quarta-feira, 25 de setembro de 2013

Lettera di un cattolico che su famiglia, aborto e liturgia vorrebbe sentire altro (in coscienza) - di Francesco Agnoli

In CR 

Caro Papa, mi scuso per l’ardire che ho nello scriverle una lettera. Premetto di subire il fascino della sua personalità. Pur privo di televisione, ho visto il video in cui lei bacia un bambino malato, mentre le sgorgano calde lacrime, e mi ha commosso. Mi ha ricordato come baciavo il mio piccoletto malato; o la reazione davanti ai bambini infermi del Piccolo Cottolengo: li avrei abbracciati, con tutta la forza… ma non ce la feci. 

La sua cordialità italo-latina-cattolica mi piace anche per questo. Vengo al dunque. Le scrivo riguardo all’intervista da lei rilasciata a Civiltà Cattolica, e che quasi tutti i giornali hanno rilanciato con titoli come “Divorzio, gay e aborto: l’apertura di Papa Francesco”, o simili. I giornalisti, si sa, sono dei semplicioni, oppure dei furbastri: se si parla di cose di chiesa due su tre non capiscono un’acca, il terzo equivoca, come gli fa comodo. Fa parte del gioco… Però è bene segnarselo… Nella lunga intervista lei dice una cosa che sento causa il mio mestiere di insegnante: i cristiani devono porgere, anzitutto, Cristo, non una morale o dei divieti precisi e circostanziati. Mi spiego. Ogni tanto a scuola vengono gli “esperti” che spiegano ai ragazzi che drogarsi fa male, e danno una grande quantità di informazioni scientifiche sui danni provocati dalla droga. Concludono con un mantra: “Drogarsi fa male… non fatelo…”. Non di rado capita che alla fine dell’incontro, qualche ragazzo dica, molto onestamente: “Sappiamo tutti che drogarsi fa male, ma io, prof., mi faccio le canne perché a casa mia è un inferno… perché non so perché sono al mondo… e allora chi se ne frega se fa male!”.

A scuola, caro Papa, invece, dell’aborto non si parla. Nessun medico dice mai che nel grembo di una donna non crescono girini ma bambini; non lo dice, per prudenza, neppure il professore di religione, e neppure quello di biologia; nessuno, o quasi, spiega che la donna che abortisce soffrirà per il gesto compiuto. Per cui non sarebbe male che qualcuno facesse vedere un bambino, come è fatto, che forma e aspetto ha quando viene ucciso…

Eppure, anche in questo caso, è utile, ma spesso non basta: non si frena una donna, consapevole, che vuole abortire, oggi che è legale, se questa donna non ha una certa visione di Dio, dell’esistenza, ed è, nel contempo, sola, respinta dal suo uomo, emarginata dalla famiglia. Concordo dunque con lei: dobbiamo portare, anzitutto, Cristo, “l’annuncio della salvezza”, che dia senso alla vita (allora non sarà necessario drogarsi e sarà automatico accogliere un figlio) e, nelle circostanze odierne, Cristo-medico.

Lei inizia così: “Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la chiesa ha più bisogno oggi è la capacita? di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia…”. Anche qui, le sue parole commuovono, per quanto sono vere: siamo una società di feriti, di persone sole; di feriti nell’identità sessuale, nella vita affettiva famigliare, perché con uno solo, o due o tre, o quattro genitori…

Quanti figli oggi divisi tra una casa e l’altra. Di fronte a tante ferite la chiesa deve essere madre. Mi viene in mente la preghiera allo Spirito Santo: “Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina. Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò ch’è sviato”. Abbiamo tutti bisogno del Consolatore, e, come dice lei, di preti meno manager e più pastori; di più confessori e di meno documenti; di una chiesa non autoreferenziale. Ma abbiamo bisogno anche di qualche medicina amara, ogni tanto, per guarire. Poi, però, c’è qualcosa che non ho capito. Perché a me sembra che nel suo discorso, nella sua diagnosi, bellissima, manchi una parte (che non manca, certo, in altri discorsi, come quello di ieri ai medici!).

Lei vede le persone ferite, che, certo, abbondano. Ci ricorda che Cristo premia anche gli operai dell’ultima ora; che lascia le 99 pecorelle, dopo averle messe al sicuro, per la pecorona nera; che accoglie il figliol prodigo con tanto clamore. Ci fa bene, ricordarlo. Qualcuno magari potrebbe diventare un po’ fariseo e credersi bravo, quando è solo mediocre. Però, mi scusi, una parolina buona anche per quelli che, con tanti limiti cercano di stare con la propria moglie tutta la vita e di accogliere tutti i figli che Dio dà loro, non sarebbe male… Non saranno feriti dall’aborto, dal divorzio, ma ci sono anche loro, e combattono ogni giorno: feriti, magari, dall’incomprensione, da un mondo che li deride, dalla mancanza di sacerdoti che ricordino anche la via stretta delle virtù.

Perché, vede, in 40 anni di vita in Europa, non so in Argentina, non ho mai sentito un sacerdote spiegare perché la chiesa è per l’indissolubilità del matrimonio; non l’ho mai sentito neppure nominare la parola divorzio, troppo compromettente. Ma se un prete non crede che il divorzio sia una ferita, perché mai dovrebbe poi andare a curare chi ferito non è? Perché dovrebbe mettersi nel confessionale, ad aspettare chi desideri bagnarsi nella misericordia di Dio? A volte mi sembra che ci sia una realtà vera e una virtuale. Nella realtà virtuale dei media la chiesa cattivona condanna sempre e i sacerdoti trattano soltanto di morale sessuale; nella realtà vera, il 90 per cento dei preti, vado a spanne, parla poco di Cristo, molto di morale in senso lato (aiutare gli africani, rispettare il semaforo), ma sfugge come la peste gli argomenti che nella realtà virtuale sono dominanti. Questo è tanto vero che i media hanno sintetizzato quasi tutti le sue dichiarazioni non così: “Il Papa abbraccia ed invita ad abbracciare i feriti (dal divorzio, dall’aborto)”; ma così: “Il Papa apre al divorzio e all’aborto”.

Quelle che per noi sono ferite, per una certa cultura, vedi quotidiano Repubblica di Scalfari, sono medaglie, conquiste, diritti, vanto. D’altra parte Lei sa bene che nel nostro “cattolico” paese, lo sforzo dei cattolici per “tenere insieme” le coppie in difficoltà è quasi nullo. Così pure lo sforzo non solo per aiutare le gestanti con problemi, ma anche per incontrare con una pastorale ad hoc le donne che hanno abortito e che cercano una riconciliazione, perché pentite.

Se il peccato non è una ferita, come è ormai per gli stessi cristiani, perché curarlo? Il suo predecessore vedeva, oltre ai singoli feriti, anche un’altra moribonda, in questo ospedale da campo: la ragione. Per questo insisteva sul rapporto tra fede e ragione e sui principi non negoziabili: perché l’uomo, per guarire, deve essere abbracciato, curato, soccorso; ma bisogna anche che usi uno dei doni che Dio gli ha fatto, la ragione, appunto. Dire che drogarsi fa male, lo dicevamo, non basta. Però è un aiuto. Di una ragione rimessa davvero al centro, con le sue potenzialità e i suoi limiti, nel suo vero rapporto con la fede, hanno bisogno anche i non credenti, che non riconoscono Cristo e che non possono che vagliare il credo cristiano se non alla luce della sua ragionevolezza.

Soprattutto credo che non si possa dimenticare che non esistono solo i feriti, ma anche i feritori; che compito del pastore è sorreggere le pecore, ma anche scacciare il lupo che le aggredisce. Non si può dimenticare, per esempio, che una cosa è la donna che abortisce per svariati “motivi”; una cosa sono gli apostoli dell’aborto. Quelli che sui giornali hanno spiegato per decenni che il feto è un grumo di cellule. Di fronte a loro, non feriti, ma feritori, ci vedrei bene la frusta di Gesù nel tempio.

Penso ora, cambiando argomento, alla sua frase sui gay: vero, ma si può omettere il fatto che oggi il problema è ben più complesso, perché vi è una cultura gay – che molti omosessuali non condividono – che vuole dare i bambini in adozione a due uomini, o a due donne? Si può, di fronte a un dibattito mondiale, ignorare che la direzione che stiamo prendendo, tramite leggi liberticide, è il matrimonio gay (con relativa vendita di ovuli, sperma, uteri, figli)? Un discorso vero, è un discorso completo. I bambini che ormai a milioni sono figli di due padri o di due madri non possono stare fuori dal discorso gay, oggi. Sono feriti, attuali o potenziali, anche loro.
Riguardo alla completezza, mi chiedo, ancora, cosa significa la parola “coscienza”, come Lei l’ha usata nella lettera a Scalfari? Scalfari ne ha tratto subito una conseguenza molto interessata, e molto anti cristiana.

Il suo predecessore avrebbe detto che la parola “coscienza”, non definita, senza aggettivi, come se fosse parola dal significato, oggi, inequivocabile, viene usata dai sostenitori del relativismo per dire che ognuno si fa la verità e la morale come vuole, “secondo la sua coscienza”. Sono certo che lei concorda. Discorso completo, dicevo, cioè non equivocabile. A un certo punto lei afferma: “Penso anche alla situazione di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito. Poi questa donna si è risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che cosa fa il confessore?”. Lei fa la domanda, e non risponde. E’ un problema. Ricordato che l’aborto è un peccato, come tale sempre perdonabile dove vi sia pentimento, quale è la verità della chiesa sul matrimonio (visto che nell’esempio da lei fatto la donna si è “risposata”)?

E’ ancora indissolubile, o meno? La frase, tronca, non permette di capirlo. Immagino un padre di famiglia, che stenta nel rapporto con la moglie, che tiene duro, anche nell’interesse dei figli, perché educato nella concezione cristiana del matrimonio. Potrebbe dirle: “Caro Papa, e io? Devo continuare a stringere i denti, o mi posso trovare un’altra compagna meno antipatica?”. Un’altra piccola cosa che non capisco (forse annebbiato dalla strana vicenda dei Francescani dell’Immacolata). A un certo punto lei parla di liturgia e fa un cenno al “Vetus Ordo”. Afferma: “Penso che la scelta di Papa Benedetto sia stata prudenziale, legata all’aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare sensibilità. Considero invece preoccupante il rischio di ideologizzazione del Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione”.

E qui, da semplice amante del gregoriano e dell’antico rito, che il Vaticano II non si incaricò mai di cancellare, mi domando: davvero un rito antichissimo, sarebbe, oggi, la concessione “prudenziale” per nostalgici, con una “particolare sensibilità”? Il fatto che tra i sostenitori del vecchio rito vi siano anche persone ideologizzate (non ci sono, altrove?), toglie qualcosa al rito stesso e alla maggioranza delle persone che lo frequentano con devozione? Infine, perché tanto garbo per tutti, e, già in altre occasioni, una certa “fretta” verso chi predilige il modo di pregare che fu dei suoi genitori e nonni, di sant’Ignazio, san Giovanni Bosco? Non è questa, mi perdoni, una “durezza” che non userebbe mai verso un “lontano”? Quanto alla possibile “strumentalizzazione” del Vetus Ordo, essa non è forse, talora, la conseguenza di innumerevoli abusi e mancanze di segno opposto? Non è spesso la reazione a una concezione della liturgia di tipo protestante (non tanto alla semplicità, quanto alla sciatteria con cui tanti sacerdoti celebrano, non facendo mistero di non credere più nella Presenza reale)? Simpatie e dubbi, di un cattolico qualsiasi….