kennedy e Papa Giovanni XXIII, era un’icona del “buonismo” internazionale. Ma, come sottolinea Weigel, “per ironia della sorte la ripresa della persecuzione delle chiese e delle comunità cristiane in Unione sovietica nei primi anni 60 avvenne proprio quando Giovanni XXIII e la diplomazia della curia di Roma decisero un nuovo corso rispetto al problema del comunismo, quello che prese il nome di Ostpolitik” (p. 74).

Il principale rappresentante del nuovo corso di Giovanni XXIII e poi di Paolo VI, fu mons. Agostino Casaroli (1914-1998). Egli era convinto che le persecuzioni dei cattolici nei paesi comunisti fossero dovute anche alla politica “aggressiva” di Pio XII e salutò con soddisfazione l’elezione di Giovanni XXIII, che gli affidò importanti missioni nell’est europeo. Casaroli e i suoi collaboratori, a cominciare da mons. Achille Silvestrini, erano uomini di grande abilità, ma troppo fiduciosi nelle armi della diplomazia.

Di fronte alla poderosamacchina sovietica, la Santa Sede era priva di ogni forma di controspionaggio con cui poter resistere alla disinformazione e alla destabilizzazione che l’Ostpolitik rendeva possibile. A Roma negli anni del Concilio e del postconcilio il Collegio Ungherese divenne una filiale dei servizi segreti di Budapest. “Tutti i rettori del Collegio dal 1965 al 1987 dovevano essere agenti addestrati e capaci, con competenza sia nelle operazioni di disinformazione sia nell’installazione di microspie. Più della metà degli studenti e degli studiosi del Collegio erano agenti segreti; le autorità del Collegio avevano accesso diretto all’arcivescovo Casaroli, all’arcivescovo Giovanni Cheli (l’uomo di punta di Casaroli per l’Ungheria) e ad altri responsabili dell’Ostpolitik, e diventarono così importanti strumenti della politica del governo comunista ungherese contro il Vaticano” (p. 79).

L’Sb polacco, da parte sua, aveva un collaboratore ecclesiastico ben inserito dal nome in codice di Jankowski, ossia don Michele Czajkowski, uno studioso biblico impegnato nel dialogo tra ebrei e cattolici. L’Sb, secondo Weigel, cercò persino di falsare la discussione del Concilio sui punti più peculiari della teologia cattolica come il ruolo di Maria nella storia della salvezza. Il direttore delIV dipartimento, il colonnello Stanislaw Morawski, lavorò con una dozzina di collaboratori, tutti esperti in mariologia, per preparare un promemoria per i vescovi del Concilio, in cui si criticava la concezione “massimalista” della Beata Maria Vergine del cardinale Wyszynski e di altri presuli (p. 80).

Durante il Vaticano II, ricorda Weigel, l’attività dell’Sb, compresa la campagna denigratoria contro il cardinale Wyszynski, veniva organizzata presso l’ambasciata polacca di Roma, dove agenti del I dipartimento (Servizi segreti esteri) utilizzavano incarichi diplomatici per coprire le loro attività e la sezione del consolato che gestiva i passaporti era un’altra sede per operazioni segrete (p. 81). Fu durante il Concilio che l’8 marzo 1964 Karol Wojtyla si insediò solennemente come arcivescovo metropolita di Cracovia. Nel 1967 Paolo VI lo creò cardinale e quello stesso anno, il 4 agosto, Agostino Casaroli venne nominato “ministro degli Esteri” del Vaticano. Da quel momento Casaroli divenne il protagonista ufficiale della Ostpolitik.

La Ostpolitik di Agostino Casaroli e Paolo VI fu una strategia di impegno e di dialogo con il comunismo che prometteva molto e otteneva poco, osserva Weigel, anche perché il presunto partner non era interessato aldialogo. Eletto Papa il 16 ottobre 1978, Giovanni Paolo II, pochi mesi dopo, nominò inaspettatamente Casaroli cardinale e suo segretario di stato, carica che mantenne fino al 1° dicembre 1990. La strategia del Pontefice non coincideva però con quella del suo principale collaboratore e la Santa Sede sembrò giocare su due registri paralleli.

La linea politica seguita dal Papa nel periodo tra la sua elezione e la fine della rivoluzione di Solidarnosc nel 1989 non fu gestita infatti nella segreteria di stato vaticana, ma negli appartamenti papali. Una linea, quella di Giovanni Paolo II, che non era quella intransigente del cardinale Mindszenty, ma neppure quella “collaborazionista” del cardinale Casaroli. “Per Casaroli – osservò Zbigniew Brzezinski – il comunismo era una forma di potere con cui si doveva convivere.  Per Giovanni Paolo II il comunismo era un male che non si poteva evitare, ma che si poteva indebolire” (p. 165).

“Stabilità” era la parola d’ordine dell’Ostpolitik, e sia il cardinale Casaroli che l’arcivescovo Silvestrini diffidavano di Solidarnosc, che consideravano una forza profondamente destabilizzante per tutta l’Europa centrale e orientale. Essi volevano puntellare lo status quo dell’Europa, fondato sul sistema di Yalta, verso il quale Giovanni Paolo II era invece fortemente critico. Significativo è il lungo colloquio che si ebbe il 15 dicembre 1981, alla Casa Bianca, subito dopo il colpo di stato del generale Jaruzelski, tra il presidente Reagan e il cardinale Casaroli. “Durante i novanta minuti del colloquio fu Reagan quello che parlò di testimonianza morale e del potere della convinzione morale, e fu invece Casaroli che parlò di realpolitik” (p. 162).

Casaroli continuava a difendere il principio di stabilità, contro l’interventismo del presidente americano. “Gli sforzi sovrumani compiuti dai servizi segreti sovietici e del Patto di Varsavia per infiltrarsi in Vaticano, per corrompere e reclutare i funzionari vaticani, e in tal modo ostacolare le iniziative della chiesa, coincise proprio con l’acme della Ostpolitik di Casaroli; di questo non ci può essere alcun dubbio. Più la Santa Sede era accomodante, più aggressivi si facevano il Kgb, l’Sb, la Stasi, i servizi segreti ungheresi, quelli bulgari e tutto il loro squallido apparato” (p. 210).

Si potrebbeaggiungere che in quegli stessi anni oltre 2.500 vescovi si riunirono a Roma per discutere sui problemi del mondo contemporaneo, ma il Concilio Vaticano II, malgrado la richiesta di 454 Padri conciliari di 86 paesi diversi, non disse una parola sul Leviatano comunista che estendeva la sua ombra sul mondo. Gli artefici dell’Ostpolitik erano convinti che con il comunismo si sarebbe dovuto convivere almeno un secolo. Invece, nel 1989, si sgretolò il Muro di Berlino. Giovanni Paolo II vi aveva dato il suo contributo.