Caro Papa, mi scuso per l’ardire che ho nello scriverle una lettera.
Premetto di subire il fascino della sua personalità. Pur privo di
televisione, ho visto il video in cui lei bacia un bambino malato,
mentre le sgorgano calde lacrime, e mi ha commosso. Mi ha ricordato come
baciavo il mio piccoletto malato; o la reazione davanti ai bambini
infermi del Piccolo Cottolengo: li avrei abbracciati, con tutta la
forza… ma non ce la feci.
La sua cordialità italo-latina-cattolica mi piace anche per
questo. Vengo al dunque. Le scrivo riguardo all’intervista da lei
rilasciata a Civiltà Cattolica, e che quasi tutti i giornali hanno
rilanciato con titoli come “Divorzio, gay e aborto: l’apertura di Papa
Francesco”, o simili. I giornalisti, si sa, sono dei
semplicioni, oppure dei furbastri: se si parla di cose di chiesa due su
tre non capiscono un’acca, il terzo equivoca, come gli fa comodo. Fa
parte del gioco… Però è bene segnarselo… Nella lunga intervista lei dice
una cosa che sento causa il mio mestiere di insegnante: i cristiani
devono porgere, anzitutto, Cristo, non una morale o dei divieti precisi e
circostanziati. Mi spiego. Ogni tanto a scuola vengono gli “esperti”
che spiegano ai ragazzi che drogarsi fa male, e danno una grande
quantità di informazioni scientifiche sui danni provocati dalla droga.
Concludono con un mantra: “Drogarsi fa male… non fatelo…”. Non di rado
capita che alla fine dell’incontro, qualche ragazzo dica, molto
onestamente: “Sappiamo tutti che drogarsi fa male, ma io, prof., mi
faccio le canne perché a casa mia è un inferno… perché non so perché
sono al mondo… e allora chi se ne frega se fa male!”.
A scuola, caro Papa, invece, dell’aborto non si parla.
Nessun medico dice mai che nel grembo di una donna non crescono girini
ma bambini; non lo dice, per prudenza, neppure il professore di
religione, e neppure quello di biologia; nessuno, o quasi, spiega che la
donna che abortisce soffrirà per il gesto compiuto. Per cui non sarebbe
male che qualcuno facesse vedere un bambino, come è fatto, che forma e
aspetto ha quando viene ucciso…
Eppure, anche in questo caso, è utile, ma spesso non basta:
non si frena una donna, consapevole, che vuole abortire, oggi che è
legale, se questa donna non ha una certa visione di Dio, dell’esistenza,
ed è, nel contempo, sola, respinta dal suo uomo, emarginata dalla
famiglia. Concordo dunque con lei: dobbiamo portare, anzitutto, Cristo,
“l’annuncio della salvezza”, che dia senso alla vita (allora non sarà
necessario drogarsi e sarà automatico accogliere un figlio) e, nelle
circostanze odierne, Cristo-medico.
Lei inizia così: “Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la chiesa ha più bisogno oggi è la capacita?
di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza,
la prossimità. Io vedo la chiesa come un ospedale da campo dopo una
battaglia…”. Anche qui, le sue parole commuovono, per quanto sono vere:
siamo una società di feriti, di persone sole; di feriti nell’identità
sessuale, nella vita affettiva famigliare, perché con uno solo, o due o
tre, o quattro genitori…
Quanti figli oggi divisi tra una casa e l’altra. Di
fronte a tante ferite la chiesa deve essere madre. Mi viene in mente la
preghiera allo Spirito Santo: “Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è
arido, sana ciò che sanguina. Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è
gelido, drizza ciò ch’è sviato”. Abbiamo tutti bisogno del Consolatore,
e, come dice lei, di preti meno manager e più pastori; di più confessori
e di meno documenti; di una chiesa non autoreferenziale. Ma abbiamo
bisogno anche di qualche medicina amara, ogni tanto, per guarire. Poi,
però, c’è qualcosa che non ho capito. Perché a me sembra che nel suo
discorso, nella sua diagnosi, bellissima, manchi una parte (che non
manca, certo, in altri discorsi, come quello di ieri ai medici!).
Lei vede le persone ferite, che, certo, abbondano.
Ci ricorda che Cristo premia anche gli operai dell’ultima ora; che
lascia le 99 pecorelle, dopo averle messe al sicuro, per la pecorona
nera; che accoglie il figliol prodigo con tanto clamore. Ci fa bene,
ricordarlo. Qualcuno magari potrebbe diventare un po’ fariseo e credersi
bravo, quando è solo mediocre. Però, mi scusi, una parolina buona anche
per quelli che, con tanti limiti cercano di stare con la propria moglie
tutta la vita e di accogliere tutti i figli che Dio dà loro, non
sarebbe male… Non saranno feriti dall’aborto, dal divorzio, ma ci sono
anche loro, e combattono ogni giorno: feriti, magari,
dall’incomprensione, da un mondo che li deride, dalla mancanza di
sacerdoti che ricordino anche la via stretta delle virtù.
Perché, vede, in 40 anni di vita in Europa, non so in
Argentina, non ho mai sentito un sacerdote spiegare perché la chiesa è
per l’indissolubilità del matrimonio; non l’ho mai sentito neppure
nominare la parola divorzio, troppo compromettente. Ma se un
prete non crede che il divorzio sia una ferita, perché mai dovrebbe poi
andare a curare chi ferito non è? Perché dovrebbe mettersi nel
confessionale, ad aspettare chi desideri bagnarsi nella misericordia di
Dio? A volte mi sembra che ci sia una realtà vera e una virtuale. Nella
realtà virtuale dei media la chiesa cattivona condanna sempre e i
sacerdoti trattano soltanto di morale sessuale; nella realtà vera, il 90
per cento dei preti, vado a spanne, parla poco di Cristo, molto di
morale in senso lato (aiutare gli africani, rispettare il semaforo), ma
sfugge come la peste gli argomenti che nella realtà virtuale sono
dominanti. Questo è tanto vero che i media hanno sintetizzato quasi
tutti le sue dichiarazioni non così: “Il Papa abbraccia ed invita ad
abbracciare i feriti (dal divorzio, dall’aborto)”; ma così: “Il Papa
apre al divorzio e all’aborto”.
Quelle che per noi sono ferite, per una certa cultura, vedi
quotidiano Repubblica di Scalfari, sono medaglie, conquiste, diritti,
vanto. D’altra parte Lei sa bene che nel nostro “cattolico”
paese, lo sforzo dei cattolici per “tenere insieme” le coppie in
difficoltà è quasi nullo. Così pure lo sforzo non solo per aiutare le
gestanti con problemi, ma anche per incontrare con una pastorale ad hoc
le donne che hanno abortito e che cercano una riconciliazione, perché
pentite.
Se il peccato non è una ferita, come è ormai per gli stessi cristiani, perché curarlo?
Il suo predecessore vedeva, oltre ai singoli feriti, anche un’altra
moribonda, in questo ospedale da campo: la ragione. Per questo insisteva
sul rapporto tra fede e ragione e sui principi non negoziabili: perché
l’uomo, per guarire, deve essere abbracciato, curato, soccorso; ma
bisogna anche che usi uno dei doni che Dio gli ha fatto, la ragione,
appunto. Dire che drogarsi fa male, lo dicevamo, non basta. Però è un
aiuto. Di una ragione rimessa davvero al centro, con le sue potenzialità
e i suoi limiti, nel suo vero rapporto con la fede, hanno bisogno anche
i non credenti, che non riconoscono Cristo e che non possono che
vagliare il credo cristiano se non alla luce della sua ragionevolezza.
Soprattutto credo che non si possa dimenticare che non esistono solo i feriti, ma anche i feritori;
che compito del pastore è sorreggere le pecore, ma anche scacciare il
lupo che le aggredisce. Non si può dimenticare, per esempio, che una
cosa è la donna che abortisce per svariati “motivi”; una cosa sono gli
apostoli dell’aborto. Quelli che sui giornali hanno spiegato per decenni
che il feto è un grumo di cellule. Di fronte a loro, non feriti, ma
feritori, ci vedrei bene la frusta di Gesù nel tempio.
Penso ora, cambiando argomento, alla sua frase sui gay: vero,
ma si può omettere il fatto che oggi il problema è ben più complesso,
perché vi è una cultura gay – che molti omosessuali non condividono –
che vuole dare i bambini in adozione a due uomini, o a due donne?
Si può, di fronte a un dibattito mondiale, ignorare che la direzione
che stiamo prendendo, tramite leggi liberticide, è il matrimonio gay
(con relativa vendita di ovuli, sperma, uteri, figli)? Un discorso vero,
è un discorso completo. I bambini che ormai a milioni sono figli di due
padri o di due madri non possono stare fuori dal discorso gay, oggi.
Sono feriti, attuali o potenziali, anche loro.
Riguardo alla completezza, mi chiedo, ancora, cosa significa la parola “coscienza”, come Lei l’ha usata nella lettera a Scalfari? Scalfari ne ha tratto subito una conseguenza molto interessata, e molto anti cristiana.
Riguardo alla completezza, mi chiedo, ancora, cosa significa la parola “coscienza”, come Lei l’ha usata nella lettera a Scalfari? Scalfari ne ha tratto subito una conseguenza molto interessata, e molto anti cristiana.
Il suo predecessore avrebbe detto che la parola “coscienza”,
non definita, senza aggettivi, come se fosse parola dal significato,
oggi, inequivocabile, viene usata dai sostenitori del relativismo per
dire che ognuno si fa la verità e la morale come vuole, “secondo la sua
coscienza”. Sono certo che lei concorda. Discorso completo,
dicevo, cioè non equivocabile. A un certo punto lei afferma: “Penso
anche alla situazione di una donna che ha avuto alle spalle un
matrimonio fallito nel quale ha pure abortito. Poi questa donna si è
risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa
enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita
cristiana. Che cosa fa il confessore?”. Lei fa la domanda, e non
risponde. E’ un problema. Ricordato che l’aborto è un peccato, come tale
sempre perdonabile dove vi sia pentimento, quale è la verità della
chiesa sul matrimonio (visto che nell’esempio da lei fatto la donna si è
“risposata”)?
E’ ancora indissolubile, o meno? La frase, tronca, non permette di capirlo.
Immagino un padre di famiglia, che stenta nel rapporto con la moglie,
che tiene duro, anche nell’interesse dei figli, perché educato nella
concezione cristiana del matrimonio. Potrebbe dirle: “Caro Papa, e io?
Devo continuare a stringere i denti, o mi posso trovare un’altra
compagna meno antipatica?”. Un’altra piccola cosa che non capisco (forse
annebbiato dalla strana vicenda dei Francescani dell’Immacolata). A un
certo punto lei parla di liturgia e fa un cenno al “Vetus Ordo”.
Afferma: “Penso che la scelta di Papa Benedetto sia stata prudenziale,
legata all’aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare
sensibilità. Considero invece preoccupante il rischio di
ideologizzazione del Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione”.
E qui, da semplice amante del gregoriano e dell’antico rito,
che il Vaticano II non si incaricò mai di cancellare, mi domando:
davvero un rito antichissimo, sarebbe, oggi, la concessione
“prudenziale” per nostalgici, con una “particolare sensibilità”?
Il fatto che tra i sostenitori del vecchio rito vi siano anche persone
ideologizzate (non ci sono, altrove?), toglie qualcosa al rito stesso e
alla maggioranza delle persone che lo frequentano con devozione? Infine,
perché tanto garbo per tutti, e, già in altre occasioni, una certa
“fretta” verso chi predilige il modo di pregare che fu dei suoi genitori
e nonni, di sant’Ignazio, san Giovanni Bosco? Non è questa, mi perdoni,
una “durezza” che non userebbe mai verso un “lontano”? Quanto alla
possibile “strumentalizzazione” del Vetus Ordo, essa non è forse,
talora, la conseguenza di innumerevoli abusi e mancanze di segno
opposto? Non è spesso la reazione a una concezione della liturgia di
tipo protestante (non tanto alla semplicità, quanto alla sciatteria con
cui tanti sacerdoti celebrano, non facendo mistero di non credere più
nella Presenza reale)? Simpatie e dubbi, di un cattolico qualsiasi….