Tutto va ormai alla velocità della luce, diceva Bill Gates. Un tempo
perché la macchina del fango cominciasse a lavorare conto un Pontefice
ci voleva qualche mese. Ora è bastata qualche ora. Dopo - anzi, mentre è
ancora in corso - un maldestro tentativo di arruolare il Papa tra i
progressisti, prima di scoprire la sua apologia del celibato sacerdotale
e la denuncia delle leggi sul matrimonio omosessuale come frutto
dell'invidia del Demonio per l'uomo creato a immagine di Dio, è partito
il contrordine compagni. Non è un progressista, è stato un fascista, non
ha condannato la dittatura militare argentina quando c'era, salvo
chiedere scusa dopo. Anzi, ha collaborato con la dittatura. Anzi, ha
personalmente consegnato due gesuiti ai torturatori. Anzi...
Ci sono due versioni. Quella rozza del «Fatto» di Marco Travaglio
che spara a zero sul Papa, e quella in stile avvertimento mafioso di
«Repubblica», sulle cui colonne già prima del Conclave Enzo Bianchi
aveva avvertito che i cattolici adulti prendono sempre i Pontefici con
«spirito critico». E dove da una parte Hans Küng e Vito Mancuso
continuano l'operazione di arruolamento di Papa Bergoglio tra i
progressisti, dall'altra il direttore Ezio Mauro spiega al Pontefice
argentino che cosa gli succederà se darà fastidio: gli sarà chiesta
«piena trasparenza sui suoi rapporti con la dittatura militare
argentina, sugli scandali di compromissione che lo hanno chiamato in
causa come gesuita in vicende mai chiarite».
E invece non c'è nulla da chiarire. Tutto è già stato sviscerato
in libri e contro-libri in Argentina, e non c'è appunto o documento
minore o insignificante che non sia stato pubblicato. Il caso è chiuso.
Mi sono occupato della questione in un lungo articolo del 2010 sul
pensatore cattolico francese Jean Ousset (1914-1994). Che c'entra Ousset
con il nuovo Papa? Non molto, se non fosse che il libro da cui tutti
fanno copia e incolla sui rapporti fra il nuovo Papa e la dittatura
argentina li chiama in causa insieme. Si tratta de «L'isola del
silenzio» del giornalista di sinistra Horacio Verbitsky, tradotto anche
in italiano nel 2006. In Europa i voluminosi scritti di Verbitsky, che
ha prodotto anche altri volumi destinati soprattutto al pubblico
argentino, sono stati volgarizzati dalle inchieste della giornalista
francese, di analoghe idee politiche, Marie-Monique Robin e trasformati
in un romanzo, «Per vendetta», dallo scrittore torinese Alessandro
Perissinotto nel 2009.
Che cosa raccontano questi autori? Che la dittatura
militare argentina, dopo avere conquistato con il colpo di Stato del
1976 il potere - lo terrà fino al 1983 - si trovò a dovere fronteggiare
una forte opposizione, talora con connotati di guerriglia e
terroristici. Senza esperienza specifica in questo tipo di «guerra
sporca», decise d'importare in Argentina militari francesi che avevano
combattuto con tutti i mezzi - tortura compresa - il movimento per
l'indipendenza dell'Algeria e che a loro volta si trovavano nella
necessità di cambiare aria perché in Francia avevano cercato di
rovesciare il governo del generale Charles de Gaulle (1890-1970) e
rischiavano la corte marziale.
Per organizzare lo sbarco di questi ufficiali francesi in Argentina la dittatura
si rivolse alla Chiesa Cattolica - rappresentata dai vescovi ma anche
dall'Opus Dei e dai potenti Gesuiti, il cui provinciale era Bergoglio -,
la quale collaborò con l'associazione di Jean Ousset, La Cité
Catholique, che aveva una branca argentina e di cui alcuni dei militari
che avevano combattuto in Algeria facevano parte. Così le tecniche di
contro-insurrezione piuttosto manesche, e comprensive di tortura,
sperimentate in Algeria furono trasferite in Argentina. E vescovi e alti
gradi dell'Opus Dei e dei Gesuiti fecero anche di peggio, perché
denunciarono ai militari i sacerdoti e laici vicini alla «teologia della
liberazione» d'impronta marxista che si opponevano al regime, alcuni
dei quali furono incarcerati. E non tutti tornarono vivi dal carcere.
Questa ricostruzione, però, è ampiamente fantasiosa.
Verbitsky - forse anche grazie al fatto che gli ultimi governi
argentini dei coniugi Kirchner si sono scontrati duramente con la
Chiesa, guidata dal cardinale Bergoglio, su questioni come il matrimonio
omosessuale (introdotto in Argentina nel 2010) e la politica economica -
ha potuto avere ampio accesso ai documenti dei ministeri e della
polizia. Informatissimo sul dettaglio, il trio Verbitsky-
Robin-Perissinotto è però debolissimo e poco credibile sul quadro
generale. Descrive il mondo cattolico degli anni 1979 come un monolito,
mentre era percorso da fortissime tensioni. Arriva a sostenere che
grazie all'opera di mediazione del nunzio in Argentina e poi cardinale
Pio Laghi (1922-2009), descritto come un autentico malfattore, i seguaci
argentini di monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991) e i vescovi, molti
dei quali progressisti, cooperavano tutti a uno stesso disegno:
sostenere la dittatura fingendo di criticarla.
Del resto, come riassume Perissinotto, monsignor Lefebvre
e il venerabile Papa Paolo VI (1897-1978) sarebbero stati «divisi sulle
questioni di fondo, ma non nella sostanza». Quanto all'Opus Dei, è
esplicitamente citato come fonte autorevole per conoscerla «Il Codice da
Vinci» di Dan Brown.
Con queste premesse non sarebbero da prendere neppure troppo sul serio i dettagli di questa letteratura, ma è falsa anche la sua tesi di fondo. La dittatura militare argentina è dipinta per tutto il periodo del suo governo - dal 1976 al 1983 - come un impero del male, un'accolta di sadici e di torturatori che quasi agivano per pura malvagità.
Come sempre nella storia, che non è mai un film in bianco e nero,
le cose sono più complicate. Il precedente governo peronista aveva
portato il Paese al caos economico e sociale. I terroristi c'erano
davvero. Il rischio di una deriva comunista alla cubana non era
ipotetico, Gli stessi cattolici pagavano un prezzo molto duro.
Basterebbe citare l'assassinio dell'avvocato e filosofo cattolico
neo-tomista Carlos Alberto Sacheri (1933-1974) da parte del gruppo
terroristico ERP, l’Ejército Revolucionario del Pueblo, il 22 dicembre
1974, che lo uccise di fronte alla sua famiglia mentre tornava a casa
dalla Messa.
Nei primi mesi della dittatura, l'idea che i militari potessero mettere
ordine e dare ossigeno a un'economia moribonda fu salutata con favore
anche da esponenti della sinistra politica argentina. In seguito le cose
cambiarono. Il regime militare argentino non mantenne le promesse di
formulare un progetto coerente per l'identità e la riconciliazione
nazionale, si lanciò nella disastrosa avventura della guerra delle Isole
Falkland con la Gran Bretagna e - a fronte di una crescente opposizione
- ricorse a strategie repressive che comportavano gravissime violazioni
dei diritti umani e autentici crimini.
Bisogna dunque distinguere fra i giudizi sulla giunta militare argentina
formulati da esponenti cattolici nei primi mesi della sua attività o
negli anni successivi. Come ha scritto lo stesso cardinale Bergoglio, la
Chiesa «venne a conoscere a poco a poco quello che stava succedendo [le
violazioni dei diritti umani]. All'inizio, ne sapeva poco o nulla».
Non si possono dunque mescolare in un unico calderone, come fanno Verbitsky e i suoi seguaci, dichiarazioni di esponenti della gerarchia ecclesiastica del 1976 o 1977, che esprimevano un cauto appoggio - mai senza riserve - al nuovo governo militare, e apologie del regime degli anni 1980, riferibili a esponenti cattolici - fra cui alcuni vescovi - decisamente minoritari rispetto a una Conferenza Episcopale le cui dichiarazioni assumevano un tono sempre più critico e di denuncia.
Veniamo al regnante Pontefice. Padre Bergoglio è
stato provinciale della Compagnia di Gesù in Argentina dal 1973 al 1979.
In questo periodo ha dovuto fronteggiare la «teologia della
liberazione» d'ispirazione marxista, di cui ha visto per tempo le derive
che la Santa Sede avrebbe poi condannato nel 1984. Alcuni gesuiti,
favorevoli alla «teologia della liberazione» e ostili al provinciale,
cominciarono a muoversi in modo sempre più indipendente rispetto alla
Compagnia di Gesù, respingendo al mittente i richiami del loro
superiore.
Fra questi c'erano i padri Orlando Yorio (morto nel 2000) e Francisco Jalics, animatori di una comunità nel quartiere di Bajo Flores a Buenos Aires.
Nel febbraio 1976, visti inutili i richiami, il provinciale
- cioè l'attuale Pontefice - sciolse la loro comunità. Il cardinale
Bergoglio ha spiegato nella sua autobiografia che Yorio e Jalics al
momento del colpo di Stato avevano già consegnato ai vescovi il progetto
di costituzioni di una nuova congregazione, e che della vicenda
conserva tutta la documentazione. Prima del colpo di Stato, che avvenne
il 24 marzo 1976, Yorio e Jalics erano di fatto già usciti dalla
Compagnia di Gesù, e nel maggio 1976 Yorio fu sospeso a divinis su
iniziativa non di Bergoglio ma del cardinale arcivescovo di Buenos Aires
Juan Carlos Aramburu (1912-2004).
Il maggio 1976 la comunità di Bajo Flores è oggetto di un raid della polizia
e Yorio e Jalics sono arrestati, andando a ingrossare le fila dei
cosiddetti «desaparecidos». «Riappaiono» peraltro dopo sei mesi, in
seguito a un negoziato tra la giunta militare e la Conferenza
Episcopale, che ottiene la loro liberazione. I vescovi che condussero il
negoziato hanno sempre riferito che il padre Bergoglio gli diede
impulso dall'inizio alla fine, insistendo perché i due ex gesuiti
fossero scarcerati.
Sia Yorio sia Jalics hanno accusato l'allora provinciale Bergoglio di averli «denunciati» alla polizia come complici dei terroristi. Verbitsky si è fatto eco di queste gravi accuse, e ha passato anni a cercare documenti per sostenerle.
Che cosa ha trovato? Sostanzialmente nulla, e la minuzia con cui ha frugato
negli archivi è la migliore prova che i documenti non esistono. Alla
fine, Verbitsky può esibire solo un foglietto, l'informativa di un
funzionario del governo, addetto all'Ufficio dei Culti, tale Anselmo
Orcoyen - peraltro redatta dopo la scarcerazione dei due sacerdoti, in
occasione del rinnovo del passaporto a Jalics -, il quale riferiva di
avere saputo da Bergoglio che i due ex-gesuiti avevano cattivi rapporti
con le gerarchie, contro cui sobillavano anche alcune suore, che erano
usciti dalla Compagnia di Gesù e che non trovavano nessun vescovo che li
incardinasse.
Verbistky ha scritto pagine e pagine sul fatto che l'appunto
di Orcoyen contiene tre parole: «sospetto contatto guerriglieri»,
affermando che anche dopo la scarcerazione Bergoglio, riferendo a un
funzionario pubblico della dittatura di possibili contatti di Yorio e
Jalics con la guerriglia, li esponeva consapevolmente a rischi
gravissimi.
Ma a leggere l'appunto, di cui Verbitsky pubblica una fotocopia, insistendo sulla frase finale secondo cui «questi dati sono stati comunicati al signor Orcoyen dallo stesso padre Bergoglio», si scopre che la frase incriminata - «sospetto contatto guerriglieri» - fa parte di un paragrafo dove si riferisce che Jalics era stato per sei mesi in prigione, circostanza che le autorità non avevano bisogno di apprendere da Bergoglio perché la conoscevano benissimo.
E quel «sospetto contatto guerriglieri» è la spiegazione del perché
i due erano stati incarcerati. Da parte sua, il cardinale Bergoglio ha
scritto in seguito che ricorda la conversazione, e che si era parlato di
sospetti di contatti con la guerriglia a carico dei due ex religiosi,
ma che a Orcoyen aveva detto che a quei «sospetti di contatti» - che
comunque sono diversi dai contatti accertati - lui personalmente non
credeva.
L'appunto Orcoyen - il quale, lo ripeto, è l'unico documento
che dovrebbe accusare padre Bergoglio - è il tipico documento
poliziesco su cose riferite, di un tipo che conosciamo anche in Italia. E
che dimostra che il provinciale, in un momento politicamente molto
difficile, era comunque molto cauto: avrebbe potuto dire ben di peggio,
dal momento che sui due ex religiosi c'erano voci che coinvolgevano in
modo pesante non solo l'attività politica ma anche la moralità
personale.
Bergoglio ha scritto che aveva raccomandato prudenza
agli ex confratelli, e che a chiunque chiedesse notizie di loro
rapporti con il terrorismo aveva sempre risposto che a lui questi
rapporti non risultavano. La gerarchia non li abbandonò dopo l'arresto,
tanto che furono liberati. Ma è vero che ebbero difficoltà a farsi
incardinare come sacerdoti diocesani prima a Buenos Aires, poi a Morón e
a Santa Fe, e dovettero trasferirsi all'estero, Yorio, alla fine, prese
un volo per Roma, che peraltro fu pagato dallo stesso Bergoglio.
Verbitsky sostiene che nessun vescovo li voleva incardinare perché ai
vescovi arrivavano cattive informazioni da Bergoglio e dal nunzio Laghi.
Bergoglio nell'autobiografia afferma che fece del suo meglio
per risolvere la situazione di Yorio e Jalics trovando loro un vescovo.
Ma c'è poi così da stupirsi se, con precedenti così tormentati, i
vescovi argentini erano riluttanti a incardinare i due ex-religiosi?
Riassumendo: nella crisi della «teologia della liberazione» degli anni 1970, il provinciale dei Gesuiti si trovò di fronte a una comunità di base particolarmente radicale, e prese provvedimenti perfettamente giustificati. Li prese nel febbraio 1976, prima del colpo di Stato. Dopo il quale non c'è l'ombra di una prova che abbia denunciato i due responsabili della comunità alla polizia. Quando furono arrestati, operò per la loro scarcerazione, che fu ottenuta.
In seguito, a chi gli chiese informazioni sui due, disse la verità
su fatti del passato, senza particolare malanimo. Né risultano
dichiarazioni favorevoli del padre Bergoglio sulla dittatura militare in
genere.
Più tardi, come arcivescovo di Buenos Aires e presidente dei vescovi argentini, promosse una politica di riconciliazione nazionale e purificazione della memoria, in cui anche la Chiesa chiedeva perdono per il sostegno di alcuni vescovi e religiosi - fra cui non c'era stato però Bergoglio - alle politiche repressive della dittatura.
La macchina del fango, dunque, mente come al solito.
E non c'è nulla da chiarire, perché ogni minuto documento è stato
ritrovato e pubblicato. Infine, occorre sottolineare con vigore che -
prendendo provvedimenti contro la teologia della liberazione e chi la
sosteneva - il provinciale Bergoglio fece solo il suo dovere.
Il 5 dicembre 2009 Benedetto XVI ha ricordato il venticinquesimo anniversario dell’istruzione «Libertatis nuntius»
da lui firmata nel 1984 come prefetto della Congregazione per la
Dottrina della Fede in cui condannava la teologia della liberazione e
l’«assunzione acritica fatta da alcuni teologi di tesi e metodologie
provenienti dal marxismo. Le sue conseguenze più o meno visibili fatte
di ribellione, divisione, dissenso, offesa, anarchia si fanno sentire
ancora oggi creando […] grande sofferenza».
Parlando – e la circostanza non è poco significativa – a vescovi
latino-americani, l'attuale Papa emerito aggiungeva in quell'occasione:
«Supplico quanti in qualunque modo si sentissero attratti, coinvolti o
raggiunti nel loro intimo da certi principi ingannatori della teologia
della liberazione perché si confrontino nuovamente con la citata
Istruzione, accogliendo la luce benigna che essa offre con la mano tesa;
a tutti ricordo che la regola suprema della propria fede proviene
dall'unità che lo Spirito ha posto tra la Sacra Tradizione, la Sacra
Scrittura e il Magistero della Chiesa in una reciprocità tale per cui i
tre non possono sussistere in maniera indipendente». Parole che valgono
anche per il Magistero del nuovo Papa Francesco. Resistendo fin da ora
ai tentativi della macchina del fango di distoglierci dall'essenziale
rimestando vecchie menzogne.